2022-05-16
«Ho fatto un patto in Procura a Milano e ho salvato l’Expo»
Nel suo libro Matteo Renzi racconta la trattativa con Edmondo Bruti Liberati per congelare le inchieste che rischiavano di far saltare l’evento.Il vicepresidente Csm David Ermini: «Dice falsità». L’ex premier: «Non vedo l’ora di avere l’atto».«Racconto dei fatti. Atti e fatti. Non ci sono commenti, suggestioni, analisi sociologiche. Ci sono dei dati di fatto che forse vi faranno pensare». Così il leader di Italia Viva nella prefazione de Il Mostro, il libro in cui replica alle accuse rivoltegli dalla Procura di Firenze. Per gentile concessione dell’editore Piemme ne pubblichiamo uno stralcio.Voglio rivolgermi per un istante ai giovani magistrati. A quelli che frequentano la scuola di Castelpulci, struttura che la mia amministrazione provinciale mise a disposizione del ministero della Giustizia ormai quindici anni fa per farne la scuola nazionale dei nuovi giudici. Non pensate che io mi sia comportato come un don Chisciotte desideroso di sfidare i vostri colleghi più anziani. Non ho mai rinunciato a pensare con la mia testa, e questo mi sembra evidente oltre che giusto, ma ho sempre cercato la collaborazione istituzionale. E non solo con i tanti magistrati che lavoravano negli uffici ministeriali (troppi, peraltro: il vero problema della mancanza di indipendenza tra politica e magistratura è questo, la capillare e pervicace presenza di magistrati in tutti gli uffici burocratici). No. Io ho cercato sempre di valorizzare dei magistrati di qualità, sia nelle nomine delle autorità di vigilanza e controllo sia creando con Raffaele Cantone l’Anac, divenuta ben presto un modello europeo e internazionale e poi colpevolmente ridimensionata dal governo a guida grillina. Ma sempre ho cercato il dialogo istituzionale. Uno degli episodi sintomatici di questa collaborazione è stata la vicenda Expo di Milano. Quando sono arrivato a Palazzo Chigi la situazione giudiziaria era fluida e complessa e molti appalti stavano saltando. Non svelo un segreto se affermo che l’allora commissario Beppe Sala era pronto a dimettersi e si sfogò in più di una circostanza sia con me sia con il ministro Martina, che avevo delegato a seguire l’evento, non avendo la possibilità concreta di portare avanti l’impegnativa sfida. Oggi tutti a magnificare l’Expo, ma in quelle ore il destino della manifestazione sembrava segnato. Dalla Turchia il governo Erdogan immaginava già di rilanciare l’alternativa Smirne, che era la città sconfitta da Letizia Moratti e da tutti i milanesi per ospitare l’evento. Dopo le difficoltà rappresentatemi da Beppe Sala e Maurizio Martina decisi di confrontarmi con un magistrato di grande intelligenza e sensibilità politica che mi spiegò un concetto semplice: vai a incontrare il Procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati, già presidente dell’Anm e ora capo della Procura meneghina. Spiegagli il problema. Capirà. Tutto perfettamente nella norma, s’intende. Ma questo feci: presi l’aereo, arrivai a Linate e in una saletta riservata incontrai Bruti Liberati, dicendogli: «Caro Procuratore, noi vi mettiamo a disposizione tutte le carte, tutte le procedure, tutte le strutture governative. Ma voi dovete aiutarci a fare questa Expo. Perché se salta l’Expo per Milano è una ferita allucinante. Ma se l’Expo si fa, la città svolta e riparte. Mi aiuti a capire come fare, noi vogliamo collaborare». Il ruolo straordinario dell’Anac di Raffaele Cantone e una norma ad hoc studiata dalla dirigente del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi a Palazzo Chigi, Antonella Manzione, permisero di superare l’impasse. Di evitare la crisi istituzionale. E di gestire in modo unitario e condiviso l’evento. Dunque: io non sono un ideologico nemico dei magistrati. Avevo l’obiettivo di salvare l’Expo a Milano e mai come oggi sono fiero e orgoglioso di avercela fatta. Per raggiungere questo obiettivo avrei fatto di tutto, a maggior ragione prendere semplicemente un caffè col Procuratore del capoluogo lombardo. Ma se invece oggi mi aggrediscono perché vogliono mettermi un cordone sanitario, reagisco. Senza rabbia, senza sconti: pubblico documenti, presento denunce, faccio interviste. Faccio interrogazioni parlamentari, esercito il mio ruolo costituzionalmente garantito, scrivo libri e articoli. Faccio una battaglia di civiltà a viso aperto senza fermarmi ai comunicati stampa dell’Associazione nazionale magistrati con il lieve retrogusto della minaccia. Non appanno un bel niente, io.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/renzi-procura-milano-salvato-lexpo-2657325899.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lite-su-il-mostro-ermini-lo-querela" data-post-id="2657325899" data-published-at="1652663635" data-use-pagination="False"> Lite su «Il Mostro». Ermini lo querela Il libro sarà in vendita da domani, ma ancor prima che Il Mostro arrivi in libreria ecco pronta la prima querela per Matteo Renzi, che ne è l’autore. «Con riferimento alla vicenda degli interrogatori di Piero Amara sulla presunta “loggia Ungheria”», comunica il vicepresidente del Csm, David Ermini, ad agenzie unificate, «sostenere che io avrei distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano” eliminando “il corpo del reato” è affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Piercamillo Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria». Il riferimento di Ermini sono gli estratti del libro del leader di Italia viva pubblicati ieri da La Verità: «Tra un mediocre e un cattivo bisognerebbe sempre preferire il cattivo: almeno il cattivo ogni tanto si riposa. David Ermini passerà alla storia come il vicepresidente del Csm che riceve un membro del Csm, uno dei più autorevoli e visibili peraltro, Piercamillo Davigo, e brucia o distrugge il materiale ufficiale, proveniente dalla procura di Milano, che Davigo gli consegna, comprovante l’esistenza di una loggia segreta che avrebbe impattato sulla vita delle istituzioni». Ermini si dice amareggiato: «Non consentirò mai a nessuno di mettere in discussione la mia lealtà istituzionale che è e sarà sempre libera da condizionamenti», afferma. Renzi non sembra farsi impressionare e replica a stretto giro: «Leggo che il vicepresidente del Csm intende denunciarmi per ciò che ho scritto ne Il Mostro. Non vedo l’ora di ricevere l’atto di citazione. Potrò dunque raccontare - libero da ogni forma di prudenza istituzionale - tutto ciò che in questi lunghi anni l’avvocato David Ermini ha detto, scritto e fatto. Egli è diventato vicepresidente del Csm grazie al “metodo Palamara” e io sono uno di quelli che possono testimoniarlo. Le cene romane di Ermini - fin dalla scorsa legislatura - sono numerose e tutte verificabili e riscontrabili. La sua storia da candidato sindaco bocciato a Figline Valdarno, aspirante consigliere provinciale, poi da parlamentare e da candidato vicepresidente del Csm è ricca di aneddoti che sarà piacevole raccontare in sede civile a cominciare dai numerosi scambi di sms di questi anni. Quanto ai verbali ricevuti da Davigo, e inspiegabilmente distrutti, Ermini avrà modo di chiarire in sede giudiziaria il suo operato». Se ne riparla in aula di Tribunale.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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