- Per realizzare nuovi mezzi militari c’è bisogno delle terre rare. L’esperto Brussato: «Oggi, con i limiti all’export messi da Xi Jinping, gli Usa non potrebbero costruire i B2 che hanno bombardato l’Iran».
- Giancarlo Torlizzi: «Comprare dall’estero disperde risorse e opportunità industriali. Va formato nuovo personale».
Per realizzare nuovi mezzi militari c’è bisogno delle terre rare. L’esperto Brussato: «Oggi, con i limiti all’export messi da Xi Jinping, gli Usa non potrebbero costruire i B2 che hanno bombardato l’Iran».Giancarlo Torlizzi: «Comprare dall’estero disperde risorse e opportunità industriali. Va formato nuovo personale».Lo speciale contiene due articoli.Le terre rare, una famiglia di diciassette elementi chimici caratterizzati da proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche uniche, potrebbero apparire quasi trascurabili per volumi nel grande ingranaggio delle materie prime. Eppure, proprio queste minuscole quantità di materiali hanno la forza di ridefinire equilibri strategici e di condizionare, in maniera determinante, la sicurezza globale.Nell’era della guerra tecnologica, ogni componente – dal sensore più piccolo al sistema d’arma più complesso – è infatti fondamentale. Le terre rare sono essenziali nelle munizioni a guida di precisione grazie alle leghe magnetiche che garantiscono traiettorie altamente controllate; nei sistemi di visione notturna e termica, dove ossidi di terre rare amplificano la sensibilità alle radiazioni infrarosse; nei motori elettrici per droni e veicoli militari, che sfruttano magneti al neodimio per massimizzare coppia e resa; e infine nei radar e nei sistemi di comunicazione satellitare, grazie alle loro proprietà piezoelettriche e luminescenti. Senza un approvvigionamento sicuro di questi materiali, la prossima generazione di piattaforme belliche rischia seriamente di rimanere a terra o, peggio, di diventare vulnerabile. Per fare un esempio concreto, un caccia F‑35 incorpora oltre 400 kg di terre rare, un cacciatorpediniere DDG‑51 ne utilizza circa 2.360 kg e un sottomarino classe Virginia ne richiede quasi 4 .200 kg.«Oggi la superiorità militare americana dipende sempre più dalla Cina: il bombardiere B2 usato nei recenti raid in Iran non potrebbe essere costruito con nuove forniture per i limiti imposti da Pechino alle esportazioni di materie prime e prodotti finiti necessari alla produzione del bombardiere», evidenzia alla Verità, Giovanni Brussato, ingegnere minerario e analista di materie prime. D’altronde, «recentemente, la Cina ha rafforzato il proprio controllo sui minerali critici essenziali per le tecnologie della difesa ampliando le restrizioni all’export per includere tungsteno, tellurio e altri materiali vitali. Questa mossa si aggiunge alle limitazioni introdotte nel 2024, che riguardavano gallio, germanio e antimonio. Sebbene questi minerali raramente attirino l’attenzione pubblica, essi sono alla base di componenti fondamentali dell’infrastruttura difensiva europea».Dall’inizio degli anni Ottanta, la Cina ha perseguito una strategia mirata a dominare ogni fase della filiera delle terre rare: esplorazione, estrazione, raffinazione e produzione di leghe avanzate. Oggi Pechino controlla circa il 60% dell’estrazione mondiale, oltre l’85% della capacità di raffinazione e detiene il 30% delle riserve conosciute. Questa concentrazione di potere si tramuta in un’arma geoeconomica formidabile: nell’aprile scorso, a fronte di tensioni commerciali e dazi imposti da Stati Uniti ed Unione europea sui prodotti ad alto contenuto tecnologico come batterie, veicoli elettrici e semiconduttori, la Cina ha sospeso le autorizzazioni all’esportazione di sette elementi chiave – samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutesio, scandio e ittrio – colpendo direttamente le capacità operative degli alleati Nato e dimostrando di poter bloccare la catena di approvvigionamento dei sistemi d’arma occidentali.La dipendenza da un unico fornitore rende l’Europa vulnerabile a strozzature e ricatti politici. In caso di interruzione delle forniture di terre rare, la prontezza operativa verrebbe seriamente compromessa, poiché velivoli, navi e veicoli privi di componenti critici diventerebbero inutilizzabili. Inoltre, la ricerca di fonti alternative comporterebbe costi di difesa notevolmente più elevati e tempi di attivazione lunghi, riducendo l’efficacia del deterrente militare e indebolendo la capacità di rispondere rapidamente a una crisi.«La forte dipendenza europea, e più in generale occidentale, dai fornitori cinesi di queste risorse strategiche rappresenta un grave rischio per la sicurezza dell’Unione», dice Brussato. «Le statistiche rivelano che oltre 80.000 componenti in 1.900 sistemi d’arma incorporano antimonio, gallio, germanio, tungsteno o tellurio: questi dati proiettati sul totale dei sistemi d’arma rivela come potenzialmente oltre il 70% potrebbe contenere una di queste materie prime».Per limitare questi rischi, l’Unione europea ha lanciato una serie di programmi di investimento, dal Fondo europeo per la difesa alle partnership pubblico-‑private, finalizzati a sviluppare miniere e impianti di raffinazione all’interno del Vecchio Continente con progetti pilota in Svezia, Norvegia e Sardegna. Tuttavia, gli iter autorizzativi e gli standard ambientali rallentano significativamente i tempi di avvio. In parallelo, l’Ue sta ampliando i rapporti con Paesi terzi ricchi di risorse, come le ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale (Kazakistan, Uzbekistan) e il Caucaso (Georgia, Turkmenistan), dove strutture estrattive sono già operative. Si guarda anche all’Africa, in Namibia e Sud Africa, pur consapevoli delle instabilità politico‑economiche e delle infrastrutture spesso carenti. Infine, il riciclo di componenti militari obsoleti, sebbene meno redditizio, può offrire nel medio termine un’integrazione delle forniture. Contemporaneamente, si investe nella ricerca di leghe alternative a minor contenuto di terre rare e in tecnologie sostitutive, benché al momento nessuna soluzione garantisca prestazioni paragonabili.«Attualmente l’Unione europea non ha una politica nazionale per la produzione di minerali e senza un’azione per mantenere le scorte, si troverà impreparata in un settore, quello della difesa, che dipende dalle importazioni più del settore delle tecnologie verdi», continua Brussato. Purtroppo, però, «l’Ue continua a non prendere in considerazione la questione della costituzione di scorte strategiche».Accanto alle terre rare, l’Ue ha individuato 34 materie prime «critiche» nella sua lista del 2023, di cui 12 considerate essenziali anche per la difesa. Tra queste figurano litio, cobalto, tungsteno, titanio e grafite. La Russia, dal canto suo, esercita un forte controllo sull’uranio, sul nichel e sul titanio, influenzando già oggi settori come l’aerospazio e la produzione di munizioni.La competizione per le terre rare si colloca all’incrocio tra economia, tecnologia e geopolitica. Per l’Europa, garantire l’accesso a queste materie prime è tanto vitale quanto schierare nuovi sistemi d’arma sul terreno. Solo attraverso una strategia integrata che combini produzione interna, diversificazione dei fornitori, ricerca tecnologica e riciclo, il Vecchio Continente potrà aspirare a una difesa realmente autonoma e sostenibile.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/riarmo-terre-rare-2672840286.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mappare-i-fornitori-e-poi-creare-filiere-italiane-e-europee" data-post-id="2672840286" data-published-at="1751892230" data-use-pagination="False"> «Mappare i fornitori e poi creare filiere italiane e europee» L’aumento della spesa militare da parte dell’Ue comporta una domanda crescente di materie prime critiche e componenti tecnologici avanzati, settori in cui la dipendenza dalla Cina può essere ancora marcata. La Verità ne ha parlato con Gianclaudio Torlizzi, esperto di mercati delle materie prime e analista geopolitico, fondatore della società di consulenza T-Commodity e consigliere del ministro della Difesa.L’aumento della spesa per la difesa rischia di renderci più dipendenti dalla Cina? È un allarme fondato?«No, non in senso assoluto. Molte aziende della difesa hanno già avviato una diversificazione dei fornitori. Il vero problema è la mancanza di una mappatura completa delle supply chain: occorre verificare se fornitori di secondo o terzo livello hanno legami con il mercato cinese. Senza questa analisi approfondita – che pochissime aziende hanno fatto – non si può quantificare il rischio reale».Oltre alla mappatura dei fornitori, quali strumenti concreti potrebbero ridurre la dipendenza strategica?«La mappatura è solo il primo passo. Servono accordi di reciprocità con partner fidati: se acquistiamo sistemi d’arma americani, dobbiamo negoziare transfer tecnologico per rafforzare la filiera europea».Quali sono le criticità più urgenti legate alla dipendenza asiatica, soprattutto cinese?«La componentistica elettronica è un settore dove la Cina gioca un ruolo cruciale. Si tratta di un settore, in particolare quello dei chip per sistemi di guida, dove la Cina controlla il 60% dei semiconduttori militari low-cost. Tuttavia, il pericolo non è necessariamente a livello diretto (primo livello), bensì nei subfornitori (quelli di secondo e terzo livello). Il focus deve essere sulla visibilità della catena di approvvigionamento: terre rare e componenti critici richiedono una mappatura approfondita che oggi manca. Le aziende stesse sono le prime interessate a mitigare questi rischi».Oltre all’Italia, quali Paesi potrebbero beneficiare dell’aumento degli investimenti nella difesa?«Nel breve termine, gli Stati Uniti sono i principali beneficiari. Le catene di fornitura europee non sono ancora pronte a sostenere l’aumento improvviso della domanda, e l’urgenza di dotarsi di sistemi difensivi (contro minacce come Russia o Iran) costringe a rivolgersi a chi ha capacità produttive immediate. Tuttavia, questo non deve sostituire l’obiettivo strategico: costruire una filiera italiana ed europea autonoma. La sfida è bilanciare l’acquisto necessario oggi (dagli Usa) con lo sviluppo industriale di domani (in Europa)».Qual è il rischio se non si agisce sulla filiera europea?«Il pericolo è duplice. Primo: che l’aumento della spesa militare generi solo un effetto temporaneo sul Pil, senza investimenti strutturali in tecnologia e capacità produttiva locale. Secondo: che si crei una dipendenza cronica da fornitori extra-europei, privando l’industria italiana ed europea dei benefici economici di lungo periodo. Se non sviluppiamo una supply chain resiliente in Italia e in Europa, continueremo a comprare dall’estero, disperdendo risorse e opportunità industriali. Vi sono colli di bottiglia che impediscono un reale incremento produttivo. Occorre rivedere il ciclo produttivo, avviare parte della produzione prima di ricevere ordini e avviare la formazione di personale chiave. Occorre inoltre privilegiare i partner sulla base del posizionamento e delle competenze con chiare strategie industriali. Inoltre, occorre creare nuove filiere nel nostro Paese, coinvolgendo il più possibile le pmi».Come conciliare l’urgenza di difendersi ora con la necessità di autonomia strategica?«Da un lato, non possiamo più permetterci di attendere mentre Paesi come Russia e Iran potenziano le capacità offensive. Teheran non è morta e i tempi del Medio Oriente sono diversi dai nostri. Se sopravviveranno gli ayatollah, è lecito attendersi il ripopolamento dell’arsenale col rischio che la gittata dei missili possa eccedere i 3.500-4.000 km inserendo dunque anche noi nel suo raggio d’azione. Pertanto dobbiamo acquistare da chi può fornirci soluzioni immediate (come, ad esempio, gli Usa). Parallelamente, però, dobbiamo accelerare la creazione di una filiera italiana ed europea per gestire la spesa futura. Le due cose non sono contraddittorie: l’acquisto estero risolve l’emergenza, ma solo l’investimento locale garantirà sovranità e benefici economici duraturi. Il tema è urgente. Nessun osservatore si è accorto finora di un effetto collaterale della politica commerciale statunitense: il dirottamento verso gli Usa di rame e alluminio, metalli fondamentali per la Difesa. L’aspettativa (rame) o l’entrata in vigore (alluminio) di dazi si sta infatti traducendo nell’impennata dei premi Usa che incentivano gli importatori a fare incetta di metallo detenuto in Europa e Asia. Risultato: il progressivo depauperamento di materia prima nel Vecchio Continente».
Elly Schlein con Eugenio Giani (Ansa)
Povera matematica: per superare il centrodestra, la segretaria Pd, che non voleva nemmeno Giani, s’inventa le preferenze cumulative. E spara: «Se sommiamo Toscana, Marche e Calabria prendiamo più del governo».
(Ansa)
Bombole di gas e quel che resta di molotov sono state rinvenute nella casa colonica esplosa a Castel d'Azzano, nel veronese. I Vigili del fuoco hanno recuperato 5 bombole che erano state collocate in più stanze della casa e ora si trovano accatastate nel cortile.
La casa era satura di gas fatto uscire, si presume, da più bombole vista la potente deflagrazione che ha fatto crollare lo stabile. Ad innescare la miccia sarebbe stata la donna, mentre i due fratelli si sarebbero trovati in una sorta di cantina e non in una stalla come si era appreso in un primo momento. Tutti e tre si erano barricati in casa. Nell'esplosione hanno perso la vita 3 carabinieri e sono risultate ferite 15 persone tra forze dell'ordine e vigili del fuoco. (NPK) CC
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Mario Venditti. Nel riquadro, Silvio Sapone in una foto agli atti dell’inchiesta di Brescia (Ansa)
Gli ex carabinieri della Procura Spoto e Sapone si contraddicono su ordini ricevuti e attività di indagine nell’inchiesta su Sempio del 2017. I due erano alle dipendenze dell’ex magistrato indagato per corruzione.
2025-10-14
Fiocchi: «Stop alle sostanze chimiche, una scelta strategica per futuro di Ue e Lombardia»
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(Totaleu)
Lo ha affermato l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Pietro Fiocchi in un'intervista al Parlamento europeo di Bruxelles, in occasione dell'evento «Regolamentazione, sicurezza e competitività: il ruolo dell’Echa (Agenzia Europea per le sostanze chimiche) nell’industria e nell’ambiente europei».