2020-11-21
Referendum, una sberla che il bullo sente ancora
Matteo Renzi (Laura Lezza/Getty Images)
Adesso sappiamo di chi è la colpa se ci sono toccati tre anni di Renzi a Palazzo Chigi, più un altro anno di governo per interposta persona e, a distanza di tempo, ci ritroviamo ancora tra i piedi il fondatore di Italia viva: il merito se lo spartiscono in tanti. Giorgio Napolitano per primo, il quale disturbò l'allora segretario del Pd mentre stava giocando alla playstation con i figli, invitandolo a cena al Quirinale dopo aver lasciato a casa Enrico Letta. E poi la folla alla messa della domenica, che invece di pregare Nostro Signore, invoca il signore di Rignano a non lasciarci. Così, dopo aver garantito a Letta un periodo sereno alla guida del Paese, aver promesso di fare le valigie in caso di sconfitta al referendum, aver giurato che mai si sarebbe messo con i 5 stelle, rieccolo spuntare dalle pagine del settimanale del Corriere della Sera. Il titolo dell'intervista concessa a Tommaso Labate è già un programma. L'uomo non ha errori da ammettere e nemmeno deve fare concessioni ai suoi detrattori: l'unico rimpianto è di non essersi tolto di mezzo subito dopo il referendum. Ma come scrivevamo, a convincerlo a cambiare idea ci si sono messi in molti, e dunque la responsabilità è da spartire fra tante teste. I primi, dicevamo, sono i suoi concittadini, anzi i cattolici praticanti, quelli che non scordano il terzo comandamento e santificano le feste, che dopo aver fatto la fila per la Comunione ne hanno fatta un'altra per onorare l'altro Signore. Quindi, ai devoti si sono uniti i cittadini semplici, che per strada lo imploravano di non emigrare negli Stati Uniti, dove lui era pronto a volare. Poi la Merkel, che già la sera stessa della sconfitta al referendum gli aveva chiesto di non lasciare. Ma forse, più di tutti, cioè dei fedeli, dei militanti e della Cancelliera, a indurlo alla retromarcia e a rimanere incollato alla poltrona di segretario del Pd prima e di senatore semplice di Scandicci poi, è «la garanzia che si sarebbe votato in primavera e non dopo un anno e mezzo». In pratica nell'intervista, Renzi ammette che lasciò Palazzo Chigi con l'intenzione di ritornarci in fretta e dunque per tale motivo lasciò Gentiloni a scaldargli la sedia, convinto che al più lo avrebbe sostituito a Palazzo Chigi solo per qualche mese. Le cose, come si sa, andarono diversamente e il sostituto premier si allungò sulla poltrona di capo del governo per un anno e mezzo, regalando a Renzi una sconfitta dietro l'altra alle elezioni amministrative. Ma chi garantì al presidente del Consiglio uscente che quella di Gentiloni sarebbe stata una parentesi e che a marzo il reuccio di Rignano avrebbe potuto ritornare sul trono? Il fondatore di Italia viva non lo dice, ma ci vuole poco per capirlo, in quanto il solo che potesse garantire qualche cosa in quel periodo risponde al nome di Sergio Mattarella. Insomma, il capo dello Stato avrebbe fregato Renzi, il quale per il Quirinale aveva scelto l'ex ministro dc considerandolo manovrabile, ma come capita a quelli che pensano di essere più furbi di tutti, alla fine sarebbe finito manovrato. Una mano gliela diede anche lo stato maggiore del Pd, che rafforzò l'idea del voto a marzo, ma soprattutto a farlo cascare nella trappola fu un errore di prospettiva, che lo convinse di un'Italia spaccata in due, con il 60 per cento degli italiani contrari alla sua riforma costituzionale, ma un 40 per cento unito dietro a lui. «Con me alla guida», dice Renzi, «il partito aveva ancora il 35 per cento». Ma si capisce che, sotto sotto, lui pensa che sarebbe stato anche di più. Sì, lo sbaglio che l'ex segretario del Pd è disposto ad ammettere si limita a questo: non aver capito di dover trascinare subito il Paese alle elezioni, accettando le garanzie di Mattarella e le rassicurazioni dei suoi. Invece di mollare il colpo, far venire giù tutto e ripresentarsi, a Renzi è sfuggito l'attimo. Nell'intervista, racconta che aveva la fila di offerte di lavoro ed era pronto a scoprire l'America, dove aveva già accettato un posto che gli avrebbe assicurato «tantissimi soldi in più», ma si capisce che la lingua batte là dove il dente duole, ossia su quella fregatura ricevuta da chi avrebbe dovuto essergli grato. Eh già, perché a Labate il fondatore di Italia viva racconta pure come la scelta sia caduta su Mattarella e come, proprio su quel nome, sia andato in pezzi il patto del Nazareno. Tutta colpa di un uccellino, che gli cantò in un orecchio una telefonata tra Berlusconi e D'Alema per portare Giuliano Amato al Quirinale. Un gioco alle sue spalle per sventare il quale Renzi avrebbe rotto col Cavaliere e accelerato sull'attuale capo dello Stato. Senza rendersi conto che così stava firmando non la fine del patto del Nazareno, ma la sua condanna. Altro che rimpianto per non essersi levato di torno. L'unico rimpianto è essere caduto nella sua stessa trappola. Ora racconta di non voler tornare a Palazzo Chigi. Ma siccome tutti sappiamo che pensa il contrario di ciò che dice, non resta che regolarsi.
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