La necessità di utilizzo dei combustibili fossili cresce, ma le folli politiche green dell’Unione europea non conoscono pause e hanno disincentivato gli investimenti. Risultato: i costi si impennano. Davide Tabarelli: «Se la guerra si allarga, per i prezzi sarà un cataclisma».
La necessità di utilizzo dei combustibili fossili cresce, ma le folli politiche green dell’Unione europea non conoscono pause e hanno disincentivato gli investimenti. Risultato: i costi si impennano. Davide Tabarelli: «Se la guerra si allarga, per i prezzi sarà un cataclisma».Lo speciale comprende due articoliL’apertura di un secondo fronte di guerra, Israele dopo l’Ucraina, e il rischio di un allargamento del conflitto con il coinvolgimento in modo più o meno diretto di altri Paesi, ha già fatto scattare l’allerta sul fronte energetico. Dietro questi due scenari bellici c’è sempre il petrolio, e la fonte fossile è al momento insostituibile. Questa criticità è amplificata dalla politica cieca della Commissione europea che seppur di fronte a una palese problematica energetica e all’aumento incalzante dei prezzi, non ammette deroghe alla tabella di marcia della transizione ecologica e quindi della decarbonizzazione. Questo significa che mentre il Medio Oriente ribolle e le quotazioni di petrolio e gas vanno alle stelle mettendo in difficoltà oltre alle famiglie tutto il sistema produttivo, si continuano a disincentivare gli investimenti legati alle fonti fossili. Il corto circuito porta al rischio di uno choc energetico. Basta un aumento della domanda per mandare in tilt il sistema. Al momento l’Italia ha tamponato la situazione incrementando i rifornimenti di gas dall’Algeria ma non basta. La situazione climatica di rinvio della stagione fredda sta dando una mano ma è una congiuntura eccezionale. E comunque resta l’interrogativo di un allargamento dello scenario con il coinvolgimento di grossi rifornitori energetici all’Europa. È stato lo stesso segretario generale dell’Opec Haitham al Ghais nel report World oil outlook 2023, ha mettere in guardia l’Europa da sterzate rispetto alla tradizionale politica energetica senza aver pronte soluzioni alternative. «Le richieste di fermare gli investimenti in nuovi progetti petroliferi sono fuorvianti e potrebbero portare al caos energetico ed economico», ha affermato al Ghais. «La storia è piena di numerosi esempi di turbolenze che dovrebbero servire da monito per ciò che accade quando i politici non riescono a riconoscere le complessità intrecciate dell’energia». Più chiaro di così. E se qualcuno nutre ancora delle perplessità, basta guardare i listini di gas e petrolio. Secondo l’Opec per soddisfare le previsioni sulla domanda di petrolio a lungo termine, sarebbero necessari investimenti nel settore petrolifero pari a 14 trilioni di dollari, ovvero circa 610 miliardi di dollari in media all’anno. Il gruppo ha affermato che è «vitale» che questi investimenti vengano realizzati, affermando che è vantaggioso sia per i produttori che per i consumatori.Le previsioni sono di un aumento della domanda di prodotti da fonti fossili in contrasto con quanto invece sostiene l’Aie, l’Agenzia internazionale per l’energia, che alimenta le visioni dei sostenitori della transizione ecologica. Nel World oil outlook 2023 si legge che la domanda globale raggiungerà i 116 milioni di barili al giorno (bpd) entro il 2045, rispetto ai 99,6 milioni di barili al giorno del 2022 e circa 6 milioni di barili al giorno in più rispetto a quanto previsto nel rapporto dello scorso anno.L’Opec ha chiarito che esiste il potenziale affinché questo balzo sia ancora più elevato. È probabile che la crescita sarà alimentata da India, Cina e altri paesi asiatici, Africa e Medio Oriente. Paesi che, come è noto, non hanno abbracciato le politiche ecologiste e non hanno alcuna intenzione di farlo nel modo restrittivo dell’Europa, badando di più alla crescita economica. E questa ha come motore i fossili. Nel medio termine, secondo l’Opec, la domanda globale di petrolio probabilmente raggiungerà 110,2 milioni di barili al giorno nel 2028, riflettendo un balzo di 10,6 milioni di barili al giorno rispetto ai livelli del 2022. Per questo si richiederebbero investimenti nel caso dell’Europa, scarsa di materie prime, di impianti di raffinazione che invece sono disincentivati. Di segno opposto invece le proiezioni dell’Aie. L’International energy agency, ha affermato che il mondo è ormai «all’inizio della fine» dell’era dei combustibili fossili.In un editoriale pubblicato sul Financial Times, il direttore esecutivo dell’Aie Fatih Birol, ha dichiarato che la domanda di carbone, petrolio e gas raggiungerà il picco prima del 2030 ed il consumo di combustibili fossili diminuirà con l’entrata in vigore delle politiche climatiche. Il numero uno dell’Aie ha chiamato le previsioni una «svolta storica», ma ha chiarito che i cali previsti non sarebbero «abbastanza vicini» per abbassare il riscaldamento globale di 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali. Questa è la soglia di temperatura considerata fondamentale per evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico. Il che vuol dire che bisogna fare di più nella lotta contro i combustibili fossili considerati la principale causa della crisi climatica.Dichiarazioni che cadono proprio in un momento di tensione sui mercati energetici. C’è anche un altro problema. Sempre Birol ha detto che «i progressi nel campo dell’energia pulita potrebbero essere messi a repentaglio se i governi e le imprese non si unissero per garantire che le reti elettriche mondiali siano pronte per la nuova economia energetica globale che sta emergendo». È l’ennesima conferma che se da una parte si riducono gli investimenti per l’energia fossile e si procede a tappe forzate nella decarbonizzazione, dall’altra mancano le infrastrutture a sostegno dell’energia pulita e il corto circuito è inevitabile. Il ministro olandese per l’energia, Rom Jetten, ha sottolineato proprio questa criticità. «Le reti elettriche non riescono a tenere il passo con questo ritmo di transizione energetica, nonostante gli investimenti significativi da parte degli operatori di rete». Un allarme che configge con la guerra ai fossili e le tappe a ritmi forsennati della transizione ecologica.Intanto la Commissione europea non trova niente di meglio da fare per arginare il rialzo dei prezzi che prorogare la scadenza del price cap sul gas il cui termine è previsto il 31 dicembre prossimo. Come se servisse a qualcosa.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/rischiamo-uno-choc-petrolifero-2666095042.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tabarelli-e-se-la-guerra-si-allarga-sui-prezzi-ci-sara-un-cataclisma" data-post-id="2666095042" data-published-at="1698618103" data-use-pagination="False"> Tabarelli: «E se la guerra si allarga sui prezzi ci sarà un cataclisma» Davide Tabarelli (Ansa) «Se la guerra in Israele dovesse allargarsi, sarebbe un pericolo per il settore energetico. Lo scenario peggiore sarebbe quello di una doppia carenza di forniture energetiche, dalla Russia e dal Medio Oriente. E tutto questo mentre l’Europa continua a perseguire una politica contraria ai fossili, disincentivando gli investimenti in questo settore. È un mix esplosivo». Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia va dritto al punto. «La crescita si fa con l’energia e le fonti rinnovabili coprono solo una minima parte del fabbisogno. Sono i fossili ancora il motore dell’economia». Poi sottolinea un passaggio fondamentale nello scenario energetico: «L’Algeria che oggi è il nostro primo fornitore di gas ha espresso una posizione ben precisa a favore di Hamas. Questo dimostra che la situazione non è allegra. È passato un anno e mezzo dall’inizio della guerra in Ucraina e l’Europa ha fatto ben poco per far fronte alla crisi energetica, a parte qualche rigassificatore. La politica della Commissione continua a demonizzare le fonti fossili, prosegue nella strategia della decarbonizzazione. È evidente che nessuno si sogna di investire in un settore che non è nel futuro dell’Europa. Ma siccome la domanda di energia cresce, siamo sempre più dipendenti dall’estero e non dobbiamo stupirci se i prezzi di gas e petrolio salgono». E l’Italia? «Il nostro Paese ha già avuto il risultato di non chiudere totalmente il carbone anche se le miniere non lavorano nella piena capacità. Inoltre si comincia a parlare di nucleare. Ma non si investe più in fossili, perché, indipendentemente da chi è al governo, non si può andare contro la Commissione europea. Le regole di Bruxelles sulla tassonomia verde, su ciò che deve essere considerato un investimento sostenibile e che consente di fare un bilancio di sostenibilità, vietano gli investimenti in fossili. L’Italia, in piena emergenza, è riuscita a fare un rigassificatore, ma è stato possibile grazie a una deroga, ed è un fatto episodico». Il nostro Paese ha cercato di diversificare le forniture guardando al nord Africa. Per Tabarelli «è stata una scelta obbligata. Abbiamo sfruttato il gasdotto che ci lega con l’Algeria. Noi prendiamo moltissimo gas dal Qatar che aiuta la causa palestinese. La cosa più banale sarebbe la produzione nazionale ma non riusciamo a farla. Certo non coprirebbe tutto il fabbisogno ma aiuterebbe. Va ricordato che il nostro sistema elettrico dipende per metà della produzione dal gas che è quasi tutto importato. Ed è una debolezza». Intanto il prezzo sale. Siamo passati da 38 euro a megawattora del 6 ottobre scorso a sfiorare i 50 euro. Tabarelli dice che «è niente rispetto a quello che potrebbe accadere se diventasse una crisi tipo quella del 1973 dello Yom Kippur. A differenza di allora, i Paesi produttori sono dalla nostra parte e non ostili. Diverso sarebbe se Iran e Qatar spingessero per un allargamento del conflitto. L’ipotesi estrema di interruzione dei flussi di esportazione dal Golfo Persico come nelle altre grandi crisi degli anni Settanta o Ottanta sarebbe un cataclisma che farebbe balzare i prezzi».
Gattuso e la Nazionale lasciano San SIro al termine del match perso per 4-1 contro la Norvegia (Ansa)
Necessarie misure serie: una quota per gli extracomunitari e almeno cinque azzurri in campo di norma. L’ennesimo Mondiale è a rischio, Gravina si prenda la responsabilità. E i settori giovanili vanno ripensati.
Questo non è un pezzo nostalgico anzi è un pezzo che guarda al futuro perché mi sono semplicemente rotto le scatole di una Nazionale scialba, viziata e perdente. E - chiedo scusa a Gattuso perché adesso tocca a lui fare da parafulmine - mi innervosiscono quelle dichiarazioni stupidamente ottimiste del tipo: «Bisogna ripartire dai primi 45 minuti», perché durante il primo tempo la Norvegia era in modalità «turismo»; quando si è svegliata ci ha preso a pallonate.
(Arma dei Carabinieri)
I Carabinieri del Comando Provinciale di Vicenza hanno portato a termine l'operazione «Marshall». Arrestati 20 cittadini di nazionalità nigeriana gravemente indiziati di appartenere a un gruppo criminale transnazionale dedito al traffico di cocaina ed eroina.
L’organizzazione era strutturata per assicurare un costante approvvigionamento e una capillare distribuzione della droga nelle principali piazze di spaccio del capoluogo e della provincia, oltre che in Veneto e Lombardia. Il canale di rifornimento, rimasto invariato per l’intero periodo dell’indagine, si trovava in Olanda, mentre la gestione dei contatti e degli accordi per l’invio della droga in Italia era affidata al capo dell'organizzazione, individuato nel corso dell’attività investigativa. L’importazione della droga dai Paesi Bassi verso l’Italia avveniva attraverso corrieri ovulatori (o “body packer”) i quali, previa ingestione degli ovuli contenenti lo stupefacente, raggiungevano il territorio nazionale passando dalla Francia e attraversando la frontiera di Ventimiglia a bordo di treni passeggeri.
Lo schema operativo si ripeteva con regolarità, secondo una cadenza settimanale: ogni corriere trasportava circa 1 chilogrammo di droga (cocaina o eroina), suddiviso in ovuli termosaldati del peso di circa 11 grammi ciascuno. Su ogni ovulo era impressa, con pennarello, una sigla identificativa dell’acquirente finale, elemento che ha permesso di tracciare la rete di distribuzione locale. Tutti i soggetti interessati dal provvedimento cautelare risultano coinvolti, a vario titolo, nella redistribuzione dello stupefacente destinato alle piazze di spaccio cittadine.
Dopo due anni di indagini, i Carabinieri sono stati in grado di ricostruire tutta la filiera del traffico di stupefacenti: dal fornitore olandese al promotore che in Italia coordinava la distribuzione alla rete di corrieri che trasportavano la droga in ovuli fino ai distributori locali incaricati dello spaccio al dettaglio.
Nel corso delle indagini è stato inoltre possibile decodificare il linguaggio in codice utilizzato dagli indagati nelle loro comunicazioni: il termine «Top» era riferito alla cocaina, «Spa» all’eroina, «Pantaloncino»alle dosi da 5grammi, mentre «Fogli di caramelle» si riferiva al contante. Il sequestro di quaderni contabili ha documentato incassi giornalieri e movimentazioni di denaro riconducibili a un importante giro d’affari, con pagamenti effettuati tramite bonifici internazionali verso conti correnti nigeriani per importi di decine di migliaia di euro.
Il Gip del Tribunale di Venezia ha disposto la custodia cautelare in carcere per tutti i venti indagati, evidenziando la «pericolosa professionalità» del gruppo e il concreto rischio di fuga, considerati anche i numerosi precedenti specifici a carico di alcuni appartenenti all’organizzazione.
L’esecuzione dei provvedimenti restrittivi e delle perquisizioni è stata condotta con il concorso di Carabinieri di rinforzo provenienti da tutti i Comandi Provinciali del Veneto, con il supporto dei Reparti Mobili e Speciali dell’Arma, delle Unità Cinofile Antidroga e del Nucleo Elicotteri Carabinieri, che hanno garantito la copertura aerea durante le operazioni.
L’Operazione «Marshall» rappresenta un importante risultato dell’attività di contrasto al narcotraffico internazionale e alle organizzazioni criminali transnazionali, confermando l’impegno costante dell’Arma dei Carabinieri nel presidio del territorio e nella tutela della collettività.
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Gli operai di Prato protestavano per le condizioni di lavoro nel distretto del fast fashion.
La donna cinese, che sta lì davanti ai capannoni con i capi, a un certo punto urla preoccupata: «Quella no, quella è polizia!». Troppo tardi. L’agente della Digos in borghese è stata scaraventata a terra da una squadretta di padroncini cinesi del Consorzio Euroingro di Prato, impegnata in una spedizione punitiva ai danni di un gruppo operai pakistani che stanno manifestando pacificamente contro le condizioni di lavoro da semi-schiavitù. Due i poliziotti feriti. In serata, la Procura di Prato ferma tre cittadini cinesi, accusati di resistenza a pubblico cinese e lesioni, ma le indagini sono ancora in corso e la polizia sta identificando uno a uno tutti i partecipanti al blitz.
Sul cartello c'è scritto: «Per il futuro dei nostri bambini» (Getty)
Il colosso tedesco manderà a casa 35.000 lavoratori entro il 2035. Stellantis chiede pietà a Ursula von der Leyen. Salta la gigafactory di Termoli?
La politica green di Bruxelles continua a mietere vittime nell’industria dell’auto. In attesa del piano sul settore che sarà presentato dalla Commissione europea, il prossimo 10 dicembre, si allunga il bollettino dei caduti sotto i colpi della crisi. Da questo appuntamento non ci si attende uno stravolgimento delle scadenze per l’elettrificazione dell’industria dell’automotive, con la data ultima del 2035 ancora segnata sul calendario di Bruxelles e considerata incontestabile, ma alcuni aggiustamenti.






