2022-08-23
Recanati non ha ancora finito di farsi beffe del povero Leopardi
La statua di Giacomo Leopardi a Recanati (Ansa)
In vita il poeta si sentiva osteggiato dalla gente del borgo, mentre oggi nel suo nome sono stati aperti ristoranti, si paga per un tour del suo dolore e addirittura c’è un biglietto solo per il colle de «L’infinito».Vediamo di riepilogare il contenzioso che Giacomo Leopardi aveva con la cittadina di Recanati, come può essere desunto dalla seconda strofa della canzone Le ricordanze. Gli abitanti, dice, sono gente zotica e vile, non nel senso di codarda ma in quello di ignobile, e ciò perché conoscenza e dottrina le sono estranee, e siccome le sono estranee le tratta come oggetto di riso e di scherno. Sono inoltre gente, anzi una «greggia», malevola, che lo odia e lo sfugge, non per invidia, che implicherebbe almeno un riconoscimento obliquo e perfido di una sua superiorità, ma per il senso di superiorità che, a torto, gli attribuisce: lo giudica insomma uno che se la tira senza averne motivo. Risultato: Giacomo è «dannato» a consumare la sua giovinezza in un «borgo selvaggio», in un «soggiorno disumano», abbandonato e nascosto, senza amore né vita, diventando aspro per l’asprezza altrui e sdegnando i suoi simili per l’influsso dei «simili» che si trova intorno. Appena possibile, dunque, comincia il suo vagabondaggio lontano dal paese natale. Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, sempre alla ricerca di amore, di solidarietà intellettuale e di indipendenza economica. Incapace di quest’ultima per le sue precarie condizioni di salute, è costretto a un nuovo confino a Recanati, dove rimane durante quelli che in una lettera descrive come «sedici mesi di notte orribile». Ripartitone definitivamente, si stabilisce a Napoli e vi muore, due settimane prima del suo trentanovesimo compleanno. A poca distanza dalla morte, l’atteggiamento che i suoi concittadini mostrano verso Leopardi appare di segno totalmente opposto a quello da lui percepito. Lungi dall’odiarlo, nel 1864 commissionano allo scultore Ugolino Panichi una sua statua, che oggi, in una piazza a lui intitolata e a poca distanza da un liceo che porta il suo nome, funge insieme da centro e da simbolo del luogo. E dappertutto si diramano arterie che, sfiorando un po’ il ridicolo, sembrano testimoniare una ingenua ma intensa devozione alle sue opere: via Passero solitario, viale Colle dell’Infinito, piazzale Sabato del villaggio. Forse stona un po’ il ristorante A Silvia Food, Drink & Pizza; ma è possibile leggerlo come una simpatica, allegra sciocchezza. Con questa disposizione benevola, arriviamo a Casa Leopardi. L’avevo visitata in passato, prima che un film mediocre e sopravvalutato vi attirasse un pubblico da stadio (una signora che chiaramente non sa che cosa ha davanti insiste però di voler fare «la cosa più completa possibile»). L’ingresso, per biblioteca, abitazione e museo, costa 20 euro (!?), ma non sognatevi di comprare un biglietto ed entrare, come mi era capitato nella mia precedente incarnazione. Buona parte dei biglietti vengono distribuiti su prenotazione e sono esauriti da tempo; per i pochi che vengono messi in vendita nel giorno stesso, all’una del pomeriggio si stanno già vendendo quelli delle cinque. C’è un sentiero che porta al colle dell’Infinito, ma la vista che ispirò i famosi 15 endecasillabi è protetta da un alto muro e accessibile solo con un altro biglietto. E insieme con i biglietti potete acquistare ritratti, libri e altre diavolerie, come in ogni altro bookshop che si rispetti (così si chiamano ormai in Italia), inteso ad accrescere i profitti di un’istituzione «culturale». Se poi volete un’esperienza più esotica, potete unirvi a un signore che, impeccabilmente addobbato con abiti d’epoca, vi porterà per luoghi leopardiani declamando opportuni versi; mi chiedo che cosa farebbe la Disney con un’idea del genere e mi rispondo che lo sta già facendo - non la Disney come azienda ma la Disney come archetipo, come modello di business. A questo punto i conti cominciano a tornare, o meglio a non tornare. La gente che popola questo circo non è meno zotica e vile di quella che indispettiva Giacomo, e non ha di lui un’opinione migliore; lui ne avrebbe ugualmente orrore e vorrebbe ugualmente starne alla larga. Se pure ha imparato a memoria qualche riga dei suoi scritti, il motivo che la spinge è fare soldi. Alle sue spalle: il giovane infelice riciclato come favoloso è strumentalizzato a fini commerciali e venduto come oggetto di consumo. Quell’abbraccio caldo e avvolgente che aveva invano cercato in vita gli è negato anche in morte: ogni briciolo della sua identità ha un prezzo, che lo allontana, invece di avvicinarlo, dall’obiettivo sfuggente del suo desiderio. Pratiche avide e rapaci hanno occupato il territorio della poesia e ne hanno imprigionato l’autore, «dannato» per sempre a questo inferno. E intendiamoci: rapaci non come un leone, che uccide la sua preda prima di sbranarla, ma come un avvoltoio, che preferisce cibarsi di carogne.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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