
La Turchia minaccia di intervenire in difesa di Tripoli contro Khalifa Haftar. Non ci resta che constatare l'irrilevanza del nostro peso in Africa. E soprattutto l'inettitudine di Nato, Onu e Ue nella Terza guerra mondiale in atto.Ormai abituati all'insulsa nostra presenza in Libia, oggi guardiamo quasi con sgomento alla possibile decisione della Turchia di appoggiare con un proprio intervento militare il governo di Tripoli guidato da Fayez Al Serraj per sostenere gli attacchi di Khalifa Haftar, che gode dell'aiuto di Russia ed Egitto e che già usufruisce sul campo delle milizie Wagner, russe. Sulla rotta marittima tra Turchia e Libia si sono già mossi i greci, con gli egiziani, per impedire alcune azioni anticipatorie turche. Nel frattempo, nel teatro siriano poco distante, gli interessi di Vladimir Putin e di Recep Tayip Erdogan si sono invece funzionalmente sovrapposti e dopo la definitiva perdita di territorio del Califfato (che ha avviato la sua trasformazione in una forma diversa ma sempre pericolosa) il sistema di alleanze ha perso il suo catalizzatore, intraprendendo (anch'esso come il Califfato) un processo continuo di ridefinizione «delle amicizie». In sostanza, l'alleato di oggi diventa il nemico di domani; chi è mio alleato qui è già mio nemico là. Tutto ciò in barba alle alleanze sancite da patti decennali quali l'appartenenza alla Nato, alle decisioni delle Nazioni unite e alla condivisione delle politiche dell'Unione europea. L'unico indirizzo utile per comprendere questi avvenimenti si ritrova nella esasperazione di proclamati interessi nazionali, che spiegano almeno in parte le singolari scelte opportunistiche che caratterizzano gli scenari descritti. Ma se si leggono gli eventi andando oltre questa spiegazione, la questione è più ampia e destinata a segnare i prossimi decenni del Pianeta.Ho da tempo sostenuto che stiamo combattendo una Terza guerra mondiale caratterizzata da quella forma di conflitto diffuso, pervasivo e delocalizzato che si chiama guerra ibrida, che coinvolge numerosi attori i quali, finora, non potevano stare insieme. Immaginate un campo da gioco dove una squadra gioca a rugby, un'altra a calcio, una terza a pallavolo e un arbitro internazionale cerca di regolare «questo incontro di tennis». Tutti in comune hanno solo delle palle, anche di forme diverse. Infatti, appare evidente che tutti gli attori in campo si confrontano senza condividere regole o strategie, ma ciascuno consapevole di poter essere l'unico a vincitore sugli altri. Così è oggi, quando i sistemi regolatori del conflitto sono tutti saltati: le alleanze militari (Nato), politiche (Ue) e globali (Onu) non hanno nessun controllo della situazione, di esse se ne fa ciascuno sberleffo e un utilizzo perfettamente improprio rispetto alle ragioni della loro esistenza così come finora definita. Da cui la questione emergente: le guerre in corso non si risolveranno senza un nuovo patto, sia esso imposto o sia esso condiviso, su un differente assetto del mondo. Nel frattempo, si devono combattere queste guerre, cercando di migliorare la propria posizione nel sistema relazionale internazionale sempre più complesso e veloce, cercando di mantenere la lotta lontano da casa per garantire il simulacro di pace su cui poggia il consenso democratico. Il fallimento di questa strategia porterebbe il conflitto dentro alle nostre case, facendo diventare i reportage dalla Libia, Siria, Somalia, Yemen delle rappresentazioni quotidiane delle nostre città. Per ora ci è andata bene. Perché ancora non condividiamo il male alla cui diffusione stiamo contribuendo con successo.Secondo quella strategia, utile alla nostra sopravvivenza, la Libia sta per diventare, come la Siria, un'altra terra sotto esproprio in cui ci si può confrontare armi alla mano tra nemici che altrove, da amici, possono ancora brindare insieme al capodanno. È una fortuna che russi e turchi si sparino in Libia, americani e turchi in Siria, qatarini, emiratini e sauditi in entrambi i Paesi e così via: la rete è densa e complessa. Se non si disponesse di questi campi il conflitto arriverebbe fino nelle case dei cittadini di quei Paesi. Anche le nostre. Come ha cercato di fare il terrorismo.Non solo: la «guerra altrove» sfrutta l'enorme quantità di energia inerziale delle nostre società, che non hanno alcuna intenzione di mutare il loro stato se non costrette. Infatti, la «guerra altrove» si può rivestire di interessi economici essenziali al mantenimento del nostro benessere; la si può giocare con gli usuali strumenti che producono le nostre fabbriche; si può raccontarla non come una guerra perché non è a casa nostra; si può combatterla con la consueta dottrina militare. Insomma, «il solito è servito» garantendo la continuità almeno nell'apparenza.Tralasciando ogni considerazione etica su questa gestione del conflitto, non si può tuttavia non sottolinearne la drammatica finzione che costruisce la nostra bolla di sicurezza, sempre più traballante e precaria. Perché «le bugie hanno le gambe corte». Senza una rivisitazione concreta del sistema di governo internazionale, il prolungarsi del conflitto non ne permetterà il contenimento in «campi da gioco» convenzionali, ma inevitabilmente lo porterà a liquefarsi senza contenimento alle frontiere come il terrorismo è riuscito già a fare, finora solo parzialmente. Quando questo accadrà, le capacità politiche, strategiche e strumentali delle nostre società non saranno in grado di affrontare il mutamento del conflitto.
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Il giudice della Consulta Giovanni Pitruzzella: «Non c’è un popolo europeo: la politica democratica resta ancorata alla dimensione nazionale. L’Unione deve prendere sul serio i problemi urgenti, anche quando urtano il pensiero dominante».
Due anni fa il professor Giovanni Pitruzzella, già presidente dell’Autorià garante della concorrenza e del mercato e membro della Corte di giustizia dell’Unione europea, è stato designato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica. Ha accettato questo lungo colloquio con La Verità a margine di una lezione tenuta al convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, dal titolo «Il problema della democrazia europea».
Ansa
Maurizio Marrone, assessore alla casa della Regione Piemonte in quota Fdi, ricorda che esiste una legge a tutela degli italiani nei bandi. Ma Avs la vuole disapplicare.
In Italia non è possibile dare più case agli italiani. Non appena qualcuno prova a farlo, subito si scatena una opposizione feroce, politici, avvocati, attivisti e media si mobilitano gridando alla discriminazione. Decisamente emblematico quello che sta avvenendo in Piemonte in queste ore. Una donna algerina sposata con un italiano si è vista negare una casa popolare perché non ha un lavoro regolare. Supportata dall’Asgi, associazione di avvocati di area sorosiana sempre in prima fila nelle battaglie pro immigrazione, la donna si è rivolta al tribunale di Torino che la ha dato ragione disapplicando la legge e ridandole la casa. Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà decidere sulla legittimità delle norme abitative piemontesi.
Henry Winkler (Getty Images)
In onda dal 9 novembre su History Channel, la serie condotta da Henry Winkler riscopre con ironia le stranezze e gli errori del passato: giochi pericolosi, pubblicità assurde e invenzioni folli che mostrano quanto poco, in fondo, l’uomo sia cambiato.
Il tono è lontano da quello accademico che, di norma, definisce il documentario. Non perché manchi una parte di divulgazione o il tentativo di informare chi stia seduto a guardare, ma perché Una storia pericolosa (in onda dalle 21.30 di domenica 9 novembre su History Channel, ai canali 118 e 409 di Sky) riesce a trovare una sua leggerezza: un'ironia sottile, che permetta di guardare al passato senza eccessivo spirito critico, solo con lo sguardo e il disincanto di chi, oggi, abbia consapevolezze che all'epoca non potevano esistere.
Ansa
Gli obiettivi imposti sono rifiutati perché deleteri e insostenibili. Farebbero meglio a seguire i consigli di Bill Gates.
L’appuntamento è fisso e il corollario di allarmi sulla imminente fine del mondo arriva puntuale. Alla vigilia della Cop30 - la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre - il fronte allarmista globale ha rinnovato il coro catastrofico con la pubblicazione di due rapporti cruciali. L’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha diffuso il suo State of the Global Climate Update 2025, mentre l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha pubblicato il suo Climate Action Monitor 2025.






