2025-03-21
Roberta Petrelluzzi: «Mi manca l’Italia da “Un giorno in pretura”»
Il volto dello storico programma Rai, che ritorna l’8 aprile: «I casi giudiziari odierni sono pervasi di cattiveria, non c’è più la bonomia di quelli resi famosi da Steno. Inoltre l’attenzione mediatica spesso fa solo danni, come nella vicenda Avetrana, una sentenza sbagliata».C’è stato un tempo in cui esistevano le preture, uffici giudiziari, soppressi nel 1998, dove si trattavano reati minori. Per i cronisti erano terreno di caccia di curiosità perché specchi spesso grotteschi del ventre del Paese. Il regista Steno ne comprese il potenziale farsesco, traendone Un giorno in pretura (1954), di cui si ricorda soprattutto un Alberto Sordi, imputato di «atti osceni in luogo pubblico» che compare davanti al giudice, Peppino De Filippo. Il titolo del film fu ripreso, nel 1988, da Roberta Petrelluzzi, per la fortunata trasmissione su Rai 3, la più longeva della Rai, che ha fatto entrare i telespettatori nelle aule giudiziarie e riprenderà il prossimo 8 aprile 2025. Abolite le preture, il programma si spostò nei tribunali, riprendendo i grandi processi. Per alcuni di essi restano talvolta dubbi sulle sentenze, fino a sospettare che i nomi dei veri colpevoli si celino fra milioni di pagine agli atti e, spesso, odissee d’imputati intrappolati nei labirinti della giustizia, cosa che ben comprese Nanni Loy nel suo film Detenuto in attesa di giudizio (1971). Protagonista ancora Alberto Sordi, in una rara parte drammatica, incriminato, suo malgrado, per un reato non commesso, che si confronta con una dura realtà, come il suicidio di un compagno di cella e un direttore paraculo del penitenziario, magistralmente interpretato da Lino Banfi. Un giorno in pretura, da lei condotto, riprende l’8 aprile.«Su Rai 3, il martedì alle 21.20, per 5 puntate». Qualche anticipazione? «Saranno casi conosciuti di cronaca. Uno spaccato, come al solito, di questa Italia bella, ricca e disperata». È laureata in scienze biologiche e ha lavorato come ricercatrice alla Sapienza. Era già in embrione, all’epoca, il suo interesse per la giustizia?«No. Il mio interesse per la giustizia è nato per un’intervista che feci per la Rai nel periodo in cui si aprivano i consultori per le donne. Fui notata. Stava aprendo la sede regionale del Lazio, cercavano volti nuovi. Feci il provino, lo superai, e mi diedero dei contratti a tempo determinato. Così iniziò la mia avventura di Un giorno in pretura, che fa anche rima». Ci ricorda di qualche episodio tra il comico e il surreale? «La prima serie fu dedicata alle preture, perché erano proprio come quelle del film di Steno, caratteristiche. Non c’era tanto sangue, non c’era violenza, erano cose da cronaca cittadina locale, che non raggiungevano la notorietà. Ricordo il caso di un ragazzo che aveva rubato in un chiosco a Villa Borghese 12 succhi di frutta all’albicocca - perché amava l’albicocca - e 10 merendine. Un ragazzo giovane, carino, un po’ clochard, un po’ sognatore. Insomma, erano questi personaggi. In un altro caso, in una retata, arrestarono un trans che accusò un carabiniere dicendo che questi gli fece un’avance. Poi ci fu il processo e la cosa buffa era che lui era un bellissimo trans e invece il carabiniere anziano, con la panza. Sembrava tutto credibile quello che diceva il trans, perché accattivante da un punto di vista sessuale e il carabiniere molto meno. La gente poteva crederci. E invece all’Arma, così convinta di comportarsi secondo giustizia, non venne nemmeno il dubbio. Il carabiniere fu assolto. Poi non riuscimmo più a fare i processi di pretura e fummo costretti a passare a storie più impegnative, forti, dolorose, drammatiche. Così Un giorno in pretura ha perso un po’ di leggerezza». Dispetti dei vicini, adulteri, fregature, bravate, malintesi. Ritratti dei difetti degli italiani. Cos’è cambiato in 30 anni?«L’Italia è sicuramente molto cambiata. C’è molta meno bonomia. È molto meno romantica, un po’ più dura, un po’ più violenta. Anche i casi di cronaca più leggera sono un po’ più cattivi. Casi come quello che ruba i succhi all’albicocca non li trovi più, in modo particolare». Ci sono sentenze dei casi giudiziari seguiti che ritiene incontrovertibili?«È difficile da dire, perché nei processi non c’è mai la verità. C’è la verità processuale. Dipende da come sono fatte le indagini, da come sono riusciti a raccogliere le prove. Io non credo che sia una matematica. È molto più complicato. Secondo me, invece, una sentenza sbagliata è quella di Avetrana. Tutta costruita, perché inquinata dalla troppa attenzione mediatica. Tutti si sono voluti cimentare in quel caso e hanno rovinato una giovane donna e la madre, non interpretando la cosa più semplice e cioè che era stato il padre, che subito si era denunciato: “Sono stato io”. Aveva raccontato com’era andata. E tutti a dire “no, com’è possibile? troppo semplice…”. Ci abbiamo dedicato troppa attenzione a questo caso penale, “bisogna un po’ costruirla…”. E così è andata». Era stato lui. «Era un contadino buono che, in un momento d’estate calda, ha visto una ragazzina in pantaloncini e decolleté, gli ha preso lo sghiribizzo di mettergli una mano sul lato B, lei gli ha detto “smettila che altrimenti lo dico alla zia”, e lui l’ha uccisa. Dissero “no”, addebitando sentimenti mai stati dimostrati. Non era un padre che aveva dato la vita per la figlia. Era una famiglia normale, di contadini, dove c’è molto affetto, i valori sono molti, anche quello di raccogliere i pomodori è un valore, non c’è questa idea borghese di famiglia e di figlio. Ha avuto un sussulto di dignità e verità perché era una persona normale, un contadino che si è vergognato di quello che aveva fatto, pensando “come ho potuto?”». Un giorno in pretura ha seguito i processi di Tangentopoli, come quello a Sergio Cusani per la maxi-tangente Enimont. «Sì, il primo processo di Tangentopoli, 24 puntate. Un successo strepitoso. Facevamo dal 18 al 22 per cento di share. È stato forse il processo più importante della storia italiana. Ha distrutto un’intera classe politica e ciò ci ha portati dalla Prima alla Seconda Repubblica, non so quanto positivamente, ma abbiamo fatto questo». Un’inquadratura che lasciò sconcertati fu quella di Arnaldo Forlani con la saliva aggrumata agli angoli della bocca.«È un fenomeno che si vede spesso quando uno parla molto. Sono sempre molto critica delle cose che, se fatte ai potenti, si grida allo scandalo, se fatte all’uomo della strada no. Mi ricordo di un processo di pretura dove c’era un signore di più di 70 anni portato in manette in pretura perché aveva rubato delle olive. Lo feci vedere molto, perché volevo si dicesse che era una vergogna. Invece nessuno disse nulla. Quando fu portato in aula un politico in manette si disse che era poco dignitoso e non bisogna mai far vedere l’uomo in manette. E lì le cose cambiarono. Io sono assolutamente convinta che non bisogna mostrare gli uomini in manette. Solo in regimi come in quello di Orbán si fanno vedere con le catene alle mani e ai piedi, quasi incaprettati». Secondo lei il giudice Antonio Di Pietro potrebbe essersi sentito in colpa per il suicidio di Gabriele Cagliari o il presunto suicidio di Raul Gardini?«Non credo. Se uno si suicida, è una cosa così personale che è molto difficile dire di chi è la colpa. Ho molto rispetto per chi fa una scelta così definitiva, ma non me la sentirei mai di dire “è colpa tua”». Sono serviti a qualcosa, eticamente, i processi di Tangentopoli, per la politica successiva?«Mi chiede una cosa troppo complicata. C’è stato un periodo di tali cambiamenti che è difficile dire. Bisognerebbe fare una lettura di ore e ore di riflessione. Non è cambiato molto, non credo la classe politica poi si sia trasformata e redenta… Non lo so. È uscito anche molto populismo. Forse non siamo stati capaci di approfittare, né a destra né a sinistra, di un momento che poteva essere di cambiamento».Ha seguito anche il processo a Pacciani e ai compagni di merende. È appena uscito un libro edito da Mimesis, Il labirinto del mostro di Firenze, dove si dà molto credito al pm Canessa. Tuttavia le analisi di Francesco Bruno contenevano varie evidenze sul fatto che difficilmente i killer potevano essere Pacciani & C. «All’epoca eravamo tutti più fiduciosi nella giustizia e io ero convinta fosse Pacciani». Però…«Adesso, boh, sono passati tanti anni. Allora ne ero convinta. Poi mi venne qualche dubbio. Mi aveva convinto il proiettile trovato nel suo orto. E poi lui era bugiardo, falso, mentitore, mentiva con una tale spudoratezza… I maniaci, di solito, sono solitari. Poi uscirono i compagni di merende. Invece non era così. Dovrei rileggere tutto…». Ora c’è il Dna. Ci sono casi irrisolti, ma anche sentenze messe in discussione. «Il Dna ha aiutato a risolvere certi casi, ma tutto è relativo, questo t’insegna anche Un giorno in pretura. Adesso, Garlasco (uccisa Chiara Poggi, il 13 agosto 2007, ndr). Noi Garlasco non l’abbiamo fatto. Io commento solo i processi che ho fatto, perché lì abbiamo letto tutte le carte e ci possiamo fare un’opinione. Però, mi dico, questo ragazzo condannato due volte e ora la cosa è messa in discussione… La giustizia si deve interrogare che se tu sei condannato o assolto per due volte, poi basta, non puoi più ricorrere, perché vuol dire che non sei riuscito a raggiungere la prova. Una riforma della giustizia dovrebbe affrontare questo tema, nell’interesse dei cittadini, come me e lei». Ha seguito i processi di Olindo e Rosa, strage di Erba. Colpevoli, secondo lei? «Qualcuno si è innamorato di questa storia e ha pensato “io sono il giustiziere della notte”. Io credo che Olindo e Rosa… Erano loro. Questo lo posso dire perché ho seguito tutto il processo. Se li avessero assolti, sarei rimasta sorpresa».Ci sono molti innocenti nelle carceri italiane?«Io credo che ce ne siano, purtroppo. Comunque preferisco un colpevole fuori a un innocente dentro».
Julio Velasco e Alessia Orro (Ansa)
Rod Dreher (Getty Images)