
Dopo aver visto cadere Pell, Viganò e Calcagno, Bergoglio sfida la vecchia guardia piazzando al vertice altre sue pedine.Il piano è sulla scrivania di papa Francesco da qualche settimana e diventerà operativo con il prossimo autunno. Ma è soprattutto nella testa del Pontefice il progetto di ridisegnare la curia romana alla luce dei processi e degli scandali che dall'autunno del 2015 hanno messo in mora i principali alfieri bianchi, un tempo scelti proprio da Bergoglio per puntellare la primavera di sacra romana chiesa. «Sono caduti uno a uno come birilli, quelli che rimangono in piedi sono della vecchia guardia, che così si consolida», commenta con sarcasmo un monsignore in curia. Certo, una battuta velenosa, ma sta di fatto che oggi la macchina centrale della Chiesa è fuori giri. Con il rinvio a giudizio del cardinale George Pell la potente segreteria per l'economia non macina riforme ed è stata affidata ad interim a un monsignore come Luigi Mistò, sacerdote proveniente dalla diocesi di Milano, e poi all'Apsa del cardinale Domenico Calcagno. L'incarico di Pell, ora «congelato» visto che al cardinale accusato di pedofilia hanno pure ritirato il passaporto, scade ufficialmente nel 2018. Il tempo è più che maturo per un nuovo prefetto, se qualcuno riuscisse a convincere il porporato australiano a dimettersi. Fino alle sentenze dei due processi, però, non si farà nulla. Papa Francesco non vuole sconfessarlo prima della giustizia civile. «Speriamo che il cardinale Pell non sia condannato», affermava l'arcivescovo Angelo Becciu solo qualche giorno fa all'ambasciata italiana presso la Santa Sede, «speriamo sia riconosciuta la sua innocenza, aspettiamo i tempi del processo». Non si possono aspettare i tempi della giustizia, invece, per Domenico Calcagno numero uno di un altro dicastero strategico, l'Apsa, che gestisce le operazioni mobiliari, una sorta di banca centrale dello Stato. L'inchiesta per malversazione della Procura di Savona è chiusa, ma i tempi del processo non sono prevedibili. Calcagno ha raggiunto i limiti d'età ed è dato in uscita. Come se non bastasse oggi nessuno verifica conti e bilanci. La brusca fuoriuscita del revisore generale Libero Milone, ex Deloitte Italia, ha svuotato quella nuova figura introdotta da Bergoglio nello scacchiere curiale, pregiudicando il futuro. Sì, da mesi i cacciatori di teste ingaggiati dalla Santa Sede hanno bussato a diversi autorevoli porte, cercando un sostituto. Ma, almeno finora, hanno raccolto solo cortesi e fermi dinieghi. Del resto, chi se la sente di correre il rischio di finire come Ettore Gotti Tedeschi o lo stesso Milone? Altra partita è quella dei media. Con l'arretramento di monsignor Dario Viganò, già prefetto della neonata segreteria per la comunicazione e dimessosi dopo l'incidente della lettera «oscurata» di Benedetto XVI, oggi l'ufficio non può più reggere l'assenza di una guida, una vacatio da colmare. Bisogna portare a termine quell'ambizioso progetto di centralizzazione della redazione e delle spese che avrebbe ridotto costi e orticelli di potere. Da qui l'idea di riordinare la curia con un piano studiato per il prossimo autunno, che verrà dilatato e steso per mesi, pur di non dare l'idea che sia in atto uno spoils system, pratica che vede contrario proprio Francesco, visto che va contro i principi dottrinali della Chiesa. L'obiettivo è di raccogliere linfa nuova che vada ad alimentare quelle riforme rimaste da anni sulla carta. Contro questo piano già si stanno muovendo i vecchi poteri curiali, che rischiano di perdere punti di riferimento e posizioni dominanti di potere. Come spesso accade nei sacri palazzi, anche stavolta la partita si giocherà sul tempo, prospettando via via al Pontefice altre priorità che allontanino Francesco dal mettere mano a uno stallo che favorisce chi non lo voleva Papa. Dai nomi e dai tempi si capirà chi vincerà la partita d'autunno. Ma non solo. Soprattutto, si potrà dedurre quanto il Pontefice abbia davvero salde in mano le redini, come certa pubblicistica interessata rappresenta, o se in realtà i tanti armistizi siglati hanno ipotecato l'azione riformatrice in modo irrecuperabile.
(IStock)
L’allarme: le norme verdi alzano i costi e favoriscono i gruppi che operano all’estero.
(Ansa)
Il colosso cinese offre un superbonus da 10.000 euro per i clienti che rottamano i vecchi modelli. La promozione sostiene il fatturato mentre calano gli utili e le immatricolazioni. Più forte la concorrenza dei marchi orientali che dominano il mercato.
Martha Argerich (Michela Lotti)
La leggendaria pianista argentina: «Suono troppo, ho molti dubbi e non so cosa fare del tempo che mi resta. Quest’arte però è grande come l’amore. Non può sconfiggere il male, ma ha il potere di toccare l’inconscio».
di Carlo Melato da Portoferraio, Isola d’Elba
La folta chioma color argento e le mani vigorose «forgiate per il pianoforte», come affermò Vincenzo Scaramuzza, tirannico maestro fissato con l’anatomia che la temprò quando era bambina. Il sorriso buono che ripara l’interlocutore dal fuoco che brucia dentro e il portamento da fata gentile che custodisce i terribili segreti del suono. Tutto secondo copione: Martha Argerich, a 84 anni, è l’inconfondibile leonessa di sempre. L’elemento spiazzante, a poco più di un’ora dal concerto più importante del Festival internazionale Elba isola musicale d’Europa - diretto dal vecchio amico George Edelman - è che la leggendaria pianista argentina, solitamente restia a farsi intervistare («Difficile parlare di musica, è la musica che parla», il suo primo comandamento), accetti l’invito proprio quando per lei sarebbe il momento di riposare. I suoi colleghi infatti corrono a nutrirsi dopo due ore di lavoro regalate alla curiosità del pubblico (spoiler: la serata si concluderà in un trionfo), nelle quali l’antidiva in purezza del concertismo mondiale è riuscita nel miracolo di dirigere attraverso le espressioni del suo viso.
La Argerich ci attende sullo sgabello. Con la mano destra regge una lattina di Coca-Cola che oscilla pericolosamente a pochi centimetri dalle corde e dai martelletti di uno Steinway gran coda, mentre la sinistra non riesce a smettere di cercare nuovi accordi, senza che questo distragga minimamente l’artista.
Le prove aperte sono un preludio di questo evento al Teatro dei Vigilanti di Portoferraio: prima il Quintetto per due violini, viola, violoncello e pianoforte op. 44 del suo «amico dell’anima», Robert Schumann, poi il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35 di Dmitri Shostakovich, a 50 anni dalla morte del compositore russo.
«Schumann lo amo ancora moltissimo, è una persona eccezionale».
Ne parla come se fosse vivo...
«Adoro anche il concerto di Shostakovich, soprattutto in questo periodo difficile per il mondo. Sappiamo che il suo autore pagò sulla propria pelle i guai che gli causò Stalin. Il rapporto di forza tra il dittatore e il musicista fu davvero singolare (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk - che il teatro alla Scala farà rivivere nella Prima di Sant’Ambrogio - costò al ventisettenne Dmitri una condanna pubblica sulla Pravda, alla quale seguirono censure, emarginazioni e violente pressioni psicologiche, ndr). Ma dobbiamo sottolineare l’eccezionale formazione da camera di questa sera».
L’Elba festival orchestra strings.
«Non consideriamolo “un ensemble di giovani”, anche se chiaramente sono tutti meno vecchi di me» (ride).
Età a parte, si sente una maestra in questo contesto, una guida?
«No».
Dai loro volti però traspare l’emozione di fare musica con lei: non è un privilegio?
«Così dicono… Comunque loro suonano benissimo. E c’è la prima tromba dell’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, Alfonso Gonzales Barquin. Devo dire molto, molto bene...».
La sua espressione lascia intendere un «ma»…
«Beh, il pianoforte ha un suono duro, secco. L’accordatore però ha fatto i miracoli».
Durante le prove ha bisbigliato a lungo con i professori d’orchestra.
«Anche questo teatro è particolare…».
Porta la firma di Napoleone, ma è una piccola bomboniera da 250 posti. Sono le dimensioni a complicare l’acustica?
«L’ultima volta che ho partecipato al festival avevo un pianoforte Fazioli ed eravamo all’aperto. Ricordo un’arena meravigliosa e un caldo pazzesco. Oggi gli elementi sono tutti diversi… La verità è che sono io a sentirmi strana. Nei giorni scorsi ero così stanca che non sapevo nemmeno se sarei riuscita a raggiungere l’isola. Non sono in forma: oggi più o meno, in realtà non lo so…».
Rileggendo la sua biografia, L’enfant et les sortilèges di Olivier Bellamy, ci si accorge che il peso dell’agenda che trabocca di concerti, soprattutto dopo i precoci trionfi al Concorso Busoni e a quello di Ginevra all’età di 16 anni, non l’ha mai abbandonata. Moltissimi anni fa arrivò a procurarsi un taglio a un dito per trovare una tregua. In questa fase della sua vita il palcoscenico le è amico?
«Difficile rispondere. Vivo in uno strano stato: tante domande, sono perplessa riguardo a me stessa».
Cosa la preoccupa?
«Non sono contenta di suonare - e soprattutto viaggiare - così tanto. Non so perché lo faccio, ma da questo punto di vista sono sempre stata contraddittoria. Faccio cose che non ho voglia di fare e poi… mi piacciono. Strano no?».
Gli applausi e l’amore che il pubblico le dimostra sono un sollievo?
«Non sempre perché penso a ciò che verrà dopo. Vorrei avere più tempo libero e non essere soltanto una pianista. Mi piacerebbe scoprire altro…».
Cosa?
«Per capirlo servirebbe la libertà che mi manca. Sono vecchia ormai. Non so cosa fare del tempo che rimane».
Si dice che lei sia perfezionista con sé stessa, ma non con il prossimo. Il direttore d’orchestra Enrico Fagone mi ha confidato che rimane sempre colpito dalla generosità con la quale lei coinvolge musicisti dei quali ama abbracciare la fragilità. Condividere la musica con le persone care le dà gioia?
«All’amicizia tengo molto, è un aiuto reciproco. Per me è stato decisivo il rapporto con Claudio Abbado. Quando lo conobbi ero una bambina e lui un giovane pianista: il migliore in quella masterclass a Salisburgo con Friedrich Gulda. Eseguiva la parte solistica dei concerti mentre io vestivo i panni dell’orchestra all’altro pianoforte. Non poteva ancora immaginare che sarebbe diventato un grande direttore. Poi ricordo Maurizio Pollini. I nostri diversi stili ci colpirono a vicenda. Ci incontrammo al Concorso di Ginevra e ogni volta che ci penso mi viene da ridere…».
Perché?
«Uomini e donne gareggiavano separati (la Argerich vinse, il formidabile pianista italiano arrivò secondo nella categoria maschile, ndr). Claudio e Maurizio non ci sono più e mi mancano terribilmente».
Il festival dell’Elba ha visto anche sua figlia, Annie Dutoit Argerich, dare corpo e voce alla Ode a Napoleone di Lord Byron, trasfigurata musicalmente da Arnold Schönberg in una specie di dodecafonia dal volto umano. Byron, come Schönberg, sembra molto critico verso quel Bonaparte che su quest’isola lasciò il segno, se ne andò 210 anni fa per riconquistare il mondo, senza però sapere che nel suo destino c’era Waterloo.
«Una prova molto difficile, Annie è stata bravissima (bis in programma a Oxford il 22 gennaio 2026 per il compleanno dello scrittore romantico, ndr). La delusione di Byron è propria di chi ha tanto amato. Ne ho parlato a lungo con mia figlia e mi ha convinto» (ride).
«La tomba è stato il tuo unico dono per chi ti adorava», sentenzia il poeta a proposito dell’«uom fatale». Ricorda la disillusione di Beethoven o quella di Manzoni: «Fu vera gloria?». Anche lei, sul New York Times, si è chiesta: «Cosa siamo noi pianisti? Niente».
«È vero, anch’io mi domando a cosa serva la gloria. In un film di Pedro Almodóvar (Tutto su mia madre, ndr) una donna afferma: “Il successo non ha sapore, né odore”. È così. E, in qualunque campo, non è nemmeno stabile. Pensi a quanti presidenti vengono eletti e poi scaricati dal popolo».
Ma quindi a cosa serve la musica?
«È un miracolo, la meraviglia della vita. È come chiedersi a cosa serve l’amore. Nella mia esistenza ho conosciuto una persona a cui non piaceva la musica, di qualunque tipo e genere. Non mi è mai più capitato».
È un’arte che regge l’urto davanti al mondo in fiamme?
«È l’espressione di qualcosa che non conosciamo fino in fondo. Di sicuro ha un potere enorme. Fare musica insieme è fondamentale, parla all’inconscio. Basti pensare a cosa ha generato Daniel Barenboim con la sua West-Eastern Divan orchestra (formazione che riunisce musicisti proveniente da Israele, Palestina e non solo, ndr). È molto interessante. Purtroppo però non basta».
Da Est al Medio Oriente è il male a trionfare?
«Ho conosciuto la madre di un ostaggio israeliano, rapito a 22 anni. So che suonava il pianoforte, nel frattempo ne ha compiuti 24. Spero che sia ancora vivo. Sono sofferenze terribili…».
Qual è il vero compito degli artisti oggi? Schierarsi?
«In qualche modo è sempre stato così. Arturo Toscanini o Pablo Casals lo hanno fatto, altri no. I musicisti sono persone, non immagini. Rispondono alla loro coscienza».
C’è un luogo nel quale trova la pace?
«Nella musica di Ludwig van Beethoven. Sono alle prese con la Grande fuga».
Da bambina scrisse che il padre della musica era Johann Sebastian Bach. Il suo Dio Beethoven. Ha cambiato idea?
«No, ma oggi sono politeista» (ride).
Prima ha citato Gulda, che per lei ha rappresentato un vero e proprio maestro di libertà. Le ha trasmesso anche la passione per il jazz?
«Certo. Erroll Garner è meraviglioso, Art Tatum mi ricorda Rachmaninoff e poi adoro Chick Corea. Mi spiace che sia scomparso. Tra le nuove leve vado matta per la giapponese Hiromi».
Domenica ci sarà la finale del Busoni. Per la sua vita, la vittoria del 1957 fu la palla di neve che scatenò la valanga. Cosa augura ai partecipanti?
«Di vincere, non è detto che si debba essere travolti. A proposito, sono rimasta impressionata da una giovane pianista».
Il suo nome?
«Martina Meola, 12 anni, vive a Milano. Ero nella giuria del concorso “Jeune Chopin” e ci ha regalato una ballata del compositore polacco meravigliosa».
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Papa Leone XIV (Ansa)
Da domani, il pellegrinaggio Lgbt a Roma con messa («profetica», dice lui) di monsignor Savino. Prevost, però, non riceverà i fedeli omosex, anche se il loro ideologo, il gesuita Martin, giura: «Prevost è come Francesco». Mentre Zuppi lo tira per la stola sui migranti.