2020-09-17
«Questi ragazzi ubriachi di libertà sono orfani di dovere e disciplina»
Aurelio Picca (Leonardo Cendamo, Getty Images)
Lo scrittore romano Aurelio Picca: «Attribuire i fatti di Colleferro al Ventennio o al patriarcato è una perversione culturale. È proprio il padre a mancare oggi. Così come sono scomparsi la gerarchia e il combattimento con la realtà».Aurelio Picca ha da poco pubblicato un romanzo splendido, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), che la ferocia e la violenza non ha paura di affrontarle con il petto scoperto. Anche per questo, forse, Picca era l'intellettuale più adatto per commentare la brutalità di Colleferro che è costata la vita al povero Willy. Lo ha fatto in un articolo per Repubblica che ha toccato temi centrali, per lo più trascurati nello scomposto «dibattito» di questi giorni. Picca, ad esempio, parla tanto di «combattimento», dopo che per giorni se ne è discusso a sproposito, portando sul banco degli imputati addirittura le arti marziali praticate dai fratelli Bianchi. Alla violenza spietata di Colleferro, lo scrittore oppone l'idea di uno scontro con la realtà che significa, certo, lotta, ma anche e soprattutto assunzione di responsabilità. Alla cultura da piccoli gangster del «tutto e subito» - descritta anni fa in un celebre libro dal francese Morgan Sportés, che appunto si occupava di violenza giovanile - Picca contrappone una forma di combattimento che consiste, più che altro, nel diventare adulti. C'è un passaggio commovente nel suo articolo, quello in cui scrive: «Abbiamo concesso una ridicola libertà abolendo la disciplina, il dovere, la gerarchia». È da questa libertà in eccesso che origina la violenza di Colleferro? «Io vengo da una famiglia repubblicana mazziniana. E per i miei genitori mazziniani, la questione della libertà era indissolubilmente legata al dovere. Non esisteva la libertà nel senso in cui l'intendiamo adesso, come progresso libero, sciolto da ogni limite... La libertà che intendo io è prima di tutto responsabilità individuale. Rispetto a sé stessi, al proprio lavoro, alla società. Ma questa responsabilità, questo senso del dovere, sono ormai perduti da tanto tempo». Essere liberi, dunque, significava anche combattere. «Nel mondo in cui sono cresciuto vigeva una legge quasi biblica direi, sicuramente patriarcale, una sorta di ferocia naturale. Io sono stato educato alle cose difficili. Perché uno che, fin da bambino, non sapeva fare le cose difficili, come poteva allenarsi ad affrontare la realtà e a essere libero nel mondo? La difficoltà e la lotta ti rendevano libero, non la semplicità e la facilità. È questo che oggi tutti hanno smarrito». La lotta che sta descrivendo è una sorta di «buona battaglia», non una espressione di violenza cieca e senza limiti. «Ho fatto tante cose nella vita, anche l'insegnante. Proprio io, che non amavo tanto la scuola, a un certo punto ho fatto il concorso e chissà come l'ho passato. I primi dieci anni a contatto con i ragazzi sono stati come la seconda giovinezza, anzi forse proprio la prima. Allora ho scritto L'esame di maturità, che di fatto era un corpo a corpo con i ragazzi. Quando venivano in cattedra e mi mostravano le foto porno, io chiedevo: ma queste donne le puoi toccare, le puoi avvicinare, che te ne fai della carta? Allo stesso tempo, però, pretendevo che mandassero a memoria l'Inferno di Dante. Pretendevo da loro, appunto, il corpo a corpo con la realtà». Di nuovo, quello che lei descrive è uno scontro fisico buono, che migliora. «Nel mio articolo ho parlato di ferocia della realtà. Una ferocia che presupponeva il corpo a corpo, quello che i bambini avevano con gli arnesi con cui giocavano. Un tempo non c'era bisogno di essere sciuscià o poveri sfruttati per andare a bottega e imparare un mestiere. È questo il corpo a corpo che intendo io, e che ti insegna a fronteggiare la realtà. Oggi se dici a un ragazzo di andare a fare il calzolaio, ti sputa in faccia. Io invece introdurrei l'artigianato come materia di studio nelle scuole. Mi piacciono il mondo artigiano, la piccola impresa, le famiglie che lavorano. Questa è l'Italia, non il grande capitale che ci ha reso schiavi». Da questa «ferocia della realtà siamo passati però a un altro tipo di ferocia. Quella appunto che è esplosa a Colleferro. «Quella la chiamo ferocia della perversione. Perché è una perversione». In che senso? «La ferocia in sé non è soltanto cattiveria. È anche indice di vitalità, di forza animale e fisica. Non è farsi gonfiare i muscoli in palestra. Ma correre, lavorare, usare il corpo. Nella ferocia c'è il nostro istinto primordiale, che non cambia». Non cambia, ma va controllato. Deve avere dei limiti. E la figura a cui spetta mettere limiti è quella del padre, che però sembra scomparso. «Il padre simbolicamente è la legge, la madre è il latte, il sentimento e il ventre. E in effetti il padre non c'è più, è stato distrutto. Oggi ci sono più donne che uomini, ci sono più madri che padri. Il padre in quanto legge non esiste più, e se non ci sono legge e dovere, il territorio del nichilismo diventa una prateria sconfinata». Eppure anche adesso sono in tanti a puntare il dito contro la «violenza maschile», la «società patriarcale»...«Non sono d'accordo con questo genere di cose. Io non ho procreato, ma con i miei studenti sono stato padre. Mi hanno amato come un padre e io li ho amati da padre. Non c'entra niente l'autoritarismo. Con i ragazzi, ad esempio, non ti puoi porre come il maestro che sa e che si impone sull'inferiore. La potenza sta nell'autorevolezza, nell'accettare il corpo a corpo di cui parlavo prima. Devi essere il padre che dice al ragazzo: vediamo se sai fare questo, che non impone ma sfida ad assumersi una responsabilità. Il problema è che oggi anche i padri non hanno responsabilità». Figuriamoci i figli...«I padri di questi padri, quelli che oggi sono nonni, hanno a loro volta combattuto con i loro genitori. Li hanno combattuti per ragioni ideologiche, c'erano gli scheletri del dopoguerra nell'armadio e tutto il resto. Ma i padri di adesso non devono combattere più nessuno, non hanno più il problema del dovere, della legge, della responsabilità. Che per me vengono prima di tutto. Oggi non si parla mai di doveri, soltanto di diritti. Il grande problema è che noi siamo organi di padre, della legge e dei doveri». Lei parla di doveri, di autorità, di ordine. Tutto questo oggi viene combattuto. Finisce nel grande calderone del «fascismo» e demonizzato. Anche su Colleferro è stata chiamata in causa la «cultura fascista». «Questa cosa di tirare sempre in ballo il fascismo è una perversione culturale, vuol dire che non si conosce, non si sa... Io parlo di simboli, che sono eterni, qui il fascismo non c'entra niente. Il mio mito è San Michele Arcangelo, un combattente, l'unico che poteva avere il privilegio di guardare negli occhi Dio». Ritorniamo sempre lì: alle battaglie che bisogna combattere, alla lotta buona... «Sì. Io vorrei che i ragazzi riprendessero il corpo a corpo con la realtà. Ho scritto che dobbiamo abbandonare la prateria nichilista e tornare al lavoro, dove siamo campioni. Vorrei che i ragazzi riprendessero a giocare con i chiodi e con il martello, perché anche se si fanno male sono contenti lo stesso. Vorrei che li rimettessimo in pista, nel mondo. Che imparassero a combattere per assumersi le loro responsabilità».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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