2025-05-31
Come previsto, il progetto di Draghi e Conte era velleitario: raggiunta la metà dei traguardi. E adesso arriverà il conto.Dopo circa 4 anni passati a spazzare la polvere del Pnrr sotto il tappeto, ormai non c’è più spazio per spazzarne altra. Siamo alla vigilia degli ultimi 12 decisivi mesi che ci separano dalla chiusura del sipario e lo stato di avanzamento è ben lontano dalla meta.Quella che si può definire la vera e più grande polpetta avvelenata lasciata in eredità dai governi Conte 2 e Draghi al governo Meloni, sta cominciando ad assumere un contorno definito e non vorremmo essere nei panni del ministro Tommaso Foti che ha ricevuto il testimone da Raffaele Fitto. Spiace dirlo, ma non serve a nulla indorare la pillola.È una ben magra consolazione constatare che gli ostacoli contro cui stiamo per scontrarci sono quelli che a partire dai primi vagiti del piano nella primavera 2020 e poi nei mesi successivi avevamo puntualmente previsto. Sono passati circa 4 anni dall’accoglienza trionfale che Mario Draghi riservò a Ursula von der Leyen giunta a Roma il 22 giugno 2021 per celebrare l’approvazione del Pnrr da parte della Commissione.Da allora, abbiamo incassato 122 miliardi relativi alle prime sei rate, attendiamo l’incasso della settima rata da 18,2 miliardi netti, e ci attende l’incasso delle ultime tre rate per circa altri 54 miliardi. Parallelamente, deteniamo il record di revisioni del piano richieste dalla Commissione. Cinque in tutto. Due nel 2023, altre due nel 2024. Nel 2025 è certa una, per la quale a marzo sono già cominciate le interlocuzioni tecniche con la Commissione, ed è probabile un’altra. Il fine è quello di ricalibrare gli obiettivi e i traguardi prefissati con le ultime quattro rate: la settima (67 obiettivi, entro dicembre 2024 con richiesta di pagamento già inviata), l’ottava (40 obiettivi, entro giugno 2025) la nona (67 obiettivi, entro dicembre 2025) e la decima (177 obiettivi, con maxi rata di 28,4 miliardi, entro giugno 2026).Il 19 maggio scorso la Cabina di Regia a Palazzo Chigi ha deciso di intervenire su 107 dei 351 obiettivi e traguardi residui collegati alle ultime quattro rate, il successivo dibattito parlamentare ha dato via libera al governo per aprire il confronto con la Commissione ed ora la palla è a Bruxelles, per il doppio passaggio tra Commissione e Consiglio. Ma 107 su 351 sono un chiaro indicatore di quante siano le difficoltà.Le modifiche riguardano spostamenti di risorse dall’idrogeno al biometano, dalle infrastrutture di ricarica elettrica delle auto al nuovo programma di rottamazione e rinnovo delle vetture. Inoltre si propone: l’estensione delle comunità energetiche ai comuni fino a 50.000 abitanti, un restyling degli obiettivi di semplificazione e digitalizzazione dei procedimenti amministrativi a carico delle imprese, target più ambiziosi sulla riduzione dell’arretrato della giustizia amministrativa e infine, correzioni in corsa sui cantieri dell’alta velocità ferroviaria per far fronte a imprevisti e ritardi.Il solo fatto che un piano di investimenti - che si estende su 5 anni per complessivi circa 600 tra obiettivi e traguardi – a circa 12 mesi dal termine previsto per il loro conseguimento, si ritrovi con 284 obiettivi ancora da conseguire è già fonte di perplessità.Se a questo si aggiunge che l’ultima rata prevede la «cima Coppi» di ben 177 obiettivi e 28,4 miliardi di pagamento, si ha l’esatta misura di quanta polvere sia stata buttata sotto il tappeto durante le precedenti revisioni del Piano. Anziché tagliare e prendere atto dell’impossibilità di conseguire alcuni obiettivi ed eseguire gli investimenti e le riforme previste, il governo (solo quello Meloni, in questo caso) ha preferito rinviare, rimodulare. Con il risultato probabile che tra 12 mesi, sarà definito impossibile (o, peggio, soldi sprecati in opere inutili) ciò che era già tale dal 2021.Sul fronte dei flussi finanziari, la situazione è simile a quella di chi ha ricevuto un mutuo dalla banca per ristrutturare la casa, in anticipo rispetto all’esecuzione delle spese e, anziché accantonare quelle somme per pagare l’impresa edile, le ha usate per coprire debiti precedenti o spese correnti. Si tratta di una similitudine rozza e approssimativa ma utile per comprendere l’accaduto. Infatti esiste una significativa sfasatura tra il flusso delle somme che sono arrivate da Bruxelles (122 miliardi) e quelle che sono state effettivamente spese a partire dal 2021 (circa 70 miliardi, come ha riferito da ultimo il ministro Foti). La differenza è rilevante. È pur vero che parte di quelle somme sono state anticipate alle amministrazioni competenti per l’esecuzione degli investimenti e quindi non ci sarà ulteriore impatto sul fabbisogno statale quando si dovranno effettivamente sostenere quelle spese. Ma è ragionevole ipotizzare che quando la spesa dovrà cominciare a correre (da 70 già spesi a 194 miliardi da spendere in totale, la strada è tanta) un impatto sul fabbisogno ci sarà, perché il residuo da incassare da Bruxelles, se tutto andasse bene, è di soli 72 miliardi. Di conseguenza, il Mef sarà chiamato a maggiori emissioni di titoli pubblici. Resta il fatto che la spesa è nettamente in ritardo, specialmente nelle Missioni 5 (Inclusione e Coesione) e 6 (Salute). Un ritardo ancora più grave, se si pone attenzione al fatto che la spesa effettiva è gonfiata anche da crediti di imposta per 27,3 miliardi relativi a Superbonus e Transizione 4.0.A questo proposito, le ultime relazioni della Corte dei Conti e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio mostrano un’impressionante teoria di criticità, tra cui lentezza burocratica, carenza di competenze, incompleta rendicontazione, eccessiva concentrazione della spesa negli ultimi 18 mesi.C’è infine da risolvere il problema di 15 miliardi di spese che non sono nemmeno state attivate o impegnate, il che riduce il Pnrr da 194 a 179 miliardi. La gran parte della differenza è attribuibile al capitolo sulla transizione energetica (RepowerEU), in cui spicca la misura Transizione 5.0 concepita per inseguire il delirio green della Commissione e poco gradita dalle imprese italiane.Sono i 15 miliardi che la Meloni ha messo sul tavolo proprio martedì davanti all’assemblea di Confindustria. Ma senza fare i conti con l’oste di Bruxelles, perché saranno sempre loro a decidere la destinazione di spesa. Mentre il debito resterà a carico del contribuente italiano.
Vladimir Putin (Ansa)
Lo zar dal vertice con Xi: «No invece all’ingresso nella Nato, è una cosa diversa». Oggi alla parata anche Kim Jong-un.
Una delle criticità maggiori che mettono in difficoltà l’Eliseo è l’esposizione verso gli investitori stranieri: ben il 53%, laddove in Italia supera di poco il 30%.
Mario Monti (Ansa)
Nella solita intervista genuflessa al «Corriere della Sera», il professore si autoincensa e poi spiega a Macron come fare per uscire dalla crisi. Peccato che le sue ricette da noi abbiano messo in ginocchio l’economia.
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