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2021-07-09
I ricoveri contano più dei contagiati. Cambiare i criteri delle zone colorate
Getty Images
Il sistema delle zone colorate per il contrasto alla diffusione del Covid-19 accompagna ormai da tempo le nostre vite. Eppure - in un momento in cui l'Italia è tutta bianca - è forse giusto interrogarsi sui criteri che stanno alla base delle chiusure. Eh sì, perché - con il mutare delle circostanze - proprio quei criteri rischiano di essere ormai diventati obsoleti. E sarebbe forse il caso di aggiornarli. Si tratta di un tema che questo giornale aveva messo in evidenza già tre settimane fa. Ma che sembra si stia facendo adesso strada anche all'interno del Cts, oltre che tra gli stessi governatori delle Regioni. Come riferito ieri da Il Messaggero, di questo avviso parrebbero per esempio essere il presidente della Liguria, Giovanni Toti, e il suo collega dell'Abruzzo, Marco Marsilio. Una linea, tra l'altro, accarezzata anche dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. «Oggi», ha dichiarato, «il meccanismo dei colori valuta il numero dei casi, dei ricoveri e delle occupazioni delle terapie intensive. Quando i vaccinati saranno di più, dovremo legare maggiormente il sistema alla tenuta degli ospedali». «Va pensata una diversa modalità, basata sulla gravità dei positivi. L'influenza classica, ogni anno, causa 7.000-8.000 decessi, non per questo andiamo a chiudere le regioni, a indicare i colori. Se i vaccini contro il Covid abbatteranno in modo drastico il numero dei casi gravi, i parametri andranno cambiati», ha aggiunto.
In effetti il punto è proprio questo. Nonostante nel nostro Paese il numero dei contagi sia in aumento, è altrettanto vero che - come ha sottolineato anche la Fondazione Gimbe - ricoveri e decessi risultino (almeno per ora) complessivamente in discesa. Un quadro sostanzialmente confermato anche dai dati di ieri sera, secondo cui - pur a fronte di un incremento dei casi e del tasso di positività rispetto al giorno precedente - il numero dei morti e dei ricoveri ordinari è sceso (laddove quello delle terapie intensive è rimasto invariato).
Sotto questo aspetto, è interessante un raffronto con il Regno Unito, dove si è verificata una significativa diffusione della variante delta. Ora, è senz'altro vero che Oltremanica - negli scorsi trenta giorni - si è registrata un'impennata dei contagi. Ciò detto, va anche riconosciuto che il numero britannico dei morti e delle ospedalizzazioni resta basso, soprattutto in confronto ai dati drammatici dei mesi di gennaio e febbraio. Sebbene non vada affatto sottovalutata, la variante delta sembra quindi avere un peso abbastanza contenuto su decessi e ricoveri. Una situazione in gran parte dettata dai progressi delle campagne di vaccinazione (su cui bisogna evidentemente insistere). D'altronde, uno studio britannico, pubblicato lo scorso 23 giugno e condotto su dati dell'app Zoe, ha rilevato come i soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale si ammalino meno gravemente e migliorino con maggiore rapidità. È quindi alla luce di tutto questo che sarebbe forse saggio vincolare i criteri per le zone colorate (o comunque per le chiusure) più ai dati sui ricoveri che a quelli sui contagiati.
E attenzione: anche alcuni esperti sono di questo avviso. È, per esempio, il caso dell'assessore alla Sanità della Regione Puglia e professore di igiene presso l'Università di Pisa, Pierluigi Lopalco. «Ora che abbiamo i vaccini, vanno cambiati i criteri che determinano le chiusure. E il numero dei casi positivi andrà usato per quello che è: un dato utile ad arginare l'andamento dell'epidemia, a sorvegliare la diffusione del virus», ha dichiarato. «Però», ha aggiunto, «ciò che deve contare veramente sono i ricoveri. Se ci contageremo, ma non avremo gravi conseguenze perché i più fragili sono protetti dal vaccino, non sarà un problema enorme».
Su una linea non troppo dissimile si è collocata anche l'immunologa dell'Università di Padova, Antonella Viola. «Boris Johnson decide di abbandonare le restrizioni e dice che d'ora in avanti il Sars-CoV-2 sarà gestito come il virus dell'influenza. È possibile? Non solo è possibile, è necessario», ha scritto ieri su Facebook. «Il virus», ha proseguito, «continuerà a circolare. Ci contageremo, ma saremo protetti dalle forme gravi della malattia grazie ai vaccini. Finché la risposta immunitaria generata dalla vaccinazione terrà vuoti gli ospedali, non dovremo fare altro». «Se l'immunità dovesse indebolirsi troppo nel tempo, o se il virus dovesse mutare troppo, dovremo far ricorso a ulteriori vaccinazioni (rispettivamente con terza dose o con vaccino aggiornato). Ma per ora lo scenario è quello immaginato dal Regno Unito», ha concluso.
Vaccini, pericolo per gli adolescenti
Mentre i medici sono spediti a caccia di giovanissimi da vaccinare, anche con tanto di camper piazzato sulla spiaggia come accade nei dintorni di Palermo, gli esperti del Cts non la pensano tutti allo stesso modo sull'opportunità di dare il vaccino ai ragazzi. Ormai è diventata la nuova parola d'ordine, immunizzare gli studenti per riaprire le scuole a settembre e così tentare di nascondere il nulla di fatto in tema di messa in sicurezza delle aule e dei mezzi di trasporto, ma se alcuni componenti del Comitato tecnico scientifico condividono l'accelerata impressa dal commissario per l'emergenza Francesco Paolo Figliuolo, altre voci dissonanti si alzano chiare e decise.
Purtroppo non riescono a bucare il guscio in cui il Cts ragiona, discute e decide sulla salute degli italiani in apparente accordo, però di certo c'è chi la pensa come i tedeschi che non raccomandano il vaccino nei bambini e negli adolescenti senza malattie pregresse. Si tratta di qualche voce autorevole, abituata a ragionare sull'evidenza scientifica, non sulla necessità di assecondare la politica vaccinale del governo. Al momento tace, perché in realtà l'argomento vaccinazioni nella fascia 12-15 anni non è mai stato affrontato dal Cts. La campagna sta andando avanti per slogan, dichiarazioni di virologi, pediatri, docenti, ciascuno mette insieme pezzi di verità o di sentito dire, con il risultato che la pressione sulla popolazione è enorme quanto ingiustificata.
Ci sarebbero altri dati, invece, su cui riflettere. Negli aggiornamenti del 23 giugno scorso dei Cdc, le autorità sanitarie statunitensi, c'è un inquietante report curato da Tom Shimabukuro, responsabile della task force per la sicurezza delle vaccinazioni anti Covid. Al 12 giugno scorso il Vaccine safety datalink (Vsd), che conduce studi su eventi avversi rari e gravi dopo l'immunizzazione, riferiva le reazioni riscontrate su minori di fascia 12-15 anni ai quali erano state somministrate 176.987 prime dosi e 66.546 richiami di vaccino Pfizer; mentre nella fascia 16-17 erano state date 127.665 prime dosi e 101.938 richiami.
Le analisi delle segnalazioni di miocarditi riscontrate dopo le vaccinazioni tra gli adolescenti sono ancora in corso, ma possiamo conoscere le percentuali delle reazioni avverse gravi nei giorni da 0 a 7 dopo ogni inoculazione che, dopo la prima dose, vanno dal 2,3% nella fascia 12-15 anni al 5,2% in quella 16-25, riferite quanto a incapacità di studiare o lavorare per alcuni giorni, per balzare al 9,1% e al 9,8% (rispettivamente per fascia), quanto a incapacità di svolgere le normali attività quotidiane. Dopo la seconda dose, si va dal 5,6% al 25%.
Eugenio Serravalle, medico specialista in pediatria preventiva e presidente dell'Assis, associazione di studi e informazione sulla salute, con queste percentuali ha realizzato delle proiezioni sulla popolazione degli adolescenti e dei giovani italiani, qualora si vaccinassero tutti. «Se il 2,3% dei 2.272.563 di età compresa tra 12 e 15 anni dovesse avere reazioni gravi come registrate negli Stati Uniti dopo la prima dose di vaccino, staremmo parlando di 52.000 ragazzini», spiega il medico. «Considerando il 9,1% di incidenza di reazioni che impediscono lo svolgimento di attività quotidiane, arriviamo a quasi 207.000 giovani. Dopo la seconda dose, le cose non andrebbero certo meglio: il 5,6%, ovvero 127.000 ragazzini, avrebbero reazioni serie e il 25,4%, vale a dire 577.000 giovanissimi si troverebbero inabilitati per un periodo di tempo non così breve».
Quanto potrebbero durare i disturbi, non è chiaro. «Il trial sul vaccino di Moderna riferiva una durata media di reazioni di 3-4 giorni dopo la prima dose e di quattro dopo la seconda, senza distinguere tra quelle lievi, moderate e gravi, mentre per i trial di Pfizer ancora non ci sono dati», fa sapere Serravalle. Secondo Annamaria Staiano, presidente delle Società Italiana di pediatria (Sip), invece «non ci sono evidenze scientifiche di nesso di causalità tra queste vaccinazioni e eventi più severi, come qualcuno ha paventato». Poche settimane fa ha dichiarato: «Ad oggi non ci sono effetti collaterali diversi da quelli di altri vaccini, quindi possiamo rassicurare ragazzi e genitori che quello contro il Covid è un vaccino uguale agli altri, con minimi effetti collaterali, come altri tipi di vaccino».
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Con l'Italia tutta bianca, il procedere della campagna vaccinale e gli ospedali mezzi vuoti non ha senso vincolare eventuali restrizioni al numero dei casi. Altrimenti si finirà per chiudere anche per l'influenza.Gli esperti del Cts non la pensano tutti allo stesso modo su immunizzare la fascia 12-15. Temono reazioni. I dati Usa: fino al 25% sono incapaci di svolgere attività per 3-4 giorni.Lo speciale contiene due articoli.Il sistema delle zone colorate per il contrasto alla diffusione del Covid-19 accompagna ormai da tempo le nostre vite. Eppure - in un momento in cui l'Italia è tutta bianca - è forse giusto interrogarsi sui criteri che stanno alla base delle chiusure. Eh sì, perché - con il mutare delle circostanze - proprio quei criteri rischiano di essere ormai diventati obsoleti. E sarebbe forse il caso di aggiornarli. Si tratta di un tema che questo giornale aveva messo in evidenza già tre settimane fa. Ma che sembra si stia facendo adesso strada anche all'interno del Cts, oltre che tra gli stessi governatori delle Regioni. Come riferito ieri da Il Messaggero, di questo avviso parrebbero per esempio essere il presidente della Liguria, Giovanni Toti, e il suo collega dell'Abruzzo, Marco Marsilio. Una linea, tra l'altro, accarezzata anche dall'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. «Oggi», ha dichiarato, «il meccanismo dei colori valuta il numero dei casi, dei ricoveri e delle occupazioni delle terapie intensive. Quando i vaccinati saranno di più, dovremo legare maggiormente il sistema alla tenuta degli ospedali». «Va pensata una diversa modalità, basata sulla gravità dei positivi. L'influenza classica, ogni anno, causa 7.000-8.000 decessi, non per questo andiamo a chiudere le regioni, a indicare i colori. Se i vaccini contro il Covid abbatteranno in modo drastico il numero dei casi gravi, i parametri andranno cambiati», ha aggiunto. In effetti il punto è proprio questo. Nonostante nel nostro Paese il numero dei contagi sia in aumento, è altrettanto vero che - come ha sottolineato anche la Fondazione Gimbe - ricoveri e decessi risultino (almeno per ora) complessivamente in discesa. Un quadro sostanzialmente confermato anche dai dati di ieri sera, secondo cui - pur a fronte di un incremento dei casi e del tasso di positività rispetto al giorno precedente - il numero dei morti e dei ricoveri ordinari è sceso (laddove quello delle terapie intensive è rimasto invariato). Sotto questo aspetto, è interessante un raffronto con il Regno Unito, dove si è verificata una significativa diffusione della variante delta. Ora, è senz'altro vero che Oltremanica - negli scorsi trenta giorni - si è registrata un'impennata dei contagi. Ciò detto, va anche riconosciuto che il numero britannico dei morti e delle ospedalizzazioni resta basso, soprattutto in confronto ai dati drammatici dei mesi di gennaio e febbraio. Sebbene non vada affatto sottovalutata, la variante delta sembra quindi avere un peso abbastanza contenuto su decessi e ricoveri. Una situazione in gran parte dettata dai progressi delle campagne di vaccinazione (su cui bisogna evidentemente insistere). D'altronde, uno studio britannico, pubblicato lo scorso 23 giugno e condotto su dati dell'app Zoe, ha rilevato come i soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale si ammalino meno gravemente e migliorino con maggiore rapidità. È quindi alla luce di tutto questo che sarebbe forse saggio vincolare i criteri per le zone colorate (o comunque per le chiusure) più ai dati sui ricoveri che a quelli sui contagiati. E attenzione: anche alcuni esperti sono di questo avviso. È, per esempio, il caso dell'assessore alla Sanità della Regione Puglia e professore di igiene presso l'Università di Pisa, Pierluigi Lopalco. «Ora che abbiamo i vaccini, vanno cambiati i criteri che determinano le chiusure. E il numero dei casi positivi andrà usato per quello che è: un dato utile ad arginare l'andamento dell'epidemia, a sorvegliare la diffusione del virus», ha dichiarato. «Però», ha aggiunto, «ciò che deve contare veramente sono i ricoveri. Se ci contageremo, ma non avremo gravi conseguenze perché i più fragili sono protetti dal vaccino, non sarà un problema enorme». Su una linea non troppo dissimile si è collocata anche l'immunologa dell'Università di Padova, Antonella Viola. «Boris Johnson decide di abbandonare le restrizioni e dice che d'ora in avanti il Sars-CoV-2 sarà gestito come il virus dell'influenza. È possibile? Non solo è possibile, è necessario», ha scritto ieri su Facebook. «Il virus», ha proseguito, «continuerà a circolare. Ci contageremo, ma saremo protetti dalle forme gravi della malattia grazie ai vaccini. Finché la risposta immunitaria generata dalla vaccinazione terrà vuoti gli ospedali, non dovremo fare altro». «Se l'immunità dovesse indebolirsi troppo nel tempo, o se il virus dovesse mutare troppo, dovremo far ricorso a ulteriori vaccinazioni (rispettivamente con terza dose o con vaccino aggiornato). 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Ormai è diventata la nuova parola d'ordine, immunizzare gli studenti per riaprire le scuole a settembre e così tentare di nascondere il nulla di fatto in tema di messa in sicurezza delle aule e dei mezzi di trasporto, ma se alcuni componenti del Comitato tecnico scientifico condividono l'accelerata impressa dal commissario per l'emergenza Francesco Paolo Figliuolo, altre voci dissonanti si alzano chiare e decise. Purtroppo non riescono a bucare il guscio in cui il Cts ragiona, discute e decide sulla salute degli italiani in apparente accordo, però di certo c'è chi la pensa come i tedeschi che non raccomandano il vaccino nei bambini e negli adolescenti senza malattie pregresse. Si tratta di qualche voce autorevole, abituata a ragionare sull'evidenza scientifica, non sulla necessità di assecondare la politica vaccinale del governo. Al momento tace, perché in realtà l'argomento vaccinazioni nella fascia 12-15 anni non è mai stato affrontato dal Cts. La campagna sta andando avanti per slogan, dichiarazioni di virologi, pediatri, docenti, ciascuno mette insieme pezzi di verità o di sentito dire, con il risultato che la pressione sulla popolazione è enorme quanto ingiustificata. Ci sarebbero altri dati, invece, su cui riflettere. Negli aggiornamenti del 23 giugno scorso dei Cdc, le autorità sanitarie statunitensi, c'è un inquietante report curato da Tom Shimabukuro, responsabile della task force per la sicurezza delle vaccinazioni anti Covid. Al 12 giugno scorso il Vaccine safety datalink (Vsd), che conduce studi su eventi avversi rari e gravi dopo l'immunizzazione, riferiva le reazioni riscontrate su minori di fascia 12-15 anni ai quali erano state somministrate 176.987 prime dosi e 66.546 richiami di vaccino Pfizer; mentre nella fascia 16-17 erano state date 127.665 prime dosi e 101.938 richiami. Le analisi delle segnalazioni di miocarditi riscontrate dopo le vaccinazioni tra gli adolescenti sono ancora in corso, ma possiamo conoscere le percentuali delle reazioni avverse gravi nei giorni da 0 a 7 dopo ogni inoculazione che, dopo la prima dose, vanno dal 2,3% nella fascia 12-15 anni al 5,2% in quella 16-25, riferite quanto a incapacità di studiare o lavorare per alcuni giorni, per balzare al 9,1% e al 9,8% (rispettivamente per fascia), quanto a incapacità di svolgere le normali attività quotidiane. Dopo la seconda dose, si va dal 5,6% al 25%. Eugenio Serravalle, medico specialista in pediatria preventiva e presidente dell'Assis, associazione di studi e informazione sulla salute, con queste percentuali ha realizzato delle proiezioni sulla popolazione degli adolescenti e dei giovani italiani, qualora si vaccinassero tutti. «Se il 2,3% dei 2.272.563 di età compresa tra 12 e 15 anni dovesse avere reazioni gravi come registrate negli Stati Uniti dopo la prima dose di vaccino, staremmo parlando di 52.000 ragazzini», spiega il medico. «Considerando il 9,1% di incidenza di reazioni che impediscono lo svolgimento di attività quotidiane, arriviamo a quasi 207.000 giovani. Dopo la seconda dose, le cose non andrebbero certo meglio: il 5,6%, ovvero 127.000 ragazzini, avrebbero reazioni serie e il 25,4%, vale a dire 577.000 giovanissimi si troverebbero inabilitati per un periodo di tempo non così breve». Quanto potrebbero durare i disturbi, non è chiaro. «Il trial sul vaccino di Moderna riferiva una durata media di reazioni di 3-4 giorni dopo la prima dose e di quattro dopo la seconda, senza distinguere tra quelle lievi, moderate e gravi, mentre per i trial di Pfizer ancora non ci sono dati», fa sapere Serravalle. Secondo Annamaria Staiano, presidente delle Società Italiana di pediatria (Sip), invece «non ci sono evidenze scientifiche di nesso di causalità tra queste vaccinazioni e eventi più severi, come qualcuno ha paventato». Poche settimane fa ha dichiarato: «Ad oggi non ci sono effetti collaterali diversi da quelli di altri vaccini, quindi possiamo rassicurare ragazzi e genitori che quello contro il Covid è un vaccino uguale agli altri, con minimi effetti collaterali, come altri tipi di vaccino».
La Juventus resta sotto il controllo di Exor. Il gruppo ha chiarito con un comunicato la propria posizione sull’offerta di Tether. «La Juventus è un club storico e di successo, di cui Exor e la famiglia Agnelli sono azionisti stabili e orgogliosi da oltre un secolo», si legge nella nota della holding, che conferma come il consiglio di amministrazione abbia respinto all’unanimità l’offerta per l’acquisizione del club e ribadito il pieno impegno nel sostegno al nuovo corso dirigenziale.
A rafforzare il messaggio, nelle stesse ore, è arrivato anche un intervento diretto di John Elkann, diffuso sui canali ufficiali della Juventus. Un video breve, meno di un minuto, ma importante. Elkann sceglie una veste informale, indossa una felpa con la scritta Juventus e parla di identità e di responsabilità. Traduzione per i tifosi che sognano nuovi padroni o un ritorno di Andrea Agnelli: il mercato è aperto per Gedi, ma non per la Juve. Il video va oltre le parole. Chiarisce ciò che viene smentito e ciò che resta aperto. Elkann chiude alla vendita della Juventus. Ma non chiude alla vendita di giornali e radio.
La linea, in realtà, era stata tracciata. Già ai primi di novembre, intervenendo al Coni, Elkann aveva dichiarato che la Juve non era in vendita, parlando del club come di un patrimonio identitario prima ancora che industriale. Uno dei nodi resta il prezzo. L’offerta attribuiva alla Juventus una valutazione tra 1,1 e 1,2 miliardi, cifra che Exor giudica distante dal peso economico reale (si mormora che Tether potrebbe raddoppiare l’offerta). Del resto, la Juventus è una società quotata, con una governance strutturata, ricavi di livello europeo e un elemento che in Italia continua a fare la differenza: lo stadio di proprietà. L’Allianz Stadium non è solo un simbolo. Funziona come asset industriale. È costato circa 155 milioni di euro, è entrato in funzione nel 2011 e oggi gli analisti di settore lo valutano tra 300 e 400 milioni, considerando struttura, diritti e capacità di generare ricavi. L’impianto produce flussi stabili, consente pianificazione e riduce l’esposizione ai risultati sportivi di breve periodo.
I numeri di bilancio completano il quadro. Nei cicli più recenti la Juventus ha generato ricavi operativi tra 400 e 450 milioni di euro, collocandosi tra i principali club europei per fatturato, come indicano i report Deloitte football money league. Prima della pandemia, i ricavi da stadio oscillavano tra 60 e 70 milioni di euro a stagione, ai vertici della Serie A. Su queste basi, applicando multipli utilizzati per club con brand globale e asset infrastrutturali, negli ambienti finanziari la valutazione industriale della Juventus viene collocata tra 1,5 e 2 miliardi di euro, al netto delle variabili sportive.
Il confronto con il mercato rafforza questa lettura. Il Milan è stato ceduto a RedBird per circa 1,2 miliardi di euro, senza stadio di proprietà e con una governance più complessa. Quel prezzo resta un riferimento nel calcio italiano. Se quella è stata la valutazione di un top club privo dell’asset stadio, risulta difficile immaginare che la Juventus possa essere trattata allo stesso livello senza che il socio di controllo giudichi l’operazione penalizzante.
A incidere è anche il profilo dell’offerente. Tether, principale emittente globale di stablecoin, opera in un perimetro regolatorio diverso da quello degli intermediari tradizionali, seguito con attenzione anche da Consob. Dopo l’ultimo aumento di capitale bianconero, Standard & Poor’s ha declassato la capacità di Usdt di mantenere l’ancoraggio al dollaro. Sul piano reputazionale pesa, inoltre, il giudizio dell’Economist (del gruppo Exor), secondo cui la stablecoin è diventata uno strumento utilizzato anche nei circuiti dell’economia sommersa globale, cioè sul mercato nero.
Intorno alla Juventus circolano anche altre ipotesi. Si parla di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di Luxottica e azionista di EssilorLuxottica attraverso la holding di famiglia Delfin, dopo l’offerta presentata su Gedi, e di un possibile interesse indiretto di capitali mediorientali. Al momento, però, mancano cifre e progetti industriali strutturati. Restano solo indiscrezioni.
Sullo sfondo continua intanto a emergere il nome di Andrea Agnelli. L’ex presidente dei nove scudetti ha concluso la squalifica e raccoglie il consenso di una parte ampia della tifoseria, che lo sogna come possibile punto di ripartenza. L’ipotesi che circola immagina un ritorno sostenuto da imprenditori internazionali, anche mediorientali, in un contesto in cui il fondo saudita Pif, guidato dal principe ereditario Mohammed bin Salman e già proprietario del Newcastle, si è imposto come uno dei principali attori globali del calcio.
Un asse che non si esaurisce sul terreno sportivo. Lo stesso filone saudita riaffiora nel dossier Gedi, ormai entrato nella fase conclusiva. La presenza dell’imprenditore greco Theodore Kyriakou, fondatore del gruppo Antenna, rimanda a un perimetro di relazioni che incrocia capitali internazionali e investimenti promossi dal regno saudita. In questo quadro, Gedi - che comprende Repubblica, Stampa e Radio Deejay - è l’unico asset destinato a cambiare mano, mentre Exor ha tracciato una linea netta: il gruppo editoriale segue una strada propria, la Juventus resta fuori (al momento) da qualsiasi ipotesi di cessione.
Jaki sembra un re Mida al contrario: uccide ciò che tocca ma rimane ricco
Finanziere puro. John Elkann, abilissimo a trasformare stabilimenti e impianti, operai e macchinari, sudore e fatica in figurine panini da comprare e vendere. Ma quando si tratta di gestire aziende «vere», quelle che producono, vincono o informano, la situazione si complica. È un po’ come vedere un mago dei numeri alle prese con un campo di calcio per stabilirne il valore e stabilire il valore dei soldi. Ma la palla… beh, la palla non sempre entra in porta. Peccato. Andrà meglio la prossima volta.
Prendiamo Ferrari. Il Cavallino rampante, che una volta dominava la Formula 1, oggi ha perso la capacità di galoppare. Elkann vende il 4% della società per circa 3 miliardi: applausi dagli azionisti, brindisi familiare, ma la pista? Silenziosa. Il titolo è un lontano ricordo. I tifosi hanno esaurito la pazienza rifugiandosi nell’ironia: «Anche per quest’anno vinceremo il Mondiale l’anno prossimo». E cosi gli azionisti. Da quando Elkann ha collocato quelle azioni il titolo scende e basta. Era diventato il gioiello di Piazza Affari. Dopo il blitz di Elkann per arricchire Exor il lento declino.
E la Juventus? Sotto Andrea Agnelli aveva conquistato nove scudetti di fila, un record che ha fatto parlare tutta Italia. Oggi arranca senza gloria. Racconta Platini di una breve esibizione dell’erede di Agnelli in campo. Pochi minuti e si fa sostituire. Rifiata, chiede di rientrare. Il campione francese lo guarda sorridendo: «John, questo è calcio non è basket». Elkann osserva da lontano, contento dei bilanci Exor e delle partecipazioni finanziarie, mentre tifosi e giornalisti discutono sulle strategie sportive. La gestione lo annoia, ma la rendita finanziaria quella è impeccabile.
Gedi naviga tra conti in rosso e sfide editoriali perdenti. Cairo, dall’altra parte, rilancia il Corriere della Sera con determinazione e nuovi investimenti. Elkann sorride: non è un problema gestire giornali, se sai fare finanza. La lezione è chiara: le aziende si muovono, ma i capitali contano di più.
Stellantis? La storia dell’auto italiana. La storia della dinastia. Ora un condominio con la famiglia Peugeot. Elkann lascia fare, osserva i mercati e, quando serve, vende o alleggerisce le partecipazioni. Anche qui, la gestione operativa non è il punto forte: ciò che conta è il risultato finanziario, non il numero di auto prodotte o le fabbriche gestite.
E gli investimenti? Alcuni brillano, altri richiedono pazienza. Philips è un esempio recente: un investimento ambizioso che riflette la strategia di diversificazione di Exor, con qualche rischio incorporato. Ma se si guarda al quadro generale, Elkann ha accumulato oltre 4 miliardi di liquidità entro metà 2025, grazie a vendite mirate e partnership strategiche. Una cifra sufficiente per pensare a nuove acquisizioni e opportunità, senza perdere il sorriso.
Perché poi quello che conta per John è altro. Il gruppo Exor continua a crescere in valore. Gli azionisti vedono il titolo passare da un minimo storico di 13,44 euro nel 2011 a circa 72 euro oggi, e sorridono. La famiglia Elkann Agnelli si gode i frutti degli investimenti, mentre il mondo osserva: Elkann è il finanziere perfetto, sa fare ciò che conta davvero, cioè far crescere la ricchezza e proteggere gli asset della famiglia.
In fondo, Elkann ci ricorda che la finanza ha il suo fascino anche quando la gestione aziendale è complicata: vendere, comprare, accumulare, investire con giudizio (e un pizzico di fortuna) può essere altrettanto emozionante che vincere scudetti, titoli di Formula 1 o rilanciare giornali. Il sorriso di chi ha azioni Exor vale più di qualsiasi trofeo, e dopotutto, questo è il suo segreto.
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