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2025-04-05
La Russia apre a garanzie per Kiev. Rubio non si fida: «Fanno sul serio?»
Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov (Ansa)
Le trattative tra Washington e Mosca procedono con moltissima cautela. Tuttavia, qualche spiraglio sembra intravedersi. Giovedì, nel corso di un’intervista a Fox News, uno dei principali negoziatori russi, Kirill Dmitriev, ha aperto a delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina. «Alcune garanzie di sicurezza in qualche forma potrebbero essere accettabili», ha detto, pur ribadendo che per la Russia un eventuale ingresso di Kiev nella Nato resta inammissibile. Le parole del negoziatore russo sono rilevanti alla luce del fatto che finora Mosca aveva chiesto la piena smilitarizzazione dell’Ucraina, opponendosi anche allo schieramento di truppe di peacekeeping sul suo territorio. È importante sottolineare che l’apertura di Dmitriev è arrivata a seguito dei suoi recenti incontri con l’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff: dei faccia a faccia che, secondo Bloomberg News, si sono tenuti a Washington mercoledì e giovedì stesso.
Dall’altra parte, se il Cremlino ha espresso un «cauto ottimismo», assai prudente si è mostrato il segretario di Stato americano, Marco Rubio. Parlando dal vertice Nato di Bruxelles, ha detto che si saprà «entro poche settimane» se la Russia vorrà realmente un accordo in Ucraina. «Il presidente Trump non cadrà nella trappola di infiniti negoziati su negoziati», ha proseguito, per poi aggiungere: «Ci stiamo avvicinando alla pace in Ucraina perché stiamo parlando con entrambe le parti, ma non abbiamo ancora raggiunto alcun risultato».
Ricordiamo che, negli scorsi giorni, Donald Trump aveva espresso irritazione sia verso Volodymyr Zelensky che Vladimir Putin. Al primo aveva rimproverato di non voler firmare l’accordo sui minerali strategici, accusando invece il secondo di tergiversare. Non a caso, alcuni giorni fa, il presidente americano aveva minacciato tariffe secondarie sul petrolio russo. È in questo quadro che, stando a quanto riportato da Nbc News, il team di Trump starebbe suggerendo all’inquilino della Casa Bianca di non tenere una nuova telefonata con Putin, a meno che quest’ultimo non accetti un cessate il fuoco completo. Non è al contempo escludibile che la parziale apertura di Dmitriev sulle garanzie di sicurezza sia una conseguenza delle pressioni di Trump sul Cremlino.
Non solo. Dmitriev è altresì il Ceo del fondo d’investimento sovrano russo. È quindi possibile che, nei suoi colloqui a Washington con Witkoff, abbia affrontato anche il tema dei rapporti economici tra Stati Uniti e Russia. Ricordiamo che, durante la loro telefonata di marzo, Trump e Putin avevano parlato della possibilità di «enormi accordi economici» tra i due Paesi. Un tasto, questo, su cui la Casa Bianca sta battendo, per cercare di incunearsi nelle relazioni tra Russia e Cina. Probabilmente i pesanti dazi appena imposti da Trump a Pechino vanno letti (anche) in quest’ottica: dazi da cui Mosca è stata invece significativamente esentata. Certo, la Casa Bianca ha fatto presente che sono già in essere pesanti sanzioni contro la Russia: ragion per cui, ha precisato, non vigono al momento relazioni commerciali significative con questo Paese. Tuttavia, è interessante notare come i dazi reciproci siano stati annunciati da Trump negli stessi giorni in cui Dmitriev incontrava Witkoff a Washington. Insomma, probabilmente il presidente americano continua ad alternare il bastone alla carota.
Nel frattempo, si sta muovendo anche la Santa Sede. Ieri, il segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, Paul Gallagher, si è sentito con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Secondo una nota della Santa Sede, «il dialogo è stato dedicato al quadro generale della politica mondiale, con particolare attenzione alla situazione della guerra in Ucraina e ad alcune iniziative volte a fermare le azioni belliche». La Russia, dal canto suo, ha espresso «gratitudine alla Santa Sede per la sua assistenza nel risolvere le questioni umanitarie».
Frattanto, è sempre più evidente come il dossier ucraino si intersechi con quello mediorientale. Ieri, il Cremlino ha detto che la questione iraniana va «risolta solo con mezzi politici e diplomatici». «Stiamo lavorando per ripristinare le nostre relazioni con gli Stati Uniti, ma anche l’Iran è un nostro partner, un nostro alleato, con il quale intratteniamo relazioni molto sviluppate e multiformi», ha proseguito. La Russia ha perso significativa influenza in Medio Oriente nel corso del 2024 a causa sia della caduta di Bashar Al Assad che dell’indebolimento di Teheran. Per cercare di recuperare terreno, Putin, a inizio marzo, si era proposto come mediatore nelle eventuali negoziazioni tra Washington e l’Iran per stipulare un nuovo accordo sul nucleare. Trump potrebbe riconoscere questo ruolo allo zar in cambio di un suo ammorbidimento sul dossier ucraino. La pressione a cui la Casa Bianca sta sottoponendo il regime khomeinista per costringerlo a trattare potrebbe quindi essere letta anche come un indiretto avvertimento al governo russo.
Governo russo che, giovedì, ha ospitato una conferenza con i ministri degli Esteri di Mali, Burkina Faso e Niger: i tre Paesi africani che, de facto sotto l’egida di Mosca, hanno creato, nel 2024, una confederazione politico-militare chiamata Aes. Nell’occasione, Lavrov ha accusato Kiev di tentare di destabilizzare la regione del Sahel. Segno, questo, che il Cremlino punta ad aumentare la propria pressione sul fianco meridionale della Nato. La maggiore attenzione russa alla Libia e allo stesso Sahel è del resto una conseguenza indiretta dello schiaffo subito in Siria da Mosca l’anno scorso.
«L’Ucraina sostiene i terroristi»
L’Ucraina arretra nel Sahel, dove la Russia avanza. Lontano dai riflettori dei più grandi mezzi di informazione, questo fronte di guerra risulta strategico, essendo ricco di combustibili fossili, metalli preziosi e minerali strategici. Qui, a metà tra l’Africa settentrionale e subsahariana, proliferano inoltre narcotrafficanti, gruppi terroristici, anche di matrice islamica, e venditori di esseri umani.
La posta in gioco è rilevante e, in tal senso, non potevano passare inosservate le dichiarazioni rilasciate ieri, a Mosca, dal ministro degli Esteri maliano Abdoulaye Diop: «L’Ucraina è uno Stato patrocinatore del terrorismo». Alla presenza del ministro degli Esteri russo Sergej Viktorovic Lavrov, si è poi rimarcato, al contrario, il ruolo attivo di Mosca nel contrasto al terrorismo.
L’accusa non rappresenta, invero, un fulmine a ciel sereno. Il Mali, insieme al Burkina Faso e al Niger, avevano presentato già lo scorso agosto una comunicazione al presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per denunciare «il sostegno aperto e sfacciato al terrorismo internazionale» da parte del governo ucraino. In precedenza, d’altronde, avevano fatto discutere i commenti di alcuni funzionari ucraini che suggerivano il ruolo cruciale di Kiev negli attacchi dei separatisti tuareg nel villaggio nordorientale di Tinzawaten, vicino al confine con l’Algeria, nel luglio dell’anno scorso. Nell’azione decine di soldati maliani persero la vita.
Ieri a Mosca, oltre a Diop e Lavrov, erano presenti anche i ministri degli Esteri del Niger e del Burkina Faso, in visita ufficiale. I tre Paesi del Sahel hanno sancito la nascita di una forza armata congiunta a contrasto del terrorismo e delle ingerenze straniere, nel quadro dell’Alleanza dei Paesi del Sahel (Aes), da loro istituita. Difesa, sicurezza e diplomazia saranno i pilastri di questo nuovo asse, con Mosca nel ruolo di «partner strategico». «Gli esperti russi sono pronti a contribuire alla progettazione di un piano per dotare le forze dell’asse di armi specifiche» ha affermato Lavrov.
Nel frattempo, però, l’Ucraina prova a ricucire i rapporti con il continente nero. Il prossimo 10 aprile Volodymyr Zelensky volerà in Sudafrica per incontrare Cyril Ramaphosa, presidente del Paese, e discutere la possibile fine del conflitto contro la Russia, cercando così l’appoggio di un interlocutore influente per i futuri negoziati di pace. D’altra parte, il Sudafrica avanza con credibilità la propria candidatura come mediatore tra Kiev e Mosca: nel corso degli anni ha dichiarato la propria neutralità nel conflitto e in generale ha sempre avuto buoni rapporti con Mosca (entrambi i Paesi fanno parte del blocco dei Brics). L’incontro avviene anche in un momento di tensione di entrambi i Paesi con Washington. Oltre ad avere lanciato le invettive a reti unificate a Zelensky, infatti, Trump ha anche tagliato gli aiuti finanziari a Ramaphosa, in risposta all’entrata in vigore di una legge che espropria le terre e alla causa intentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia.
D’altra parte, nel Paese è anche montato il malcontento per un possibile avvicinamento a Kiev. Così il leader del Mk Party, Floyd Shivambu ha definito Zelensky «un presidente fantoccio», rivendicando la neutralità del Sudafrica e annunciando un’ondata di proteste. Hanno alimentato il clima di tensione anche alcuni media locali diffondendo la notizia, in realtà non verificata, di una possibile acquisizione di Kiev della Northam Platinum, una delle principali società minerarie del Sudafrica.
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Timidi spiragli al tavolo delle trattative. Contatti anche con il Vaticano: ieri conversazione tra Gallagher e Lavrov.In visita a Mosca, il ministro degli Esteri del Mali spara a zero su Zelensky. Che vola a Johannesburg e parrebbe interessato alle miniere nel Continente nero.Lo speciale contiene due articoli.Le trattative tra Washington e Mosca procedono con moltissima cautela. Tuttavia, qualche spiraglio sembra intravedersi. Giovedì, nel corso di un’intervista a Fox News, uno dei principali negoziatori russi, Kirill Dmitriev, ha aperto a delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina. «Alcune garanzie di sicurezza in qualche forma potrebbero essere accettabili», ha detto, pur ribadendo che per la Russia un eventuale ingresso di Kiev nella Nato resta inammissibile. Le parole del negoziatore russo sono rilevanti alla luce del fatto che finora Mosca aveva chiesto la piena smilitarizzazione dell’Ucraina, opponendosi anche allo schieramento di truppe di peacekeeping sul suo territorio. È importante sottolineare che l’apertura di Dmitriev è arrivata a seguito dei suoi recenti incontri con l’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff: dei faccia a faccia che, secondo Bloomberg News, si sono tenuti a Washington mercoledì e giovedì stesso. Dall’altra parte, se il Cremlino ha espresso un «cauto ottimismo», assai prudente si è mostrato il segretario di Stato americano, Marco Rubio. Parlando dal vertice Nato di Bruxelles, ha detto che si saprà «entro poche settimane» se la Russia vorrà realmente un accordo in Ucraina. «Il presidente Trump non cadrà nella trappola di infiniti negoziati su negoziati», ha proseguito, per poi aggiungere: «Ci stiamo avvicinando alla pace in Ucraina perché stiamo parlando con entrambe le parti, ma non abbiamo ancora raggiunto alcun risultato».Ricordiamo che, negli scorsi giorni, Donald Trump aveva espresso irritazione sia verso Volodymyr Zelensky che Vladimir Putin. Al primo aveva rimproverato di non voler firmare l’accordo sui minerali strategici, accusando invece il secondo di tergiversare. Non a caso, alcuni giorni fa, il presidente americano aveva minacciato tariffe secondarie sul petrolio russo. È in questo quadro che, stando a quanto riportato da Nbc News, il team di Trump starebbe suggerendo all’inquilino della Casa Bianca di non tenere una nuova telefonata con Putin, a meno che quest’ultimo non accetti un cessate il fuoco completo. Non è al contempo escludibile che la parziale apertura di Dmitriev sulle garanzie di sicurezza sia una conseguenza delle pressioni di Trump sul Cremlino.Non solo. Dmitriev è altresì il Ceo del fondo d’investimento sovrano russo. È quindi possibile che, nei suoi colloqui a Washington con Witkoff, abbia affrontato anche il tema dei rapporti economici tra Stati Uniti e Russia. Ricordiamo che, durante la loro telefonata di marzo, Trump e Putin avevano parlato della possibilità di «enormi accordi economici» tra i due Paesi. Un tasto, questo, su cui la Casa Bianca sta battendo, per cercare di incunearsi nelle relazioni tra Russia e Cina. Probabilmente i pesanti dazi appena imposti da Trump a Pechino vanno letti (anche) in quest’ottica: dazi da cui Mosca è stata invece significativamente esentata. Certo, la Casa Bianca ha fatto presente che sono già in essere pesanti sanzioni contro la Russia: ragion per cui, ha precisato, non vigono al momento relazioni commerciali significative con questo Paese. Tuttavia, è interessante notare come i dazi reciproci siano stati annunciati da Trump negli stessi giorni in cui Dmitriev incontrava Witkoff a Washington. Insomma, probabilmente il presidente americano continua ad alternare il bastone alla carota.Nel frattempo, si sta muovendo anche la Santa Sede. Ieri, il segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, Paul Gallagher, si è sentito con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Secondo una nota della Santa Sede, «il dialogo è stato dedicato al quadro generale della politica mondiale, con particolare attenzione alla situazione della guerra in Ucraina e ad alcune iniziative volte a fermare le azioni belliche». La Russia, dal canto suo, ha espresso «gratitudine alla Santa Sede per la sua assistenza nel risolvere le questioni umanitarie».Frattanto, è sempre più evidente come il dossier ucraino si intersechi con quello mediorientale. Ieri, il Cremlino ha detto che la questione iraniana va «risolta solo con mezzi politici e diplomatici». «Stiamo lavorando per ripristinare le nostre relazioni con gli Stati Uniti, ma anche l’Iran è un nostro partner, un nostro alleato, con il quale intratteniamo relazioni molto sviluppate e multiformi», ha proseguito. La Russia ha perso significativa influenza in Medio Oriente nel corso del 2024 a causa sia della caduta di Bashar Al Assad che dell’indebolimento di Teheran. Per cercare di recuperare terreno, Putin, a inizio marzo, si era proposto come mediatore nelle eventuali negoziazioni tra Washington e l’Iran per stipulare un nuovo accordo sul nucleare. Trump potrebbe riconoscere questo ruolo allo zar in cambio di un suo ammorbidimento sul dossier ucraino. La pressione a cui la Casa Bianca sta sottoponendo il regime khomeinista per costringerlo a trattare potrebbe quindi essere letta anche come un indiretto avvertimento al governo russo.Governo russo che, giovedì, ha ospitato una conferenza con i ministri degli Esteri di Mali, Burkina Faso e Niger: i tre Paesi africani che, de facto sotto l’egida di Mosca, hanno creato, nel 2024, una confederazione politico-militare chiamata Aes. Nell’occasione, Lavrov ha accusato Kiev di tentare di destabilizzare la regione del Sahel. Segno, questo, che il Cremlino punta ad aumentare la propria pressione sul fianco meridionale della Nato. La maggiore attenzione russa alla Libia e allo stesso Sahel è del resto una conseguenza indiretta dello schiaffo subito in Siria da Mosca l’anno scorso.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/russia-apre-a-garanzie-kiev-2671679476.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lucraina-sostiene-i-terroristi" data-post-id="2671679476" data-published-at="1743846404" data-use-pagination="False"> «L’Ucraina sostiene i terroristi» L’Ucraina arretra nel Sahel, dove la Russia avanza. Lontano dai riflettori dei più grandi mezzi di informazione, questo fronte di guerra risulta strategico, essendo ricco di combustibili fossili, metalli preziosi e minerali strategici. Qui, a metà tra l’Africa settentrionale e subsahariana, proliferano inoltre narcotrafficanti, gruppi terroristici, anche di matrice islamica, e venditori di esseri umani. La posta in gioco è rilevante e, in tal senso, non potevano passare inosservate le dichiarazioni rilasciate ieri, a Mosca, dal ministro degli Esteri maliano Abdoulaye Diop: «L’Ucraina è uno Stato patrocinatore del terrorismo». Alla presenza del ministro degli Esteri russo Sergej Viktorovic Lavrov, si è poi rimarcato, al contrario, il ruolo attivo di Mosca nel contrasto al terrorismo. L’accusa non rappresenta, invero, un fulmine a ciel sereno. Il Mali, insieme al Burkina Faso e al Niger, avevano presentato già lo scorso agosto una comunicazione al presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per denunciare «il sostegno aperto e sfacciato al terrorismo internazionale» da parte del governo ucraino. In precedenza, d’altronde, avevano fatto discutere i commenti di alcuni funzionari ucraini che suggerivano il ruolo cruciale di Kiev negli attacchi dei separatisti tuareg nel villaggio nordorientale di Tinzawaten, vicino al confine con l’Algeria, nel luglio dell’anno scorso. Nell’azione decine di soldati maliani persero la vita. Ieri a Mosca, oltre a Diop e Lavrov, erano presenti anche i ministri degli Esteri del Niger e del Burkina Faso, in visita ufficiale. I tre Paesi del Sahel hanno sancito la nascita di una forza armata congiunta a contrasto del terrorismo e delle ingerenze straniere, nel quadro dell’Alleanza dei Paesi del Sahel (Aes), da loro istituita. Difesa, sicurezza e diplomazia saranno i pilastri di questo nuovo asse, con Mosca nel ruolo di «partner strategico». «Gli esperti russi sono pronti a contribuire alla progettazione di un piano per dotare le forze dell’asse di armi specifiche» ha affermato Lavrov. Nel frattempo, però, l’Ucraina prova a ricucire i rapporti con il continente nero. Il prossimo 10 aprile Volodymyr Zelensky volerà in Sudafrica per incontrare Cyril Ramaphosa, presidente del Paese, e discutere la possibile fine del conflitto contro la Russia, cercando così l’appoggio di un interlocutore influente per i futuri negoziati di pace. D’altra parte, il Sudafrica avanza con credibilità la propria candidatura come mediatore tra Kiev e Mosca: nel corso degli anni ha dichiarato la propria neutralità nel conflitto e in generale ha sempre avuto buoni rapporti con Mosca (entrambi i Paesi fanno parte del blocco dei Brics). L’incontro avviene anche in un momento di tensione di entrambi i Paesi con Washington. Oltre ad avere lanciato le invettive a reti unificate a Zelensky, infatti, Trump ha anche tagliato gli aiuti finanziari a Ramaphosa, in risposta all’entrata in vigore di una legge che espropria le terre e alla causa intentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. D’altra parte, nel Paese è anche montato il malcontento per un possibile avvicinamento a Kiev. Così il leader del Mk Party, Floyd Shivambu ha definito Zelensky «un presidente fantoccio», rivendicando la neutralità del Sudafrica e annunciando un’ondata di proteste. Hanno alimentato il clima di tensione anche alcuni media locali diffondendo la notizia, in realtà non verificata, di una possibile acquisizione di Kiev della Northam Platinum, una delle principali società minerarie del Sudafrica.
«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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