
Dall'inizio della legislatura, Giorgio Napolitano non ha mai votato: più di 5.000 chiamate, sempre assente. E l'ex premier in loden lo insegue da vicino: 96% di votazioni saltate. Un po' meglio il Bullo, che comunque ha mancato oltre la metà delle consultazioni.Matteo Renzi? «È di ritorno dagli Stati Uniti...». Pure stavolta, l'ex premier ha smosso mari e monti. L'ultima polemica con il suo successore alla guida del Pd, Nicola Zingaretti, è di qualche giorno fa. C'è da presentare una temibile mozione di sfiducia contro il governo. L'occasione sembra ghiottissima: il voto di fiducia sul decreto sicurezza bis. Renzi, come una lince, scatta per raccogliere le firme necessarie, bruciando gli esimi colleghi. Segue pandemonio. Vabbè: le solite scaramucce tra democratici. Però, alla sofferta seduta Renzi non partecipa. E dov'è finito? Non voleva far fuori Matteo Salvini, una volta per tutte? Il Rottamatore, informano i suoi, sta rientrando dagli Usa. Assente. Anche in questo caso. Dall'inizio della legislatura ha difatti partecipato a meno della metà delle votazioni elettroniche: nemmeno il 47 per cento del totale. È in buona e prestigiosa compagnia. Dopo l'ultimo voto sulla Tav, i nostri indefessi senatori sono in ferie. Un anno di scontri al calor bianco: schermaglie parlamentari, decreti in bilico, opposizione indomita. A ben vedere, qualcuno s'è però sottratto alla lotta. I nomi più blasonati sono tre. Oltre a Renzi, c'è un rinomato padre della patria: l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano. E l'autoproclamato salvatore dell'italica baracca: il fu premier Mario Monti. Tutti accomunati, con alibi e modalità differenti, dall'allergia ai banchi parlamentari. Eppure, dalla nascita del governo gialloblù, lo scorso marzo, non sono certo scomparsi di scena.Perfino re Giorgio torna a riaffollare le cronache. È appena finito nel tritacarne per la sostanziosa scorta che l'accompagna in vacanza: dodici baldi agenti. I lustri passati a Capalbio, la piccola Atene radical chic, sono alle spalle. Il senatore a vita villeggia nella più popolare Cecina. E, dopo l'operazione al cuore dell'aprile 2018, questa è un'ottima notizia. Resta un fatto: dall'inizio della legislatura, Napolitano non ha mai votato. Più di cinquemila votazioni. Sempre assente. Ora, è vero che agli ex capi dello Stato lo scranno è concesso ad honorem. E Napolitano ha 94 anni. Non è un giovanotto. Però il suo zero spaccato riportato nelle statistiche parlamentari lascia perplessi. È stato sempre in congedo o in missione. Legittimamente, eh. Così, per le statistiche, l'emerito risulta sempre presente. O meglio, giustificato. Come Mario Monti, del resto. L'ex premier quest'anno ha festeggiato le 76 primavere. Risulta in piena e riverita attività: è presidente della università Bocconi di Milano, scrive acuti editoriali sul Corriere della Sera e viene spesso e volentieri invitato in tv. Dove, con ghigno sfottente e ammirevole revanscismo, rivendica il passato e randella la contemporaneità. Nominato senatore a vita proprio da Napolitano, non si può dire che a Palazzo Madama si sia invece distinto per dedizione. Dall'inizio della legislatura, ha zompato il 96 per cento delle chiamate elettroniche. E le sue presenze schizzano al 77 per cento soltanto grazie alle missioni, autorizzate per 3.667 chiamate. Insomma, SuperMario ha mancato ben 4.793 votazioni su 5.105. Fa meglio il giovane e baldo Renzi: ne ha saltate soltanto più della metà. E pensare che il giorno dopo la sua elezione prometteva: «Sono orgoglioso del risultato nel mio collegio. Torno indietro: faccio solo il senatore di Scandicci, Impruneta, Signa e Lastra a Signa». Insomma, vagheggiavamo un'opposizione ribalda e senza sconti. Lui, chino sullo scranno, pronto a scattare a ogni emendamento. Non è andata così. A ottobre 2018 annuncia al Corriere della Sera il nuovo corso: «Starò fuori dal giro per qualche mese». Segue scoramento generale. Ci lascia così? Sedotti e abbandonati? Del resto, scriveva il romanziere cecoslovacco Milan Kundera, «la vita è altrove». Ed è troppo breve per rovinarsela in transatlantico. Così Renzi spiega di voler seguire le orme di Tony Blair e Bill Clinton, diventati acclamati e ben retribuiti conferenzieri dopo aver abbandonato la politica. Solo che l'ex premier è stato appena eletto in Senato. Per la prima volta, pure. Non è certo un cavallo a fine corsa. Anzi, continua a occupare con pervicacia il proscenio. Per conferma, citofonare Zingaretti. «Sarò negli Stati Uniti per i 50 anni dalla morte di Bob Kennedy» dettaglia Renzi. «E poi in Sudafrica, per l'anniversario della nascita di Nelson Mandela». Tutti lo vogliono: lobbisti, politici, imprenditori. Lui non si sottrae: conferenze, dibattiti, incontri. «Ci attendiamo che, con coerenza, presenti immediate dimissioni» dice, appena appresa la ferale notizia, il vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli. Ma anche la sponda democratica è inconsolabile: «Va in giro per il mondo a fare conferenze? Andrebbe sculacciato» rincara il sempre inclemente Massimo Cacciari.Da quelle schermaglie è passato quasi un anno. Renzi ormai veleggia verso lidi inaccessibili. Concede puntatine, ma sono toccate e fughe. Come quella sul decreto sicurezza bis. O sul Russiagate della Lega. Lo scorso 24 luglio l'ex premier chiede d'intervenire in aula. Ma i soliti colleghi invidiosetti glielo impediscono. Lui ci resta male, ovvio. Il giorno seguente, come promesso, si presenta in aula. Ma il resoconto telematico documenta: non votante. Con quei felloni non ha mica tempo da perdere. Una sua fedelissima, la senatrice Teresa Bellanova, twitta: «Noi», si strugge, «abbiamo un ex presidente del consiglio, senatore, invitato in tutto il mondo a fare conferenze. E un governo pericoloso che mente sempre, creando danni al Paese. Ora, il problema del Pd può essere se Renzi debba o non debba parlare in aula? Ma cosa siamo diventati?». Per fortuna lui, dopo aver rinunciato all'intervento, sul far di sera decide comunque di rivolgersi agli italiani. In diretta Facebook. Lontano, suo malgrado, dal sudato scranno.
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Marcello Degni ha rinverdito i suoi post social contro l’esecutivo, difendendo la bocciatura del progetto del Ponte sullo Stretto e invitando a votare «no» al referendum sulla riforma Nordio. La collega Franchi è stata consulente di Bellanova e Patuanelli.
Giancarlo Giorgetti e Giorgia Meloni (Ansa)
Sulla sentenza con cui la Corte dei Conti ha bocciato il Ponte sullo Stretto ci sono le impronte digitali di quella parte della magistratura che si oppone a qualsiasi riforma, in particolare a quella della giustizia, ma anche a quella che coinvolge proprio i giudici contabili.






