2025-01-04
Mentre francesi e tedeschi vanno da Al Jolani rispunta il nucleare iraniano
Il rappresentante iraniano per il dossier sull’energia nucleare, Kazem Gharibabadi (Getty Images)
I ministri degli Esteri di Parigi e Berlino a Damasco (senza stretta di mano ad Annalena Baerbock). Gli stessi Paesi a Ginevra riaprono il tavolo atomico. Che non sia un assist a Teheran.L’Unione europea mette piede a Damasco, quasi un mese dopo la caduta di Bashar Al Assad. Ad atterrare a Damasco ieri sono stati il ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot e la collega tedesca Annalena Baerbock. La controparte, Ahmed Al Sharaa attuale leader degli jihadisti di Hts (Hayat Tahrir al-Sham) detto anche Al Jolani. Che i due ministri siano andati per conto dell’Ue non è una nostra deduzione ma una informazione arrivata tramite agenzie stampa dalla titolare delle Politiche estere di Bruxelles, Kaja Kallas. La cronaca del viaggio è piuttosto stringata, a parte le inquietanti immagini dell’accoglienza riservata alla Baerbock, cui nessuno dei nuovi politici siriani ha stretto la mano. Il motivo è molto semplice. Il ministro tedesco è donna e quindi non può essere avvicinata. Alla faccia dello storytelling di molti media occidentali che si sono spinti persino a ragionare di quote rosa nel prossimo esecutivo di Damasco. Al di là di tali dettagli non certo irrilevanti, ciò che colpisce è la fretta della diplomazia nell’accreditarsi con i militari di Hts che in poco tempo e sicuramente con il sostegno politico e logistico della Turchia sono riusciti a ribaltare non solo un regime filo russo e soprattutto filo iraniano, ma anche ad avviare un potenziale effetto a cascata sull’intera regione mediorientale. Giovedì il neo ministro degli Esteri di Damasco ha fatto la sua prima missione internazionale e si è recato guarda caso a Riad per stringere la mano al collega saudita. Un messaggio chiaro e tondo che disegna una geografia molto simile a quella degli accordi di Abramo tanto spinti da Donald Trump. E che il pogrom del 7 ottobre del 2023 ha cercato di far naufragare del tutto. Che dietro la guerra a Gaza ci fosse uno scontro (l’ennesimo) tra sunniti e sciiti era chiaro fin da subito. Adesso però la partita è tutta da giocare. La presa del potere a Damasco da parte di Al Jolani è sicuramente una botta tremenda per gli sciiti e l’Iran che in pochissimi mesi ha visto perdere la longa manus di Hamas, quella di Hezbollah in Libano e poi il regime di Assad. La Turchia di Recepp Erdogan tra l’altro sotto la guida del ministro degli Esteri Hakan Fidan (per anni capo dei servizi Mit di Ankara) si è dimostrata così abile da navigare tra le due sponde dell’islam politico e di sicuro ha già trovato una sua personale traiettoria amplificata dall’appartenenza alla Nato. Resta da capire se l’asse Damasco-Riad si consoliderà. E se sì, allora si potrà immaginare un rapporto nuovo con Israele e probabilmente anche un futuro per Gaza. La domanda che molti analisti si fanno da tempo è chi prenderà la responsabilità di gestire il protettorato della Striscia. Le voci si fanno sempre più insistenti e puntano dritte all’Arabia Saudita. Che a quel punto potrebbe vedere allinearsi gli astri. Negli Usa e alla Casa Bianca, Donald Trump. In Israele Benjamin Netanyahu e a Gaza propri rappresentanti che in breve tempo sarebbero in grado di mettere in piedi un porto vero e proprio. Sarebbe l’accesso saudita al Mediterraneo. Un evento quasi storico. D’altronde nessuno avrebbe scommesso anche solo a fine 2023 che Israele sarebbe stato in grado di ribaltare la mappa militare come un calzino. E farlo a proprio favore. Ne ha goduto sicuramente l’Arabia Saudita e la Turchia. Restano adesso da sistemare gli attacchi Huthi in Yemen e non a caso i militari israeliani ragionano di aprire basi in Somaliland ed Eritrea. Opzione che non può certo essere accesa senza l’ok di Ankara e Riad. Certo, la partita è ancora aperta e lo si denota dal fatto che mentre le diplomazie di Francia e Germania volano a Damasco per accreditarsi, le stesse feluche organizzano in segreto un incontro a Ginevra previsto per il prossimo 13 gennaio. Data in cui ripartiranno le trattative con l’Iran sulla gestione nucleare. Riapre, insomma, il tavolo Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), il trattato interrotto nel 2019 che vedeva tra i partecipanti oltre l’Iran, gli Usa, la Russia, la Cina, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania. Fra 10 giorni a Ginevra oltre al rappresentante iraniano, Kazem Gharibabadi, che ha annunciato il meeting con una intervista alla tv locale, ci saranno esclusivamente gli sherpa di Germania, Francia e Uk. Che cosa si aspettano i quattro? Difficile saperlo, soprattutto in anticipo. Di certo, ci sono le pressioni delle potenze regionali che non hanno mai accettato il fatto che il trattato non menzionasse il tema dei missili balistici, d’altro canto Francia e Germania vorrebbero rivitalizzare l’accordo ma dal proprio punto di vista. Parigi ad esempio non si è mai del tutto opposta all’uso dei proxy come Hezbollah. La Germania vorrebbe reinserire l’Iran nel circuito internazionale economico e Londra vorrebbe mantenere in Medioriente un passo diverso da quello Usa. Il rapporto tra Iran, Cina e Russia è cambiato alquanto dopo la guerra in Ucraina. Risultato? I Paesi centrali dell’Europa stanno prendendo le misure. Verso l’Iran e verso la nuova Casa Bianca di Trump. Speriamo sia legittima diplomazia e non il tentativo di tenere il piede in due scarpe. Come in passato ha fatto la filiera politica dei socialisti sia quelli Usa che quelli nostrani.
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