- Giuseppe Conte dovrebbe tutelare gli asset del sistema Italia da azioni predatorie portate avanti da mani straniere. Scenario davanti al quale il premier tentenna. Mancano quei poteri di intelligence economica indispensabili per approfondire i dossier sospetti.
- Al via un tavolo per monitorare il 5G. Pompeo lancia avvertimenti a Roma. Pechino potrebbe mettere le mani sui dati sensibili della Pa. Alert della Casa Bianca.
Lo speciale comprende due articoli.
Ai suoi paracadutisti, il comandante del battaglione Folgore ha appena inviato una lettera da brivido per richiamarli a servire la patria: «Siamo in guerra», li sprona, «una guerra subdola perché non possiamo guarda in faccia il nemico e affrontarlo come ci aspettavamo». Il comandante del 187° reggimento paracadutisti ha ragione: il nemico oggi si muove invisibile, sottraendosi a qualsiasi conflitto tradizionale. Una cruda realtà che fotografa quindi quanto sta accadendo. Il nemico di oggi, il Covid-19, infatti non si vede se non al microscopio e nelle corsie della disperazione degli ospedali di frontiera e nelle unità intensive. Ma i nemici di domani e dopodomani, quelli che possono portare una mortale virulenza economica fatale per il nostro sistema, cercheranno di nascondersi ma avranno capitali e identità precise. E quindi bisogna reagire con lucidità, misura e fermezza per capire chi sono, a cosa mirano, cosa vogliono conquistare.
A tutela delle aziende italiane il governo Conte sta rivisitando lo spettro d'azione del cosiddetto golden power, per tutelare gli asset strategici industriali e più in generale il sistema Italia da azioni speculative, predatorie e coloniali, portate avanti da mani straniere, sfruttando la fragilità del momento.
In un dialogo con Marco Galluzzo pubblicato ieri sul Corriere della Sera, Giuseppe Conte fa capire che questo scudo potrebbe essere esteso a tutte le società quotate. In particolare, si andrebbero così a coprire sia settori strategici, come l'industria pesante dell'acciaio, della difesa, quella dell'energia, e le telecomunicazioni, sia quelli legati a credito e assicurazioni, da Generali in giù. Insomma questo strumento, introdotto dal governo Monti nel 2012, andrebbe a costituire un muro invalicabile che permetterebbe al governo di stoppare azioni ritenute ostili, miranti a sottratte al nostro controllo aziende e settori strategici. Ma è davvero così?
Indubbiamente l'iniziativa è meritoria nelle intenzioni, ma fragile nelle sue applicazioni. Il golden power esprime ancora un carattere preventivo e non porta in dote quei poteri di intelligence economica indispensabili per approfondire i dossier sospetti e ostacolare scalate contrarie agli interessi nazionali. Il mimetismo finanziario, la saldatura tra impresa privata e Stato in molti Paesi concorrenti (con il conseguente supporto delle agenzie di sicurezza alle attività estere), l'aggressività nell'espansione economica di Paesi cosiddetti «amici», come la Francia, sono solo alcuni dei motivi che imporrebbero invece misure a più ampio spettro. Purtroppo organi in chiaro come Guardia di finanza e Consob, sia i nostri servizi di sicurezza, pur essendo cresciuti in formazione, ancora non sono stati investiti e dotati di risorse tali per giocare un ruolo indispensabile nell'approfondimento dei dossier.
In particolare, la conversione dei nostri servizi di sicurezza, a iniziare dall'Aise, su campi in passato trascurati, come quello appunto dell'intelligence economica, avviene ancora troppo a rilento, rispetto alle esigenze di tutela dei mercati. Insomma, si lascia parte della squadra in panchina mentre la partita a tutela degli interessi nazionali dovrebbe riguardare tutti e superare quei formalismi e l'ambito amministrativo che lo studio sul golden power oggi sembra riservargli.
Il premier si relaziona, in termini amicali, fiduciari con il capo del Dis, il generale Gennaro Vecchione, che deve esser ben consapevole della necessità ormai sempre più impellente di superare l'immobilismo di fronte alle minacce via via più consistenti. Il Dis non è articolato sul fronte operativo come altre strutture - avendo priorità di coordinamento - o, ancora, altre entità che si potrebbero creare ex novo, ottimizzando le risorse. Questo momento d'emergenza potrebbe quindi diventare una occasione per allineare l'Italia a Paesi come gli Usa, dove la tutela degli interessi strategici è, culturalmente, un patrimonio collettivo e comune e, operativamente, tutelato da una task force di interlocutori che reperiscono informazioni, fanno analisi e, soprattutto, fronte comune. Non a caso oltreoceano costituisce un valido esempio il Cfius (Committee on foreign investments of the United States), il sistema di analisi e valutazione degli investimenti diretti esteri con molti più poteri rispetto a quelli del golden power italiano.
Il rischio all'orizzonte è troppo elevato per non ergere un filtro qualificato: lo scenario economico che si potrà avere in Italia nel medio periodo è infatti troppo preoccupante per tentennare e non permette di sbilanciare le aspettative sugli aiuti europei come i fatti più recenti hanno purtroppo confermato. «Quanto tempo impiegherà l'Italia a ricostruire il proprio tessuto connettivo?» è una domanda purtroppo oggi ancora prematura, ma di certo è il momento di rafforzare il sistema immunitario per salvaguardare quanto rimarrà.
Al via un tavolo per monitorare il 5G. Pompeo lancia avvertimenti a Roma
Mercoledì sera il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha tenuto una lunga conferenza stampa. Dopo aver sottolineato la vicinanza degli Stati Uniti all'Italia (unico Paese europeo a essere stato citato nell'intervento) - come ha fatto emergere il sito formiche.it - ha detto esplicitamente che «verrà un giorno», quando il virus sarà sconfitto, «in cui andremo a valutare la risposta del mondo intero», a partire dalla reazione cinese.
La Casa Bianca, se bene si interpretano le parole del Segretario, misurerà il comportamento di chi ha offerto il fianco alla propaganda cinese. Tanto basta per mettere in fila la citazione del nostro Paese e l'allusione che porta dritta ai 5 stelle. Probabilmente Luigi Di Maio si sarà sentito tirare in ballo. Sicuramente non è un caso se il premier Giuseppe Conte sentito in dovere di intervenire con un colloquio sul Corriere della Sera con il chiaro obiettivo di rassicurare i partner stranieri del Patto atlantico. Resta anche il fatto che si è aperto un «caso smart working». Chi dentro il Parlamento e le istituzioni ha consapevolezza delle dinamiche internazionali ha subito capito che due articoli del decreto Cura Italia possono spalancare le porte ai player cinesi che si occupano di digitalizzazione e di 5G.
Nelle scorse ore si è attivato un tavolo di analisi con l'obiettivo di ampliare e, se necessario, attivare i poteri del golden power tarandoli ai tempi del coronavirus. In sostanza, il tavolo, consapevole del fatto che dopo lo choc della pandemia la pubblica amministrazione dovrà necessariamente essere digitalizzata, mira a mettere paletti e valutare i rischi connessi a relazioni al di fuori della Nato. In particolar modo con operatori cinesi come Huawei.
Il colosso cinese presieduto in Italia da Luigi De Vecchis fornirà dispositivi di protezione e soluzioni tecnologiche per far fronte alla situazione di emergenza causata dalle infezioni da Covid-19. L'azienda «ha anche istituito un'unità interna di crisi per collaborare con le istituzioni nazionali e locali e avviare azioni di sostegno concertate con gli operatori di Tlc e i propri partner. L'obiettivo», si legge in una nota, «è quello di facilitare lo scambio di informazioni tra i team sanitari italiani e cinesi attraverso la sua piattaforma di collaborazione cloud Welink».
Questo uno dei motivi per cui la sera dell'approvazione in Gazzetta del decreto è partito un testa a testa tra il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e la componente grillina del governo. Far entrare i cinesi nel cloud degli ospedali potrebbe essere il primo passo per concedere importanti appalti nella Pa. Disarmante la replica sul Corriere del ministro per l'Innovazione, Paola Pisano. Dopo aver smentito le voci di una sua amicizia con Davide Casaleggio, ha minimizzato sulla portata dei due articoli in questione. «Abbiamo presentato due articoli che, in questa situazione di urgenza, velocizzano le procedure per la Pubblica amministrazione, che deve fornire servizi digitali», ha detto al giornalista che a sua volta ha sollevato la questione delle tensioni e dei ritardi nella pubblicazione chiedendo perché si continui a parlare di 5G e di Cina. «Mi stupisce. Credo sia pura strumentalizzazione politica. Questi sono temi tecnici e dovrebbero essere lasciati ai tecnici. E poi c'è sempre il golden power».
Ecco, il golden power, cioè la possibilità per il governo di bloccare scalate straniere su aziende considerate strategiche. «È vero che il governo sta pensando di allargarne il campo di applicazione?», chiude il giornalista di via Solferino. «Fino a ora non era una priorità, ma proprio oggi il tema sta tornando in agenda». Sono risposte come queste che hanno fatto rizzare i capelli agli americani e a chi cerca di tenerci dentro la Nato.
Per facilità, certo. Per facilità si trasforma la curia in un campo da calcio, dividendo cardinali e monsignori in due squadre. I rossi di Bergoglio e i neri di Ratzinger. I progressisti felpati gesuiti di Francesco e le orde dogmatico-conservatrici di Benedetto XVI in un derby apocalittico da fine della fede, della Chiesa e quindi del mondo. […] Il dopo Bertone ancora non è iniziato. A sette anni dall'inizio del pontificato, Pietro Parolin fatica nel vedere riconosciuta la sua leadership in un posto che fu di giganti della diplomazia come Agostino Casaroli e uomini di potere asciutto e discreto, come Angelo Sodano. I due hanno regnato in curia per oltre un quarto di secolo, Parolin in autunno copre l'intero periodo retto da Bertone senza che vi sia percezione che questo sia accaduto.
La mappa del potere curiale negli ultimi sei mesi ha subito una profonda mutazione, con strappi, defenestrazioni, messe in mora di chi costituiva ormai un'asimmetria rispetto al monarca assoluto, a Francesco. E così Domenico Giani ha lasciato la Gendarmeria, il cardinale Angelo Becciu seppur non indagato è stato colpito duramente dall'urto dell'inchiesta sulla compravendita dei palazzi a Londra, e ora anche monsignor Georg Gänswein, dopo l'ultimo scivolone del libro Dal profondo dei nostri cuori del cardinale Robert Sarah, ecco che fa o gli fanno fare l'atteso passo indietro. Tre personaggi importanti che hanno superato il crinale del successo, che costituivano entità di rilievo nel pontificato di Benedetto XVI e che ora vedono ridimensionato il ruolo. Becciu alla Congregazione delle cause dei santi deve rinunciare progressivamente alle influenze in Segreteria di Stato e nei rapporti politici con Italia (Quirinale, governo, opposizioni), Giani vede ancora molti amici in gendarmeria ma conoscerà meglio i segreti della sua Arezzo, Gänswein non è più quella indispensabile cinghia di trasmissione tra il Pontefice e il Papa emerito di un tempo. Con un inciso: queste fuoriuscite non danno rilievo a Parolin ma aumentano quello di Bergoglio, costretto a vivere i primi sei anni di pontificato tra trappole, imboscate e mimetismi.
Ora il cambio nelle gerarchie è dunque a buon punto, quello delle leggi invece tentenna con i primi irrigidimenti dell'ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, oggi al vertice del tribunale del Vaticano, reduce da un paio di incontri molto franchi con il Pontefice. Del resto il Vaticano è un Paese troppo giovane in tante discipline giuridiche: basti pensare che è stato l'ultimo in Europa a introdurre il reato di riciclaggio […]. Il cardinale che ruba è un fratello che compie peccato, per il quale nutrire misericordia.
Gli ammanchi di un ente provocano un danno di certo inferiore a quello sulla reputazione se la notizia trapelasse. Le critiche sull'indirizzo teologico vanno raccolte senza traumi per evitare i venti scismatici di antica memoria, come quelli mossi dai lefebvriani con Benedetto XVI. E così la discussione se aprire o meno ai preti sposati rimane materia di confronto sinodale senza strappi definitivi con la corposa realtà dogmatica che si fa sentire tra gli Stati Uniti e il Vecchio continente. Come la lotta alla pedofilia, vuole sì norme stringenti introdotte già dai primi giorni di pontificato ma rallenta nella loro adozione dibattimentale. […]
Dall'altra parte, la crisi economica, il rischio di default paventato in diversi documenti dai consiglieri di Bergoglio, a iniziare dal cardinale Reinhard Marx, farebbero premere sull'acceleratore delle riforme se non fosse che oggi come oggi la maggior libertà e trasparenza nei palazzi vaticani, una certa laicità priva di mistero nei giochi di poteri tra i rappresentanti della fede, ha portato anche ad aumento di visibilità degli scontri, con tutte le conseguenze immaginabili. […]
Anche perché sulla reversibilità della crisi della fede (che determina e si accompagna a quella delle vocazioni, del numero di cattolici, delle offerte e quindi della sostenibilità economica della struttura) non tutti sono d'accordo. […]
E allora: la fede rimane un bene primario della collettività italiana o nel passaggio dalla società provinciale a quella internauta si sta frantumando come paventava proprio Benedetto XVI? E, ancora, credere che comunque a un certo punto interverrà lo Spirito santo è la giusta attesa oppure è una rinuncia irresponsabile? Se Francesco è il monarca assoluto, il tempo è davvero tiranno. Le nubi che si addensano in questi giorni sul Cupolone sono sì scure ma è l'orizzonte a preoccupare […].
«E quale sarebbe il saldo?» sibila papa Francesco, lo sguardo fisso sui documenti, il volto terreo, il sopracciglio destro inarcato, la rabbia trattenuta a fatica. Il monsignore, di cui per sua tutela teniamo il nome riservato, è impaurito al vedersi esposto in questo modo, vorrebbe tornare subito a mezzo bonifici, contante e assegni per un importo pari a 2.777.130.245 lire...», in pratica oltre 2.200.000 euro di oggi. Una cifra impensabile sul conto di un prete, un fratello cardinale che Bergoglio abbraccia sull'altare alle funzioni più importanti nella basilica di San Pietro.
«Sì, sì, ma di recente quanti soldi sono entrati?» incalza spazientito il papa. «Be', a partire dal 2000 si registrano diciotto operazioni di apporto mediante assegni per un importo complessivo di 289.081 euro e undici operazioni in contanti per altri 68.750 euro». «È tutto?» replica Francesco. «No... le operazioni più rilevanti sono in titoli... qui la movimentazione è significativa... il saldo del conto n. 203925 in titoli è di 2.832.510,46 euro, mentre il n. 203112 vede una liquidità in contanti per 211.724,89 euro.» Un attimo di silenzio, poi Bergoglio ripete due volte la domanda più scomoda: «E di chi è questo tesoro?». Risposta: «Santo padre, è di sua eminenza il cardinale Giovanni Lajolo». Gelo.
Novarese, classe 1935, Lajolo è un porporato influente in curia. Già ai vertici del Governatorato, elettore all'ultimo conclave, oggi è presidente del cda dell'università privata Lumsa (Libera Università Maria Santissima Assunta), con sedi a Roma, Palermo, Taranto e Gubbio. Dunque, un fiume di denaro sul conto del morigerato e pio cardinale. «È l'unico porporato che ha lì il deposito?» insiste Francesco. «No. Ci sono altri quattro cardinali...» Ecco i nomi, che arrivano come un terremoto: «Sono Eduardo Martínez Somalo, Paul Josef Cordes, William Baum e sua eminenza Agostino Cacciavillan». Quella raccontata al santo padre è ancora una volta solo la punta di un iceberg. Dopo le ombre della terza banca presso la segreteria di Stato, ecco emergere un'altra contabilità parallela, stavolta ben protetta dall'Apsa, la banca centrale del Vaticano. Il polmone finanziario della Santa sede.
«Questi conti – replica il papa perentorio – vanno immediatamente chiusi!» E scandisce di nuovo l'avverbio abbassando la voce: «I-m-m-e-d-i-a-t-a-m-e-n-t-e...». Così congeda il suo interlocutore. Qualcuno nei giorni seguenti cerca di far notare al pontefice che Lajolo è ricco di famiglia, dispone di un discreto patrimonio immobiliare, ma non è questo il punto: la Chiesa che predica la povertà deve essere povera. E un conto personale di oltre 2 milioni di euro non può essere tollerato.
Bergoglio si ritira nella sua stanza a Santa Marta. Rimane lì a sfogliare documenti e tabulati riservati. Si renderà presto conto che la situazione è drammaticamente fuori controllo. Sono i primi giorni di ottobre del 2013, il suo pontificato è iniziato solo da pochi mesi. La storia fino a oggi segreta dei conti dei cinque cardinali, così come di quelli di tante altre eminenze grigie – che qui scopriremo per la prima volta –, lascia senza parole. Alti prelati che si ritrovano a speculare in Borsa per arricchirsi personalmente proprio sotto al cupolone, e lo fanno passando, senza battere ciglio, dalle parabole di Gesù ai listini con i titoli azionari, dalle genuflessioni davanti al papa e al Cristo ai fondi d'investimento o alle obbligazioni.
La vicenda dei conti intestati ai cardinali è la spia di un allarme proveniente da uno dei mondi più sommersi e ancora oggi meno scandagliati della Santa sede. L'Apsa è una struttura che movimenta una quantità impressionante di denaro: attività per 2,2 miliardi di euro e passività per 1,3 miliardi, con 849 milioni di patrimonio netto. Una realtà assai lontana dai moniti francescani di povertà e amore, ripetuti dal pontefice in ogni angolo del mondo. L'Apsa è uno Stato nello Stato, un dicastero che fin dalla sua fondazione - come prima peculiarità - è controllato rigidamente da una gerarchia composta quasi sempre da italiani.
la mossa della fed
[...] Il primo passo intrapreso da Bergoglio è capire come funziona la struttura. Conoscere la governance è infatti indispensabile se si vuole portarla verso una radicale riforma, in linea con gli indirizzi del suo pontificato. Il dicastero è diviso in due: la sezione ordinaria amministra l'enorme patrimonio immobiliare e tutto quel mondo di appalti, ristrutturazioni e manutenzioni che gravita intorno al mattone di Santa romana chiesa, mentre la sezione straordinaria si occupa della gestione dei soldi. [...] La gestione contabile della Santa sede, insomma, passa da qui.
È a partire dal 1940 che la Federal Reserve ha riconosciuto alla sezione straordinaria dell'Apsa lo status di banca centrale, permettendole così di intrattenere rapporti e relazioni con gli istituti centrali degli altri Paesi. La sezione straordinaria dell'Apsa, inoltre, detiene depositi presso lo Ior, dove opera con dieci conti in diverse valute, tra euro (saldo 30 milioni), titoli in euro (14,3 milioni circa), dollari (0,5 milioni), dollari canadesi (26.000), sterline (80.000) e franchi svizzeri (36.000). È da marzo del 2013 che Bergoglio comincia a puntare l'attenzione sulla struttura, da quando nella residenza estiva di Castel Gandolfo ha ricevuto dalle mani di Benedetto XVI il corposo dossier sui principali mali della curia: due tomi, trecento pagine, la mappa dei nomi, delle lobby, degli affari che tormentano la Chiesa. Il risultato di un'inchiesta interna disposta da Ratzinger nell'estate del 2012. Una fotografia impietosa scattata in vista della clamorosa rinuncia al pontificato.
[...] Ebbene, una parte significativa dell'indagine in mano a Benedetto XVI è dedicata proprio alla sezione straordinaria dell'Apsa. Il dossier denuncia le criticità punto per punto. Lo scandalo dei conti sommersi dell'Apsa Francesco si trova così di fronte a un altro buco nero dal quale potrebbe uscire di tutto.
lasciti ed eredità
[...] L'Apsa si presenta dunque come un mostro dalle mille facce, capace da solo di testimoniare quanto ancora oggi la curia romana sia tentacolare. Infatti nella banca centrale non corrono sottotraccia solo le questioni dei conti segreti o dei miopi investimenti mobiliari, elementi tipici della sezione straordinaria. Anche la sezione ordinaria, che amministra l'immenso patrimonio immobiliare - del valore di mercato di 2,7 miliardi di euro -, è percorsa da ombre. Anche qui emergono crepe profonde, privilegi, drammatiche criticità. Con una differenza sostanziale: mentre la struttura governata da Mennini già nel 2013 viene presa di petto con risolutezza dalla squadra di Francesco, che a cominciare dal 2016 raggiunge i primi risultati, seppur modesti, intorno alla gestione degli affari immobiliari, ogni tentativo di normalizzazione naufraga. Si vive alla giornata, si cammina a tentoni nelle tenebre, tra chi in sordina specula e porta avanti interessi che nulla c'entrano con gli insegnamenti del Vangelo.
Eppure, già nei primi mesi del pontificato, Francesco era stato documentato su come il patrimonio rendesse assai meno di quanto previsto secondo le correnti valutazioni di mercato.
In particolare, si era appurato che la cosiddetta «affittopoli vaticana» – lo scandalo delle case affittate a canone zero o a somme irrisorie, dietro il quale è ben nascosto un potente sistema clientelare – drenava risorse rilevanti dalle casse dello Stato. Ancora a novembre del 2015, dopo la denuncia contenuta nel mio saggio Via Crucis sugli appartamenti da settecento metri quadrati dati ai cardinali o quelli di pregio affittati a canone zero alla nomenclatura vaticana, papa Francesco era rimasto scandalizzato. Con discrezione aveva affidato all'allora revisore generale Libero Milone un'inchiesta interna per accendere finalmente un faro sull'effettiva rendita di un patrimonio formato da lasciti, eredità e donazioni, ma affittato a canoni irrisori ad amici e amici degli amici. Milone però, come vedremo, va a sbattere contro profonde e articolate resistenze, tanto che la sua indagine presto deraglia. L'Apsa continua ad accettare affitti modesti, se non risibili, ritrovandosi poi con i conti della curia in profondo rosso, costretta a prelevare decine di milioni dalle offerte dell'Obolo di san Pietro pur di far fronte alle spese sempre crescenti.
Nulla di nuovo, insomma. Francesco si trova sulla sua scrivania i problemi irrisolti di sempre. Ma oggi la situazione dei conti è insostenibile, al santo padre è stato annunciato persino il default. All'interno delle mura leonine trionfa una doppia verità, contraddittoria.





