
Siamo circondati da maschere che, anche in politica, danno spettacoli cupi di cinismo e aggressività, sconfinando nel volgare. Abbiamo invece bisogno del «riso da battaglia» dei folli di Shakespeare, capaci di vedere l'aspetto gioioso che c'è nel reale. Di per sé, la giostra dei giuseppi che ogni giorno ci gira sotto il naso, ognuno con le sue smorfie, grida, sberleffi, maschere, nacchere e putipù (a cominciare dal gagà pettinato che la conduce), potrebbe forse anche fare ridere. Se non fosse che siamo noi a pagare lo spettacolo, e ci piacerebbe investire meglio i nostri soldi e energie. È bene tuttavia non incupirsi, e trovare il modo di ridere lo stesso, per la nostra salute e piacere. Non però un riso debole e accondiscendente, come si fosse d'accordo con le povere gag della compagnia dei male assortiti (i mal trà insema, in milanese), ma un ridere forte per le scemenze che i suoi comici dicono e fanno, e per convincerci ancora di più a fare finire in fretta la farsa e passare alle cose importanti. È il riso «da battaglia» (un rumore di fondo presente in tutta l'opera di Shakespeare), conosciuto da secoli e indispensabile per dare forza a chi vuole cambiare le cose. È il riso di Boris Johnson che dopo tre anni di avanti e indietro di Theresa May, va a Bruxelles e in una veloce sequenza di abbracci e pacche coi diversi barcollanti euroburocrati, dopo due giorni torna a Londra con in tasca l'accordo dell'Unione Europea alla Brexit. Mentre Michel Barnier, negoziatore per la Ue dice: «Ora il Parlamento inglese si prenda le sue responsabilità. Era da tre anni che ci stavamo lavorando, adesso ci dicano cosa vogliono fare». O prendere o lasciare. Naturalmente il vecchio Parlamento inglese fa poi i suoi minuetti (anche se lì recitati meglio che in quello italiano, ma si sa che diversi secoli di democrazia in più fanno la differenza). Alla fine ci saranno le nuove elezioni che Johnson vuole (finora rifiutate da laburisti e liberali), dove secondo i sondaggi l'allegria all'insegna del «basta chiacchiere» dell'allievo di Churchill, dovrebbe vincere senza problemi perché il popolo inglese, indipendente da sempre, non ne può più. Vedremo. È un ridere non per sfuggire al conflitto, ma per combatterlo con allegria. Una posizione tradizionale nel mondo maschile che affonda le sue radici nella cultura del Selvadego poco amante delle convenzioni, e anche per questo amato da Leonardo da Vinci.È il riso da battaglia che ad esempio animava Italo Balbo, protagonista della marcia su Roma e maresciallo dell'aria, quando preoccupato dell'imbolsirsi e impennacchiarsi dei gerarchi faceva girare al tavolo del Gran Consiglio fascista fogli dove trascriveva personalmente le satire del poeta Trilussa che sbeffeggiava queste scivolate di gusto e di idee. In una, «La festa der somaro» l'asino racconta alle selvatiche capre che lo compatiscono per la cavezza legata al collo che poi, «se la domenica er padrone / me porta in giro, dove c'è la fiera / cò li pennacchi e cò la sonajera / me scordo tutto./ Che soddisfazzione!». Trilussa verrà poi fatto senatore a vita dall'economista liberale Luigi Einaudi, altro maestro nel ridere con spietatezza subalpina del potere vuoto stile giuseppi, e dei suoi ridicoli tic. Ma la nomina andò per le lunghe, e finì con l'arrivare solo poco prima della fine, strappando così l'ultima, divertita battuta: «Mi hanno fatto senatore a morte!»Oggi, nei tempi seriosi e insensati dell'odio e insieme della proibizione dell'odio (due sciocchezze affatto spiritose), del riso c'è grande nostalgia. Sarà anche per questo che nelle ultime settimane sono usciti due libri sul riso: Ridere. Antropologia dell'homo ridens. dell'antropologo francese David Le Breton (Cortina), e il classico Il motto di spirito. Comicità ed umorismo del filosofo tedesco Kuno Fischer; due ottime piste per restare vicini all'attività salutare del ridere. Lo psicoanalista sa che quando nei toni dark di una psiche che non sta troppo bene compare una battuta, uno scherzo, il peggio passerà. Chi ha conosciuto la libertà della risata (anche inconscia) si stuferà di sprofondare nella nevrosi e nel suo cupo corteo di noiose dipendenze, bisogni e paure. Il riso sì che rende liberi, perché è davvero creativo.Per questo il ridere gioca un ruolo centrale in molte religioni. Nel Nuovo Testamento «rallegrati!» viene ripetuto ventiquattro volte. I martiri, grandi anticonformisti e maestri nel vedere l'aspetto nascosto della realtà, si prendono continuamente gioco dei loro torturatori: santa Maura, racconta Le Breton, rimprovera il governatore pagano che l'ha gettata nell'acqua bollente protestando perché è gelata, e san Lorenzo, «sulla graticola perché abiuri la fede, invita i suoi carnefici a girarlo dall'altra parte appena arrostito». Il nome del figlio di Abramo, Isacco, significa: egli riderà; infatti, quando l'altare su cui deve essere sacrificato a Dio è pronto, al suo posto viene offerto un animale. E il più pessimista fra i libri della Bibbia, il Qoelet ammette che per l'uomo c'è «un tempo per piangere e un tempo per ridere», entrambi indispensabili.Nei tempi sgradevoli, anche quando apparentemente fatui come il tempo dei giuseppi, è meglio ridere e impegnarsi a farlo. Ce lo hanno insegnato i padri che hanno affrontato davvero i campi nazisti e non le buffonate di piazza o studio tv a base di bella ciao 75 anni dopo. Il deportato Aldo Ravelli, che al ritorno diventerà il più importante operatore di borsa d'Italia, organizzava nel campo di Mauthausen la passerella di un nobile milanese nudo (anch'egli protagonista poi di grandi opere) per farsi dare sigarette dai tedeschi e ridere. Se sai ridere, prendi distanza dall'orrore (e ti fumi anche una sigaretta). Altrimenti rimani solo un prigioniero del campo di concentramento; ma anche delle crudeli stupidità giuseppine, come la proposta (del governatore dell'Emilia Romagna) della scuola dell'obbligo da zero anni in poi, con il bimbo «obbligato» e chiuso lì dentro appena strappato dal seno materno.Il riso crea una zona franca dove respiri più liberamente, a distanza di sicurezza dalle classiche nevrosi del potere: delirio di onnipotenza, narcisismo (il re nudo), noia. Ridere è il sapere del buffone di corte, indifferente all'etichetta ma anche al proprio potere: il «folle» dei tarocchi, a differenza dei giuseppi, non è un intrigante, anzi consiglia al re di starne alla larga. Il vero joker, dice Shakespeare ne La dodicesima notte, «è sufficientemente assennato da poter fare il matto: per farlo bene ci vuole infatti molto ingegno»: tutto il contrario dei giuseppi che si danno arie da saggi e sembrano completamente fuori di zucca. Il bisogno del riso e la sua inquietante mancanza nelle società politicamente corrette apre la strada della politica ai comici, dai francesi Coluche, Dieudonné a Grillo e gli altri che verranno: il risultato è una mistura tossica di aggressività, cinismo, ignoranza, volgarità. «La società umoristica - ha detto il filosofo Gilles Lipovetsky - spegne progressivamente la propensione a ridere». Mentre il riso da battaglia, con il suo coraggio di vedere il mondo e se stessi nella loro miseria, aiuta a costruirne un altro, migliore.
Mattia Furlani (Ansa)
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