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2021-07-09
I ricoveri contano più dei contagiati. Cambiare i criteri delle zone colorate
Getty Images
Il sistema delle zone colorate per il contrasto alla diffusione del Covid-19 accompagna ormai da tempo le nostre vite. Eppure - in un momento in cui l'Italia è tutta bianca - è forse giusto interrogarsi sui criteri che stanno alla base delle chiusure. Eh sì, perché - con il mutare delle circostanze - proprio quei criteri rischiano di essere ormai diventati obsoleti. E sarebbe forse il caso di aggiornarli. Si tratta di un tema che questo giornale aveva messo in evidenza già tre settimane fa. Ma che sembra si stia facendo adesso strada anche all'interno del Cts, oltre che tra gli stessi governatori delle Regioni. Come riferito ieri da Il Messaggero, di questo avviso parrebbero per esempio essere il presidente della Liguria, Giovanni Toti, e il suo collega dell'Abruzzo, Marco Marsilio. Una linea, tra l'altro, accarezzata anche dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. «Oggi», ha dichiarato, «il meccanismo dei colori valuta il numero dei casi, dei ricoveri e delle occupazioni delle terapie intensive. Quando i vaccinati saranno di più, dovremo legare maggiormente il sistema alla tenuta degli ospedali». «Va pensata una diversa modalità, basata sulla gravità dei positivi. L'influenza classica, ogni anno, causa 7.000-8.000 decessi, non per questo andiamo a chiudere le regioni, a indicare i colori. Se i vaccini contro il Covid abbatteranno in modo drastico il numero dei casi gravi, i parametri andranno cambiati», ha aggiunto.
In effetti il punto è proprio questo. Nonostante nel nostro Paese il numero dei contagi sia in aumento, è altrettanto vero che - come ha sottolineato anche la Fondazione Gimbe - ricoveri e decessi risultino (almeno per ora) complessivamente in discesa. Un quadro sostanzialmente confermato anche dai dati di ieri sera, secondo cui - pur a fronte di un incremento dei casi e del tasso di positività rispetto al giorno precedente - il numero dei morti e dei ricoveri ordinari è sceso (laddove quello delle terapie intensive è rimasto invariato).
Sotto questo aspetto, è interessante un raffronto con il Regno Unito, dove si è verificata una significativa diffusione della variante delta. Ora, è senz'altro vero che Oltremanica - negli scorsi trenta giorni - si è registrata un'impennata dei contagi. Ciò detto, va anche riconosciuto che il numero britannico dei morti e delle ospedalizzazioni resta basso, soprattutto in confronto ai dati drammatici dei mesi di gennaio e febbraio. Sebbene non vada affatto sottovalutata, la variante delta sembra quindi avere un peso abbastanza contenuto su decessi e ricoveri. Una situazione in gran parte dettata dai progressi delle campagne di vaccinazione (su cui bisogna evidentemente insistere). D'altronde, uno studio britannico, pubblicato lo scorso 23 giugno e condotto su dati dell'app Zoe, ha rilevato come i soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale si ammalino meno gravemente e migliorino con maggiore rapidità. È quindi alla luce di tutto questo che sarebbe forse saggio vincolare i criteri per le zone colorate (o comunque per le chiusure) più ai dati sui ricoveri che a quelli sui contagiati.
E attenzione: anche alcuni esperti sono di questo avviso. È, per esempio, il caso dell'assessore alla Sanità della Regione Puglia e professore di igiene presso l'Università di Pisa, Pierluigi Lopalco. «Ora che abbiamo i vaccini, vanno cambiati i criteri che determinano le chiusure. E il numero dei casi positivi andrà usato per quello che è: un dato utile ad arginare l'andamento dell'epidemia, a sorvegliare la diffusione del virus», ha dichiarato. «Però», ha aggiunto, «ciò che deve contare veramente sono i ricoveri. Se ci contageremo, ma non avremo gravi conseguenze perché i più fragili sono protetti dal vaccino, non sarà un problema enorme».
Su una linea non troppo dissimile si è collocata anche l'immunologa dell'Università di Padova, Antonella Viola. «Boris Johnson decide di abbandonare le restrizioni e dice che d'ora in avanti il Sars-CoV-2 sarà gestito come il virus dell'influenza. È possibile? Non solo è possibile, è necessario», ha scritto ieri su Facebook. «Il virus», ha proseguito, «continuerà a circolare. Ci contageremo, ma saremo protetti dalle forme gravi della malattia grazie ai vaccini. Finché la risposta immunitaria generata dalla vaccinazione terrà vuoti gli ospedali, non dovremo fare altro». «Se l'immunità dovesse indebolirsi troppo nel tempo, o se il virus dovesse mutare troppo, dovremo far ricorso a ulteriori vaccinazioni (rispettivamente con terza dose o con vaccino aggiornato). Ma per ora lo scenario è quello immaginato dal Regno Unito», ha concluso.
Vaccini, pericolo per gli adolescenti
Mentre i medici sono spediti a caccia di giovanissimi da vaccinare, anche con tanto di camper piazzato sulla spiaggia come accade nei dintorni di Palermo, gli esperti del Cts non la pensano tutti allo stesso modo sull'opportunità di dare il vaccino ai ragazzi. Ormai è diventata la nuova parola d'ordine, immunizzare gli studenti per riaprire le scuole a settembre e così tentare di nascondere il nulla di fatto in tema di messa in sicurezza delle aule e dei mezzi di trasporto, ma se alcuni componenti del Comitato tecnico scientifico condividono l'accelerata impressa dal commissario per l'emergenza Francesco Paolo Figliuolo, altre voci dissonanti si alzano chiare e decise.
Purtroppo non riescono a bucare il guscio in cui il Cts ragiona, discute e decide sulla salute degli italiani in apparente accordo, però di certo c'è chi la pensa come i tedeschi che non raccomandano il vaccino nei bambini e negli adolescenti senza malattie pregresse. Si tratta di qualche voce autorevole, abituata a ragionare sull'evidenza scientifica, non sulla necessità di assecondare la politica vaccinale del governo. Al momento tace, perché in realtà l'argomento vaccinazioni nella fascia 12-15 anni non è mai stato affrontato dal Cts. La campagna sta andando avanti per slogan, dichiarazioni di virologi, pediatri, docenti, ciascuno mette insieme pezzi di verità o di sentito dire, con il risultato che la pressione sulla popolazione è enorme quanto ingiustificata.
Ci sarebbero altri dati, invece, su cui riflettere. Negli aggiornamenti del 23 giugno scorso dei Cdc, le autorità sanitarie statunitensi, c'è un inquietante report curato da Tom Shimabukuro, responsabile della task force per la sicurezza delle vaccinazioni anti Covid. Al 12 giugno scorso il Vaccine safety datalink (Vsd), che conduce studi su eventi avversi rari e gravi dopo l'immunizzazione, riferiva le reazioni riscontrate su minori di fascia 12-15 anni ai quali erano state somministrate 176.987 prime dosi e 66.546 richiami di vaccino Pfizer; mentre nella fascia 16-17 erano state date 127.665 prime dosi e 101.938 richiami.
Le analisi delle segnalazioni di miocarditi riscontrate dopo le vaccinazioni tra gli adolescenti sono ancora in corso, ma possiamo conoscere le percentuali delle reazioni avverse gravi nei giorni da 0 a 7 dopo ogni inoculazione che, dopo la prima dose, vanno dal 2,3% nella fascia 12-15 anni al 5,2% in quella 16-25, riferite quanto a incapacità di studiare o lavorare per alcuni giorni, per balzare al 9,1% e al 9,8% (rispettivamente per fascia), quanto a incapacità di svolgere le normali attività quotidiane. Dopo la seconda dose, si va dal 5,6% al 25%.
Eugenio Serravalle, medico specialista in pediatria preventiva e presidente dell'Assis, associazione di studi e informazione sulla salute, con queste percentuali ha realizzato delle proiezioni sulla popolazione degli adolescenti e dei giovani italiani, qualora si vaccinassero tutti. «Se il 2,3% dei 2.272.563 di età compresa tra 12 e 15 anni dovesse avere reazioni gravi come registrate negli Stati Uniti dopo la prima dose di vaccino, staremmo parlando di 52.000 ragazzini», spiega il medico. «Considerando il 9,1% di incidenza di reazioni che impediscono lo svolgimento di attività quotidiane, arriviamo a quasi 207.000 giovani. Dopo la seconda dose, le cose non andrebbero certo meglio: il 5,6%, ovvero 127.000 ragazzini, avrebbero reazioni serie e il 25,4%, vale a dire 577.000 giovanissimi si troverebbero inabilitati per un periodo di tempo non così breve».
Quanto potrebbero durare i disturbi, non è chiaro. «Il trial sul vaccino di Moderna riferiva una durata media di reazioni di 3-4 giorni dopo la prima dose e di quattro dopo la seconda, senza distinguere tra quelle lievi, moderate e gravi, mentre per i trial di Pfizer ancora non ci sono dati», fa sapere Serravalle. Secondo Annamaria Staiano, presidente delle Società Italiana di pediatria (Sip), invece «non ci sono evidenze scientifiche di nesso di causalità tra queste vaccinazioni e eventi più severi, come qualcuno ha paventato». Poche settimane fa ha dichiarato: «Ad oggi non ci sono effetti collaterali diversi da quelli di altri vaccini, quindi possiamo rassicurare ragazzi e genitori che quello contro il Covid è un vaccino uguale agli altri, con minimi effetti collaterali, come altri tipi di vaccino».
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Con l'Italia tutta bianca, il procedere della campagna vaccinale e gli ospedali mezzi vuoti non ha senso vincolare eventuali restrizioni al numero dei casi. Altrimenti si finirà per chiudere anche per l'influenza.Gli esperti del Cts non la pensano tutti allo stesso modo su immunizzare la fascia 12-15. Temono reazioni. I dati Usa: fino al 25% sono incapaci di svolgere attività per 3-4 giorni.Lo speciale contiene due articoli.Il sistema delle zone colorate per il contrasto alla diffusione del Covid-19 accompagna ormai da tempo le nostre vite. Eppure - in un momento in cui l'Italia è tutta bianca - è forse giusto interrogarsi sui criteri che stanno alla base delle chiusure. Eh sì, perché - con il mutare delle circostanze - proprio quei criteri rischiano di essere ormai diventati obsoleti. E sarebbe forse il caso di aggiornarli. Si tratta di un tema che questo giornale aveva messo in evidenza già tre settimane fa. Ma che sembra si stia facendo adesso strada anche all'interno del Cts, oltre che tra gli stessi governatori delle Regioni. Come riferito ieri da Il Messaggero, di questo avviso parrebbero per esempio essere il presidente della Liguria, Giovanni Toti, e il suo collega dell'Abruzzo, Marco Marsilio. Una linea, tra l'altro, accarezzata anche dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. «Oggi», ha dichiarato, «il meccanismo dei colori valuta il numero dei casi, dei ricoveri e delle occupazioni delle terapie intensive. Quando i vaccinati saranno di più, dovremo legare maggiormente il sistema alla tenuta degli ospedali». «Va pensata una diversa modalità, basata sulla gravità dei positivi. L'influenza classica, ogni anno, causa 7.000-8.000 decessi, non per questo andiamo a chiudere le regioni, a indicare i colori. Se i vaccini contro il Covid abbatteranno in modo drastico il numero dei casi gravi, i parametri andranno cambiati», ha aggiunto. In effetti il punto è proprio questo. Nonostante nel nostro Paese il numero dei contagi sia in aumento, è altrettanto vero che - come ha sottolineato anche la Fondazione Gimbe - ricoveri e decessi risultino (almeno per ora) complessivamente in discesa. Un quadro sostanzialmente confermato anche dai dati di ieri sera, secondo cui - pur a fronte di un incremento dei casi e del tasso di positività rispetto al giorno precedente - il numero dei morti e dei ricoveri ordinari è sceso (laddove quello delle terapie intensive è rimasto invariato). Sotto questo aspetto, è interessante un raffronto con il Regno Unito, dove si è verificata una significativa diffusione della variante delta. Ora, è senz'altro vero che Oltremanica - negli scorsi trenta giorni - si è registrata un'impennata dei contagi. Ciò detto, va anche riconosciuto che il numero britannico dei morti e delle ospedalizzazioni resta basso, soprattutto in confronto ai dati drammatici dei mesi di gennaio e febbraio. Sebbene non vada affatto sottovalutata, la variante delta sembra quindi avere un peso abbastanza contenuto su decessi e ricoveri. Una situazione in gran parte dettata dai progressi delle campagne di vaccinazione (su cui bisogna evidentemente insistere). D'altronde, uno studio britannico, pubblicato lo scorso 23 giugno e condotto su dati dell'app Zoe, ha rilevato come i soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale si ammalino meno gravemente e migliorino con maggiore rapidità. È quindi alla luce di tutto questo che sarebbe forse saggio vincolare i criteri per le zone colorate (o comunque per le chiusure) più ai dati sui ricoveri che a quelli sui contagiati. E attenzione: anche alcuni esperti sono di questo avviso. È, per esempio, il caso dell'assessore alla Sanità della Regione Puglia e professore di igiene presso l'Università di Pisa, Pierluigi Lopalco. «Ora che abbiamo i vaccini, vanno cambiati i criteri che determinano le chiusure. E il numero dei casi positivi andrà usato per quello che è: un dato utile ad arginare l'andamento dell'epidemia, a sorvegliare la diffusione del virus», ha dichiarato. «Però», ha aggiunto, «ciò che deve contare veramente sono i ricoveri. Se ci contageremo, ma non avremo gravi conseguenze perché i più fragili sono protetti dal vaccino, non sarà un problema enorme». Su una linea non troppo dissimile si è collocata anche l'immunologa dell'Università di Padova, Antonella Viola. «Boris Johnson decide di abbandonare le restrizioni e dice che d'ora in avanti il Sars-CoV-2 sarà gestito come il virus dell'influenza. È possibile? Non solo è possibile, è necessario», ha scritto ieri su Facebook. «Il virus», ha proseguito, «continuerà a circolare. Ci contageremo, ma saremo protetti dalle forme gravi della malattia grazie ai vaccini. Finché la risposta immunitaria generata dalla vaccinazione terrà vuoti gli ospedali, non dovremo fare altro». «Se l'immunità dovesse indebolirsi troppo nel tempo, o se il virus dovesse mutare troppo, dovremo far ricorso a ulteriori vaccinazioni (rispettivamente con terza dose o con vaccino aggiornato). 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Ormai è diventata la nuova parola d'ordine, immunizzare gli studenti per riaprire le scuole a settembre e così tentare di nascondere il nulla di fatto in tema di messa in sicurezza delle aule e dei mezzi di trasporto, ma se alcuni componenti del Comitato tecnico scientifico condividono l'accelerata impressa dal commissario per l'emergenza Francesco Paolo Figliuolo, altre voci dissonanti si alzano chiare e decise. Purtroppo non riescono a bucare il guscio in cui il Cts ragiona, discute e decide sulla salute degli italiani in apparente accordo, però di certo c'è chi la pensa come i tedeschi che non raccomandano il vaccino nei bambini e negli adolescenti senza malattie pregresse. Si tratta di qualche voce autorevole, abituata a ragionare sull'evidenza scientifica, non sulla necessità di assecondare la politica vaccinale del governo. Al momento tace, perché in realtà l'argomento vaccinazioni nella fascia 12-15 anni non è mai stato affrontato dal Cts. La campagna sta andando avanti per slogan, dichiarazioni di virologi, pediatri, docenti, ciascuno mette insieme pezzi di verità o di sentito dire, con il risultato che la pressione sulla popolazione è enorme quanto ingiustificata. Ci sarebbero altri dati, invece, su cui riflettere. Negli aggiornamenti del 23 giugno scorso dei Cdc, le autorità sanitarie statunitensi, c'è un inquietante report curato da Tom Shimabukuro, responsabile della task force per la sicurezza delle vaccinazioni anti Covid. Al 12 giugno scorso il Vaccine safety datalink (Vsd), che conduce studi su eventi avversi rari e gravi dopo l'immunizzazione, riferiva le reazioni riscontrate su minori di fascia 12-15 anni ai quali erano state somministrate 176.987 prime dosi e 66.546 richiami di vaccino Pfizer; mentre nella fascia 16-17 erano state date 127.665 prime dosi e 101.938 richiami. Le analisi delle segnalazioni di miocarditi riscontrate dopo le vaccinazioni tra gli adolescenti sono ancora in corso, ma possiamo conoscere le percentuali delle reazioni avverse gravi nei giorni da 0 a 7 dopo ogni inoculazione che, dopo la prima dose, vanno dal 2,3% nella fascia 12-15 anni al 5,2% in quella 16-25, riferite quanto a incapacità di studiare o lavorare per alcuni giorni, per balzare al 9,1% e al 9,8% (rispettivamente per fascia), quanto a incapacità di svolgere le normali attività quotidiane. Dopo la seconda dose, si va dal 5,6% al 25%. Eugenio Serravalle, medico specialista in pediatria preventiva e presidente dell'Assis, associazione di studi e informazione sulla salute, con queste percentuali ha realizzato delle proiezioni sulla popolazione degli adolescenti e dei giovani italiani, qualora si vaccinassero tutti. «Se il 2,3% dei 2.272.563 di età compresa tra 12 e 15 anni dovesse avere reazioni gravi come registrate negli Stati Uniti dopo la prima dose di vaccino, staremmo parlando di 52.000 ragazzini», spiega il medico. «Considerando il 9,1% di incidenza di reazioni che impediscono lo svolgimento di attività quotidiane, arriviamo a quasi 207.000 giovani. Dopo la seconda dose, le cose non andrebbero certo meglio: il 5,6%, ovvero 127.000 ragazzini, avrebbero reazioni serie e il 25,4%, vale a dire 577.000 giovanissimi si troverebbero inabilitati per un periodo di tempo non così breve». Quanto potrebbero durare i disturbi, non è chiaro. «Il trial sul vaccino di Moderna riferiva una durata media di reazioni di 3-4 giorni dopo la prima dose e di quattro dopo la seconda, senza distinguere tra quelle lievi, moderate e gravi, mentre per i trial di Pfizer ancora non ci sono dati», fa sapere Serravalle. Secondo Annamaria Staiano, presidente delle Società Italiana di pediatria (Sip), invece «non ci sono evidenze scientifiche di nesso di causalità tra queste vaccinazioni e eventi più severi, come qualcuno ha paventato». Poche settimane fa ha dichiarato: «Ad oggi non ci sono effetti collaterali diversi da quelli di altri vaccini, quindi possiamo rassicurare ragazzi e genitori che quello contro il Covid è un vaccino uguale agli altri, con minimi effetti collaterali, come altri tipi di vaccino».
Elon Musk (Ansa)
La controffensiva del magnate galvanizza X. Viktor Orbán scrive che «l’attacco della Commissione dice tutto. Quando i padroni di Bruxelles non riescono a spuntarla nel dibattito, arrivano alle multe. L’Europa ha bisogno della libertà d’espressione, non di burocrati non eletti che decidono cosa possiamo leggere o dire. Giù il cappello per Elon Mask perché ha tenuto il punto». Geert Wilders, leader sovranista olandese, se la prende con l’esecutivo di Ursula von der Leyen: «Nessuno vi ha eletto», twitta. «Non rappresentate nessuno. Siete un’istituzione totalitaria e non riuscite nemmeno a dividere in sillabe le parole “libertà d’espressione”. Non dovremmo accettare la multa a X, semmai abolire la Commissione Ue». Musk applaude: «Assolutamente! La Commissione Ue venera il dio della burocrazia, che soffoca il popolo d’Europa».
Oltreoceano, intanto, parte la rappresaglia. Reuters riferisce che il Dipartimento di Stato studia una stretta sui visti per chi si è reso «responsabile o complice della censura o del tentativo di censura di espressioni protette negli Stati Uniti». A cominciare dai fact checker dei social. Il vice di Marco Rubio, Christopher Landau, reduce dalle accuse di filocastrismo a Federica Mogherini, lancia poi una sorta di ultimatum: «O le grandi nazioni d’Europa sono nostri partner nella protezione della civiltà occidentale che abbiamo ereditato da loro, oppure non lo sono. Ma non possiamo fingere di essere partner mentre quelle nazioni permettono alla burocrazia non eletta, antidemocratica e non rappresentativa dell’Ue a Bruxelles di perseguire politiche di suicidio di civiltà». Il diplomatico lamenta: i medesimi Paesi, «quando indossano il cappello della Nato, insistono sulla cooperazione transatlantica come elemento centrale della sicurezza. Ma quando hanno il cappello dell’Ue portano avanti ogni sorta di agenda che spesso è totalmente contraria agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti».
La lite scoppia, appunto, a 24 ore dalla pubblicazione del testo con cui la Casa Bianca ha ridefinito le proprie priorità. I media italiani lo hanno recepito con sgomento. Il Corriere, ieri, parlava di «attacco choc all’Europa». Secondo Repubblica, «Trump scarica l’Europa». La Stampa era listata a lutto: «Addio Europa, strappo americano». «Con la National security strategy di Trump l’America è ufficialmente un avversario», recitava l’editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio.
La Commissione Ue ha rivendicato la sua autonomia: decidiamo noi per noi, anche su libertà d’espressione e «ordine internazionale fondato sulle regole». Nel documento di Washington, ha ammesso Kaja Kallas, «ci sono molte critiche, ma credo che alcune siano anche vere. Se si guarda all’Europa, si nota che ha sottovalutato il proprio potere nei confronti della Russia. Dovremmo avere più fiducia in noi stessi. Gli Stati Uniti sono ancora il nostro più grande alleato». Piccato il premier polacco, Donald Tusk: l’Europa, ha spiegato agli «amici americani», è « il vostro più stretto alleato». E «abbiamo nemici comuni. A meno che non sia cambiato qualcosa». Lucida l’analisi di Guido Crosetto. Il ministro della Difesa ha sottolineato che lo spostamento del fulcro degli interessi strategici Usa, dal Vecchio continente all’Indo-Pacifico, era una «traiettoria evidente già prima dell’avvento di Trump, che ha soltanto accelerato un percorso irreversibile». Quando il processo è cominciato, non tutti erano attenti: nel 2000, George W. Bush fece rientrare diverse unità di stanza in Germania; Barack Obama richiamò un paio di brigate, per un totale di 8.000 soldati. E fu lui a stabilire che il futuro «perno» (pivot) della politica statunitense sarebbe stato l’Asia. The Donald, peraltro, ci ha tenuto a precisare che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». Crosetto ha insistito sulla necessità di mobilitare, insieme al resto dell’Unione, gli «investimenti pubblici e privati» necessari a «recuperare il tempo perso su tecnologie fondamentali» per diventare militarmente autosufficienti.
Ma se qualcuno ha invocato la collaborazione tra Stati membri per mettere in pratica un caposaldo del piano Trump (l’Europa deve imparare a «reggersi in piedi da sola», recita il manifesto), qualcun altro ha approfittato dello «choc» di cui sul Corsera per rilanciare il vecchio pallino: l’alleanza con Pechino. Da più Europa a più Cina è un attimo.
Ne ha discusso sul quotidiano di Torino, col pretesto di contestare il protezionismo del golden power, l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Dimenticando che la penetrazione dei capitali del Dragone equivale a un commissariamento dei nostri asset.
L’intervento di Romano Prodi sul Messaggero, invece, più che malevolo è apparso surreale. In sintesi: siccome quel puzzone del tycoon si mette d’accordo con le autocrazie, noi dobbiamo... metterci d’accordo con un’autocrazia. «Finora», ha notato l’ex premier, «soltanto la Cina sta preparando una strategia alternativa, non solo usando le terre rare come arma di guerra ma, soprattutto, sostituendo il mercato americano con un’accresciuta presenza in tutto il resto del mondo». È in questo spazio che, a suo avviso, dovrebbero incunearsi gli europei. Per evitare «il collasso finale di quello che resta della globalizzazione», sostiene Prodi. In funzione di utili idioti, temiamo noi. Peccato che, ha sospirato il fondatore dell’Ulivo, né l’Ue né i dirigenti di Pechino sembrino «in grado di preparare la strada per arrivare al necessario compromesso». Alla faccia degli infausti vaticini di Trump: se è così, possiamo ancora salvarci.
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E’ una ricetta omnibus che nelle giornate di freddo predispone a piatto conviviale e succulento. Certo il primato spetta ai milanesi che servono l’ossobuco con il loro magnificente risotto giallo ma di fatto, essendo questo un taglio di carne, a torto definito povero, è una preparazione che si trova in tutte le zone urbane d’Italia. Condizione necessaria era che ci fosse un macello ed è errata convinzione che in campagna si mangiasse tanta carne; ci pensate al contadino che si ciba del suo “trattore”?
Dunque potremmo dire che questa è una ricetta piccolo-borghese, ma enorme nel sapore. Noi ve la proponiamo alla toscana, ancorché semplificata. Invece dei pelati ci siamo limitati al concentrato di pomodoro, ma il risultato è ottimo!
Ingredienti – 4 ossibuchi di generose dimensioni, tre cipolle, tre coste di sedano, tre carote, una patata, un paio di pomodorini, 6 cucchiai di farina 0, 60 gr di burro e 80 gr di olio extravergine di oliva, 3 cucchiai di concentrato di pomodoro, 3 foglie di alloro e 3 di salvia, un mazzetto di prezzemolo, un bicchiere di vino bianco secco, sale e pepe qb.
Procedimento – Con una carota, una cipolla, una costa di sedano, la patata e i pomodorini preparate un brodo vegetale mettendo le verdure a bollire in almeno un paio litri di acqua. In un tegame capiente fate fondere il burro nell’olio extravergine di oliva e sistemateci le foglie di salvia e alloro. Infarinate gli ossibuchi e passateli in tegame a fiamma vivace in modo che si sigillino. Nel frattempo con le altre verdure fate un battuto grossolano. Sfumate gli ossibuchi col vino bianco e quando la parte alcolica è evaporata toglieteli dal tegame e teneteli da parte. Fate stufare il battuto nel tegame e appena le cipolle diventano trasparenti rimettete in cottura gli ossibuchi. Coprite con il brodo vegetale, aggiungete il concentrato di pomodoro, fate sciogliere e lasciate andare per almeno un ora e mezza. Aggiustate di sale e di pepe, aggiungete il prezzemolo tritato e servite.
Come fa divertire i bambini – Fate infarinare a loro gli ossibuchi vedrete che ne saranno entusiasti
Abbinamento – Abbiamo scelto un Chianti Classico Gran selezione, va benissimo un Nobile di Montepulciano; in alternativa il rosso dei milanesi il San Colombano o una Barbera monferrina, astigiana o dell’Oltrepò
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