2024-09-10
Ricetta Draghi: stop alla Cina e mani dell’Ue sui nostri soldi
Luci e ombre dell’analisi dell’ex premier. Affidare i fondi privati a Ursula & C. diventerebbe un boomerang. Ci vogliono meno vincoli per il mercato, l’addio al Green deal e il nucleare. Difficile se i vertici restano uguali.Su una cosa l’ex premier Mario Draghi ha pienamente ragione. L’Europa si trova in un momento cruciale della sua storia economica e quindi sociale. Serve una svolta, spiega nel report che gli è stato affidato da Ursula von der Leyen, la stessa che ha contribuito a spingerci un po’ più vicino al baratro. Insomma, analisi impeccabile, quella di Draghi, che però tra le soluzioni per la svolta non sembra annoverare la libera circolazione delle idee e del mercato, ma annovera un maggiore potere dalle parti di Bruxelles. E per giunta da esercitare con i nostri soldi. Perché per rilanciare la produttività e le tecnologie emergenti, secondo Draghi, serviranno circa 800 miliardi all’anno. Ma di questi almeno 640 saranno da raccogliere tra i capitali privati. Cioè dai soldi dei cittadini e dai fondi pensione. Per questo tra le ricette c’è l’unione del mercato dei capitali, una Consob europea, l’eliminazione delle barriere tra Stati. Suona molto bene. Se non fosse che a un certo punto i soldi dei privati finirebbero a finanziare progetti decisi dai vertici di Bruxelles. E qui torniamo al punto di partenza. Gli stessi vertici che hanno dimostrato di saper distruggere il settore delle quattro ruote in brevissimo tempo. Tanto per fare un esempio. È la stessa classe dirigente che nell’ultimo ventennio ha assistito al rallentamento della crescita del Vecchio continente come fosse un inconveniente piuttosto che una minaccia esistenziale. E politicamente si tratta di una colpa imperdonabile. Le fondamenta dell’economia Ue, infatti, sono costruite su un modello che integra apertura, concorrenza di mercato e un solido quadro giuridico per ridistribuire la ricchezza (e non per crearla), fondamenta che apparentemente hanno posizionato il continente come una potenza economica. L’Ue, in poche parole, è riuscita a combinare alti livelli di sviluppo umano con una disuguaglianza relativamente bassa, creando un mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di aziende che insieme rappresentano circa il 17% del Pil globale. Si tratta di una struttura economica sostenuta da politiche progressiste, un elevato livello di istruzione e forti standard sanitari. Tolta la patina politica però vediamo che il divario tra il Pil Ue e quello Usa è aumentato dal 12% del 2002 al 30% del 2023. Il gap di produttività spiega circa il 70% di questa stagnazione. Tra il 2000 e il 2019, il commercio internazionale come quota del Pil è aumentato dal 30% al 43% nell’Ue, superando gli Stati Uniti, dove la quota del commercio sul Pil è aumentata solo marginalmente dal 25% al 26%. Questa apertura ha consentito all’Europa di mantenere un vantaggio competitivo in un’economia pienamente globalizzata e con catene di produzione lunghissime. Il problema è che il sistema commerciale multilaterale su cui l’Europa ha fatto affidamento è passato attraverso una crisi profonda e adesso è «kaputt». Ci troviamo con un prezzo complessivo dell’energia che è circa quattro volte più alto rispetto a quello dei competitor americani e cinesi. Non solo, lo scorso anno le aziende Ue hanno investito in ricerca e sviluppo 270 miliardi in meno rispetto alle cugine a stelle e strisce. Oggi non abbiamo il controllo delle materie prime, l’industria automotive è spiaggiata. Dopo la guerra in Ucraina non solo abbiamo perso la sovranità energetica e ci siamo accorti di non avere tecnologie proprietarie per temi delicati come il cloud o l’Intelligenza artificiale, ma abbiamo cominciato a rivolgerci fuori dal perimetro dei 27 per un sacco di approvvigionamenti. Molto più di quanto accadesse prima. Basti pensare al settore della Difesa. Tra il 2022 e il 2023 il 78% della spesa in armi e è andata a fornitori extra Ue. Il 63% ad aziende Usa. Se parliamo di transizione digitale dobbiamo inoltre dirci in tutta onestà che circa l’80% della produzione di chip è localizzata in Asia. E tralasciamo il tema auto elettrica... per non annoiare i lettori. Per questo apprezziamo il monito di Draghi sui pericoli in arrivo dalla Cina. Dipendiamo dalla loro tecnologia e siamo al tempo stesso destinati a essere il principale mercato di sbocco di Pechino. È chiaro a tutti che ciò può solo portare grandi danni ai cittadini europei. Tuttavia non è altrettanto chiaro a chi ha governato l’Europa negli ultimi anni e ci sembra che, al di là delle dichiarazioni, chi governerà la Commissione nei prossimi cinque non abbia intenzione di cambiare idea. Ha poco senso indicare la Cina e non azzerare il Green deal per disegnare una nuova strategia energetica. Nucleare, meno rinnovabile e più gas. Lo stesso discorso per i colossi tech. In una recente intervista Margrethe Vestager ha spiegato di essere pronta a smembrare Google. E di pensarla come Draghi. Ora in Europa non c’è nemmeno lontanamente qualcuno in grado di prendere il posto di Google. Perché l’Antitrust Ue ha sempre spezzato sul nascere le opportunità di grandezza. Nella mobilità (aerei e treni) e nella tecnologia. Forse, piccola osservazione finale, se si vuole svoltare bisognerebbe spezzare il dirigismo. Altrimenti faremo un mercato unico sommando solo debolezze.
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