
Dai pasticci di Facebook agli incidenti delle auto senza pilota il sentiero della rivoluzione digitale è lastricato di errori.Nel suo libro Di chi possiamo fidarci? (Hoepli, 2017), la scrittrice e speaker americana Rachel Botsman sostiene che «la tecnologia permette a milioni di persone in tutto il mondo di compiere un atto di fede: accettare di correre un rischio per fare qualcosa di nuovo o per svolgere un'attività consueta con modalità profondamente diverse dal solito». Un esempio classico è il momento nel quale abbiamo inserito per la prima volta i dati della nostra carta di credito per effettuare un acquisto online. Non potevamo sapere se i dati della carta sarebbero stati utilizzati da qualcun altro in maniera fraudolenta, se l'articolo che stavamo comprando fosse in buone condizioni o se addirittura sarebbe stato realmente recapitato. Secondo una ricerca pubblicata la scorsa estate dal think tank americano Pew research center, tre intervistati su quattro ritengono che, nell'arco dei prossimi dieci anni, la fiducia nei confronti di internet è destinata a rafforzarsi o, nel peggiore dei casi, a rimanere invariata.Le cronache degli ultimi anni ci consegnano tuttavia una realtà molto diversa, che testimonia quanto sia difficile compiere l'atto di fede nei confronti della tecnologia di cui parla la Botsman. Una lista lunghissima, che vede in cima i cosiddetti «data breach», vale a dire gli episodi che riguardano la violazione dei dati personali. Tra il 2013 e il 2014, Yahoo (oggi di proprietà di Verizon communications) ha subito due differenti data breach che hanno coinvolto 3,5 miliardi di dati, tra cui indirizzi email, password e generalità degli utenti. Nel 2017 il database di River city media è stato «spazzolato» di 1,37 miliardi di informazioni dagli hacker, tra cui gli indirizzi di residenza degli iscritti.Molto più contenuta dal punto di vista numerico, ma estremamente delicata per via della tipologia di dati sfuggiti al controllo, la falla che si è aperta l'anno scorso nei database Equifax, l'importante sistema di informazione creditizia americano. In questo caso il furto ha interessato anche i numeri relativi alle carte di credito e ai documenti d'identità. Il Garante per la privacy stabilisce che in caso di data breach il soggetto che ha subito l'attacco debba informare «senza ritardo» sia gli utenti potenzialmente colpiti che il Garante stesso. Ma le controversie sulla protezione dei dati non si limitano ai furti di informazioni. A complicare le cose interviene spesso l'atteggiamento irresponsabile degli stessi titolari del trattamento dei dati, cioè provider, social network e siti internet. Qualche mese fa la società che gestisce Grindr, l'app di dating utilizzata dalla comunità Lgbt, ha rivelato di aver ceduto a terze parti i dati relativi alla sieropositività dei propri iscritti. Un'informazione che incrociata con i dati di posizione poteva portare a identificare il singolo utente. C'è poi il caso Cambridge analytica, con i dati di 50 milioni di utenti Facebook utilizzati per fini elettorali e nel quale l'effettivo ruolo di Palo Alto risulta ancora tutto da chiarire. Sempre a proposito di Facebook, all'inizio di questo mese un «bug» ha modificato l'impostazione della privacy dei post, facendo in modo che aggiornamenti condivisi solo con gli amici risultassero in realtà completamente pubblici.Quello riportato è solo un breve e assolutamente non esaustivo elenco degli errori ai quali le nuove tecnologie ci hanno ormai abituati. Il difficile arriva quando ci sono da attribuire le responsabilità. «Non abbiamo fatto abbastanza per fare in modo che questi strumenti venissero utilizzati per danneggiare qualcuno», così Mark Zuckerberg nella sua memoria pronunciata di fronte ai membri del Congresso americano lo scorso aprile. «È stato un mio errore, e mi dispiace. Ho fondato Facebook, la guido ancora oggi e sono responsabile per ciò che accade al suo interno». Stesso copione anche durante l'audizione al Parlamento europeo, tenutasi nel mese di maggio. «Che si tratti di fake news, di interferenze straniere nelle elezioni o di sviluppatori che fanno cattivo uso delle informazioni degli utenti, non siamo stati in grado di prendere una visione più ampia delle nostre responsabilità. È stato un errore e me ne scuso». Al numero uno di Facebook è bastato cospargersi il capo di cenere un paio di volte per archiviare la pratica. Secondo le statistiche diffuse dall'Association for safe international road travel, ogni anno muoiono coinvolte in un incidente stradale 1,3 milioni di persone, circa 3.200 al giorno. Lo scorso 18 marzo una Volvo XC90 a guida autonoma di Uber ha investito la quarantanovenne Elaine Herzberg, uccidendola. È stato la prima vittima al mondo di una vettura di questo tipo. Perché allora tanto scalpore? Il nodo sta proprio nella responsabilità. Quando si tratta di nuove tecnologie «dobbiamo sapere chi dice la verità su un prodotto, un servizio o una notizia e a chi dobbiamo dare la colpa se quella fiducia viene tradita», argomenta Rachel Botsman. «Chi si assume la responsabilità? In questa nuova era», risponde la scrittrice americana con una vena di amarezza, «non l'abbiamo ancora capito». Detto in altri termini, le aspettative legate alla disintermediazione offerta dalla tecnologia si stanno sciogliendo come neve al sole. L'ultimo feticcio di questo «atto di fede» si chiama blockchain, un meccanismo che promette di sanare ogni stortura derivante dall'ingerenza umana nelle aree più disparate, dal settore dei pagamenti fino alla legittimazione del voto elettorale. Ma siamo sicuri che la soluzione al problema della fiducia risieda nell'eliminazione del suo protagonista principale?
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