
Scivoloni e cadute possono macchiare la nostra reputazione in rete, scatenando migliaia di reazioni negative difficili da fermare. Ci sono grandi aziende che, a causa di dichiarazioni sbagliate, hanno dovuto spendere milioni per recuperare. Ma spesso non basta.«Chi non c'è, non ci sarà» è un vecchio detto cui la Grande rete sta facendo vivere una seconda giovinezza, perché un'organizzazione che non abbia conquistato un posto al sole (cioè nella prima pagina) dei principali motori di ricerca; che non sia ben posizionata sui social network; che non comunichi e interagisca con i suoi utenti-consumatori via web; che non produca contenuti significativi e accattivanti è sostanzialmente «spacciata». Eppure percorrere questa strada è tanto necessario quanto pericoloso. Scivoloni e cadute, nella migliore delle ipotesi solo imbarazzanti, sono all'ordine del giorno e la natura di Internet ne conserva l'immagine perpetuamente. Queste topiche sono quelle che mettono a repentaglio la preziosa immagine aziendale online, la cosiddetta Web reputation, sulla quale le aziende tanto stanno investendo. Quando si verifica il disastro, le imprese più strutturate costituiscono vere e proprie unità per la gestione della crisi che si occupano di monitorare le reazioni dei consumatori, di solito sui social, produrre e gestire smentite, pubblicare nuovi contenuti favorevoli all'azienda e in generale lottare nei giorni successivi per scacciare il «mostro» dalle prime pagine dei motori di ricerca (quelle cui si limitano il 90 per cento degli utenti). Di solito entro un mese la fase acuta della crisi si risolve con costi che possono oscillare tra qualche migliaio e svariate decine di migliaia di euro, fino a 100.000 euro a persona. Tuttavia a passare è stato il «picco», ma non sono rari i colpi di coda a molti mesi di distanza, tanto da rendere necessario un progetto di lungo periodo. Un caso esemplare ha interessato una nota multinazionale alimentare italiana, il cui presidente ebbe l'idea di dichiarare pubblicamente che mai avrebbe utilizzato una famiglia gay in una campagna pubblicitaria. Su Twitter si scatenò l'inferno con decine di migliaia di messaggi che invitavano a boicottare il brand, un intero mondo per alcune settimane mise mediaticamente all'angolo l'azienda. Le conseguenze dell'improvvida dichiarazione spinsero il management a lanciare un progetto articolato che da quattro anni le permette di ottenere il punteggio massimo, pari a 100/100, nel Corporate equality index (Cei), sviluppato dalla statunitense Human rights campaign in Usa, che valuta e analizza politiche e pratiche aziendali messe in atto per contrastare l'omofobia. Nonostante l'inversione di rotta, la prima volta che l'impresa entrò nella graduatoria la maggior parte dei commenti sui social erano ancora negativi perché la «buona notizia» fece riemergere quella «cattiva». In questo caso l'investimento per mettere al sicuro la propria Web reputation può essere misurato in milioni di euro. Tutto è bene quello che finisce bene, ma l'affermazione del presidente è sempre facilmente reperibile tramite qualsiasi motore di ricerca, ed è l'ennesima dimostrazione che quando si parla di Internet si deve imparare a convivere con i propri errori per sempre. Se anche non si tratta di «autolesionismo», ma di informazioni «sgradite» pubblicate da terzi, la situazione non cambia di molto. Per quanto sia sempre possibile, in caso di contenuti diffamatori, smentire, chiedere la «deindicizzazione» (rimozione dei risultati dai motori di ricerca), esigere la rimozione da tutti i siti che li hanno pubblicati e infine ricorrere ad avvocati e giudici, la certezza che tali informazioni non riemergano dagli abissi del web non esiste. Ancora nel 2017 la quantità di dati circolanti su Internet ha superato la soglia di 1 zettabyte (si tratta di un 10 seguito da 21 zeri) e per il 2022 dovrebbe più che quadruplicare. Questi numeri da soli danno un'idea di come fare una pulizia completa sia difficile. Per trasformare il «difficile» in «tecnicamente impossibile» aggiungiamo che quanto andiamo cercando potrebbe essere custodito nella memoria di uno dei 5 miliardi di dispositivi elettronici (smart phone, tablet e pc) attualmente nelle mani di qualche miliardo di abitanti di questo pianeta e ognuna di queste persone potrebbe, in qualsiasi momento, postare quel contenuto per esempio sul suo profilo pubblico su un social network. A complicare il quadro delle aziende si aggiunge una certa «debolezza» delle norme a loro tutela. Se il privato cittadino può appellarsi al Regolamento europeo in materia di protezione dei dati che gli garantisce la possibilità di esercitare il diritto all'oblio, le aziende non hanno questo privilegio, in quanto la norma a loro non si applica. In ultima analisi, per un'organizzazione potrebbe non valere la pena tentare di rincorrere per tutta la Rete i contenuti da rimuovere, quanto piuttosto impegnarsi a «sostituirli» con altri che gli siano più graditi da posizionare sui siti giusti al momento opportuno, un mestiere per cui esistono dei veri e propri specialisti pronti a intervenire in soccorso della Web reputation aziendale. Il genio della finanza Warren Buffet ebbe a dire che «ci vogliono 20 anni per costruire una reputazione e 5 minuti per rovinarla»: peccato non abbia specificato quanto tempo serva per ricostruirla.
Maria Rita Parsi (Imagoeconomica)
La celebre psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi: «È mancata la gradualità nell’allontanamento, invece è necessaria Il loro stile di vita non era così contestabile da determinare quanto accaduto. E c’era tanto amore per i figli».
Maria Rita Parsi, celebre psicologa e psicoterapeuta, è stata tra le prime esperte a prendere la parola sulla vicenda della famiglia del bosco.
La sede di Bankitalia. Nel riquadro, Claudio Borghi (Imagoeconomica)
Il senatore leghista torna sulle riserve auree custodite presso Bankitalia: «L’istituto detiene e gestisce il metallo prezioso in nome dei cittadini, ma non ne è il proprietario. Se Fdi riformula l’emendamento...»
«Mentre nessuno solleva il problema che le riserve auree della Bundesbank siano di proprietà dei cittadini tedeschi, e quindi dello Stato, come quelle della Banca di Francia siano di proprietà dei cittadini d’Oltralpe, non si capisce perché la Banca d’Italia rivendichi il possesso del nostro oro. L’obiettivo dell’emendamento presentato in Senato da Fratelli d’Italia, e che si ricollega a una mia proposta di legge del 2018, punta esclusivamente a stabilire il principio che anche Bankitalia, al pari delle altre Banche centrali, detiene e gestisce le riserve in oro ma non ne è la proprietaria». Continua il dibattito su misure ed emendamenti della legge di Bilancio e in particolare su quello che riguarda le riserve in oro.
Emanuele Fiano (Ansa)
L’ex deputato pd chiede di boicottare un editore ospite alla fiera patrocinata da Gualtieri e «reo» di avere un catalogo di destra.
Per architettare una censura coi fiocchi bisogna avere un prodotto «nero» ed etichettarlo con la dicitura «neofascista» o «neonazista». Se poi scegli un ebreo (si può dire in questo contesto oppure è peccato?) che è stato pure censurato come testimonial, hai fatto bingo. La questione è questa: l’ex parlamentare Pd, Emanuele Fiano, che già era passato alla cronaca come bersaglio dei pro Pal colpevoli di non averlo fatto parlare all’Università Ca’ Foscari di Venezia e contro il quale qualche idiota aveva mimato la P38, sta premendo per censurare una casa editrice colpevole di pubblicare dei libri pericolosi perché di destra. Anzi, di estrema destra.
Un frame del video dell'aggressione a Costanza Tosi (nel riquadro) nella macelleria islamica di Roubaix
Giornalista di «Fuori dal coro», sequestrata in Francia nel ghetto musulmano di Roubaix.
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.






