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2019-04-18
Quei profeti del calcio giovani e incoscienti. L’Ajax divulga il verbo del match perfetto
Ansa
Però, la Juve. Però, nel primo tempo. Però, se ci fosse stato Douglas Costa. Il giorno dopo è ancora più difficile arrendersi all'evidenza. Le attenuanti rimontano. E il disagio serpeggiante allo Stadium, la scimmia di un'inferiorità conclamata, scolora nel ci rifaremo. È stata una lezione di calcio. Fine delle trasmissioni. E dei sogni di gloria. Una partita che se fosse finita 1-5 non ci sarebbe stato nulla da dire. La Champions League bianconera continuerà, almeno per un altro anno, a essere un'ossessione. C'è già chi vaticina la fine di un'epoca. Però, oggi, non è della débâcle juventina che si vuol parlare - quella è materia della sterminata galleria di meme sul Web - ma di calcio e dell'Ajax, una squadra che ci ha riconciliato con la bellezza di questo sport. E che, perciò, suscita un'appartenenza estetica. Una squadra che esprime spensieratezza, leggerezza, umile spavalderia, se si può dire con un ossimoro. E che, con applicazione e rigore tattico assoluti, ha annichilito un avversario ben più ambizioso e potente. Il terzo, dopo Bayern Monaco e Real Madrid. Insomma, i soldi non sono tutto, nemmeno nel calcio.
L'evidenza maggiore dell'altra sera è un'abissale differenza di cultura, tra due filosofie diametralmente opposte. Perciò, anche tra i teorici, gli addetti ai lavori, gli opinionisti più o meno fiancheggiatori, ci sono perdenti e vincenti. Da una parte una squadra impostata sull'estro dei campioni e sul cinismo speculativo delle situazioni, dall'altra un gioiello tecnico e tattico con un'idea precisa in testa e nelle gambe: attaccare e vincere divertendosi e divertendo. Sprazzi di calcio totale. Furia controllata. Ruoli fluidi, movimenti sincronizzati, passaggi rapidi e millimetrici da sembrare intarsiati con il bisturi. Applicazione, disciplina, corsa. Una squadra con quattro giocatori d'attacco (Dusan Tadic, David Neres, Hakim Ziyec e Donny van de Beek), che non va mai o quasi mai in affanno in difesa.
Torna alla mente l'Ajax di Rinus Michels degli anni Settanta. E l'Olanda di quel periodo, ribattezzata Arancia meccanica per il colore della maglia e la sincronia del gioco. A proposito di passaggi: nella prima azione della finale mondiale del 1974 ne fece 17 consecutivi senza far toccar palla alla Germania, squadra del Paese ospitante, fino all'ingresso in area di Johan Cruijff che costrinse al fallo Uli Hoeness, attuale presidente del Bayern Monaco, determinando il rigore, poi trasformato da Johan Neeskens.
Quella partita fu poi vinta dalla Germania. Come quattro anni dopo fu l'Argentina, anch'essa paese ospitante, a togliere all'Olanda, con un arbitraggio molto discusso dell'italiano Sergio Gonella, la soddisfazione del gradino più alto. Quell'Ajax è stato la matrice di tante versioni aggiornate e corrette di un calcio offensivo e qualitativo. Poi rivisto nel Barcellona allenato dallo stesso Cruijff, nel Milan di Arrigo Sacchi, nel Napoli di Maurizio Sarri, nelle squadre di Pep Guardiola, inventore del famigerato tiki taka. Rivedendo la compagine diretta da Erik ten Hag, non a caso vice allenatore del Bayern di Guardiola, quel sistema e quella mentalità sono tornati di stretta attualità. E lo saranno ancora prossimamente, con il Manchester City di Pep. Visto così anche il calcio sembra cultura, storia di conoscenze che si tramandano, di maestri che trasmettono a chi ha voglia d'imparare e di provarci. Da Michels a Cruijff, da Guardiola a Ten Hag. Non è affascinante? Non è diverso dalla mentalità tutta malizia e furtività che vediamo praticata ogni domenica nei nostri campi di gioco? Spiace solo che, per impostazione societaria, a fine stagione l'Ajax venderà i suoi gioielli. Frenkie de Jong è già del Barcellona - a proposito - e Matthijs de Ligt è pure lui sul mercato, probabilmente con la medesima destinazione. E, dunque, bisognerà ricominciare da capo, sempre dalla solita matrice.
Ieri, nel day after dello Stadium, ci si continuava ad arrampicare sui ghiacciai cercando di capacitarsi. Ha scritto cerchiobottisticamente Mario Sconcerti sul Corriere della Sera: «L'Ajax gioca meglio della Juventus, non è migliore in assoluto, ma è più moderno… Non c'è stata astuzia nell'Ajax… ha solo e sempre giocato a calcio. Era quasi chiaro dovesse finire così, credo lo sapesse anche Allegri, anche l'ultimo dei giornalisti, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo», ha osservato Sconcerti. Alt, qualcuno sì: Maurizio Pistocchi, in un'intervista alla Verità. «E poi, in fondo, perché dirlo?», si è chiesto ancora l'editorialista più gettonato del bigoncio. Per un solo motivo, caro Sconcerti: per amore dello sport.
Il naufragio della Juventus è anche economico. Persi 400 milioni in una sera
Mai finita così in fretta, mai finita così male. La stagione della corazzata del calcio italiano si conclude fra le malinconie di aprile, sabato sera allo Stadium contro la Fiorentina. A meno di terremoti sportivi sarà festa per l'ottavo scudetto consecutivo, prezioso e scontato come l'arrivo dei primi temporali o la frase di Matteo Renzi: «Noi eravamo più bravi». Una bicchierata e via, al di là delle celebrazioni televisive e della statistica, perché il cuore e la mente sono rimasti lì, al 67' di una sera da cani, mentre Matthijs de Ligt colpiva di testa fra due bianconeri imbambolati (Daniele Rugani e Alex Sandro) il pallone della vita o almeno quello della Champions. Fine delle trasmissioni perché, andata anche la Tim Cup, la Juventus prova la vissuta sensazione delle rivali milanesi negli anni bui: tirare a campare fino alle ferie.
Non se l'aspettava nessuno, men che meno Cristiano Ronaldo che era arrivato in elicottero a luglio per vincere la coppa dalle grandi orecchie e ieri mattina faceva shopping in centro a Torino a bordo della lussuosa Rolls Royce. Per lui, evidentemente senza parole dopo la batosta, ha parlato mamma Dolores: «È triste, mi ha detto che non può fare miracoli. Sarà per la prossima volta, la vita continua». A 34 anni e dopo essere entrato almeno in semifinale negli ultimi 11, si può anche farsene una ragione. Non se l'aspettava il presidente Andrea Agnelli, che aveva finanziato la macchina perfetta per conquistare l'Europa con un investimento di 350 milioni (ingaggi compresi) per mettere a disposizione dell'allenatore CR7, Joao Cancelo ed Emre Can e adesso si trova a dover ribadire che «la stagione è stata buona, siamo quinti nel ranking Uefa, siamo usciti a testa alta».
Per la verità, in fondo alla lezione di calcio impartita dall'Ajax nel secondo tempo (poteva finire 2-5) le orecchie strisciavano come quelle dei bassethound. A forza di uscire a testa alta, qualcuno ha sibilato che nel logo al posto della zebra potrebbe esserci una giraffa. Sta di fatto che il presidente è rimasto pietrificato esattamente come la Borsa, che ieri mattina ha subito sentenziato -25% sul titolo, sospeso per eccesso di ribasso per poi rientrare con numeri meno disastrosi. La notte infernale è costata 45 milioni in titoli bruciati e in mancati guadagni, che vanno ad aggiungersi agli investimenti per ora infruttuosi, per un totale stimato da Bloomberg in 400 milioni di euro. L'unico juventino ad azzeccare un pronostico nell'ultimo mese è stato il direttore finanziario Marco Re quando ha annunciato che il primo bilancio dell'era CR7 sarà in rosso.
La frenata è stata violenta, la parola più immediata di fronte ai numeri e ai volti dei tifosi è fallimento. Ma la Juventus ha mezzi, solidità, potere per ripartire subito. Ora bisognerà capire se ha anche un allenatore. Nell'immediato, Agnelli ha compiuto un gesto saggio e ha confermato Max Allegri. Ma oggi nessuno a Torino, tranne lui, è convinto che il tecnico sia l'uomo ideale per affrontare una ristrutturazione nei giocatori (la difesa dei senatori ha un'età media di 32 anni e Rugani è inaffidabile, Paulo Dybala uno straccio, Miralem Pjanic invecchiato, Federico Bernardeschi una riserva di lusso) e soprattutto nel gioco. Perché a perdere contro gli olandesi volanti, a farsi schiacciare ad Amsterdam e a farsi annichilire allo Stadium è stato innanzitutto l'allenatore.
A forza di ripetere «l'unica cosa che conta è vincere», Allegri si è avvitato su se stesso e si è dimenticato di dare un minimo di gioco alla squadra. Niente di scientifico, solo quel salvagente al quale ti aggrappi quando gli avversari sembrano 13 e tu sei in riserva. In Italia non succede mai, qui la Juventus passeggia a meno che non schieri la Primavera, ma all'estero la musica cambia. Gli schemi non sono tutto ma servono anche a valorizzare i tuoi giocatori; è assurdo non averne studiato uno neppure per lanciare a rete Ronaldo, cercato solo con i cross neanche fosse un Maurito Icardi qualunque. Una filosofia tattica serve soprattutto se dall'altra parte hai una dozzina di ragazzini scatenati, che corrono a doppia velocità e giocano a memoria da quando andavano alle elementari.
Il vivaio, questo giardino segreto che l'Ajax coltiva da mezzo secolo, ha eliminato i Ronaldo boys. Uno smacco moltiplicato dalla considerazione che De Ligt, De Jong e Van de Beek sono costati meno dell'ingaggio di Mattia De Sciglio e oggi valgono 200 milioni in tre. Allegri ha tempo di riflettere per ripartire con le idee chiare e magari con un Dybala più coinvolto nel progetto. A sorpresa, nell'anno della possibile consacrazione, l'argentino è diventato impalpabile, soprammobile, riserva. Forse non c'è più neppure la voglia di ripartire con lui. Ma ripartire si deve, se non lo fa la Juventus non lo fa nessuno. Anche se la legnata è stata dura. E la maledizione del perfido «Fino al confine» si è rivelata più inossidabile del miglior giocatore del mondo.
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Riduci
Dalla rivoluzione di Johan Cruijff al tiki taka, fino ai ragazzi terribili di Erik Ten Hag: la scuola olandese vive il suo ennesimo trionfo.Dopo l'uscita dalla coppa, il titolo bianconero lascia sul terreno della Borsa fino al 25%. Tante le incognite tecniche sul futuro: dalla conferma di Massimiliano Allegri all'investimento su Cr7.Lo speciale contiene due articoli.Però, la Juve. Però, nel primo tempo. Però, se ci fosse stato Douglas Costa. Il giorno dopo è ancora più difficile arrendersi all'evidenza. Le attenuanti rimontano. E il disagio serpeggiante allo Stadium, la scimmia di un'inferiorità conclamata, scolora nel ci rifaremo. È stata una lezione di calcio. Fine delle trasmissioni. E dei sogni di gloria. Una partita che se fosse finita 1-5 non ci sarebbe stato nulla da dire. La Champions League bianconera continuerà, almeno per un altro anno, a essere un'ossessione. C'è già chi vaticina la fine di un'epoca. Però, oggi, non è della débâcle juventina che si vuol parlare - quella è materia della sterminata galleria di meme sul Web - ma di calcio e dell'Ajax, una squadra che ci ha riconciliato con la bellezza di questo sport. E che, perciò, suscita un'appartenenza estetica. Una squadra che esprime spensieratezza, leggerezza, umile spavalderia, se si può dire con un ossimoro. E che, con applicazione e rigore tattico assoluti, ha annichilito un avversario ben più ambizioso e potente. Il terzo, dopo Bayern Monaco e Real Madrid. Insomma, i soldi non sono tutto, nemmeno nel calcio.L'evidenza maggiore dell'altra sera è un'abissale differenza di cultura, tra due filosofie diametralmente opposte. Perciò, anche tra i teorici, gli addetti ai lavori, gli opinionisti più o meno fiancheggiatori, ci sono perdenti e vincenti. Da una parte una squadra impostata sull'estro dei campioni e sul cinismo speculativo delle situazioni, dall'altra un gioiello tecnico e tattico con un'idea precisa in testa e nelle gambe: attaccare e vincere divertendosi e divertendo. Sprazzi di calcio totale. Furia controllata. Ruoli fluidi, movimenti sincronizzati, passaggi rapidi e millimetrici da sembrare intarsiati con il bisturi. Applicazione, disciplina, corsa. Una squadra con quattro giocatori d'attacco (Dusan Tadic, David Neres, Hakim Ziyec e Donny van de Beek), che non va mai o quasi mai in affanno in difesa.Torna alla mente l'Ajax di Rinus Michels degli anni Settanta. E l'Olanda di quel periodo, ribattezzata Arancia meccanica per il colore della maglia e la sincronia del gioco. A proposito di passaggi: nella prima azione della finale mondiale del 1974 ne fece 17 consecutivi senza far toccar palla alla Germania, squadra del Paese ospitante, fino all'ingresso in area di Johan Cruijff che costrinse al fallo Uli Hoeness, attuale presidente del Bayern Monaco, determinando il rigore, poi trasformato da Johan Neeskens. Quella partita fu poi vinta dalla Germania. Come quattro anni dopo fu l'Argentina, anch'essa paese ospitante, a togliere all'Olanda, con un arbitraggio molto discusso dell'italiano Sergio Gonella, la soddisfazione del gradino più alto. Quell'Ajax è stato la matrice di tante versioni aggiornate e corrette di un calcio offensivo e qualitativo. Poi rivisto nel Barcellona allenato dallo stesso Cruijff, nel Milan di Arrigo Sacchi, nel Napoli di Maurizio Sarri, nelle squadre di Pep Guardiola, inventore del famigerato tiki taka. Rivedendo la compagine diretta da Erik ten Hag, non a caso vice allenatore del Bayern di Guardiola, quel sistema e quella mentalità sono tornati di stretta attualità. E lo saranno ancora prossimamente, con il Manchester City di Pep. Visto così anche il calcio sembra cultura, storia di conoscenze che si tramandano, di maestri che trasmettono a chi ha voglia d'imparare e di provarci. Da Michels a Cruijff, da Guardiola a Ten Hag. Non è affascinante? Non è diverso dalla mentalità tutta malizia e furtività che vediamo praticata ogni domenica nei nostri campi di gioco? Spiace solo che, per impostazione societaria, a fine stagione l'Ajax venderà i suoi gioielli. Frenkie de Jong è già del Barcellona - a proposito - e Matthijs de Ligt è pure lui sul mercato, probabilmente con la medesima destinazione. E, dunque, bisognerà ricominciare da capo, sempre dalla solita matrice.Ieri, nel day after dello Stadium, ci si continuava ad arrampicare sui ghiacciai cercando di capacitarsi. Ha scritto cerchiobottisticamente Mario Sconcerti sul Corriere della Sera: «L'Ajax gioca meglio della Juventus, non è migliore in assoluto, ma è più moderno… Non c'è stata astuzia nell'Ajax… ha solo e sempre giocato a calcio. Era quasi chiaro dovesse finire così, credo lo sapesse anche Allegri, anche l'ultimo dei giornalisti, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo», ha osservato Sconcerti. Alt, qualcuno sì: Maurizio Pistocchi, in un'intervista alla Verità. «E poi, in fondo, perché dirlo?», si è chiesto ancora l'editorialista più gettonato del bigoncio. Per un solo motivo, caro Sconcerti: per amore dello sport. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quei-profeti-del-calcio-giovani-e-incoscienti-lajax-divulga-il-verbo-del-match-perfetto-2634912833.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-naufragio-della-juventus-e-anche-economico-persi-400-milioni-in-una-sera" data-post-id="2634912833" data-published-at="1765492372" data-use-pagination="False"> Il naufragio della Juventus è anche economico. Persi 400 milioni in una sera Mai finita così in fretta, mai finita così male. La stagione della corazzata del calcio italiano si conclude fra le malinconie di aprile, sabato sera allo Stadium contro la Fiorentina. A meno di terremoti sportivi sarà festa per l'ottavo scudetto consecutivo, prezioso e scontato come l'arrivo dei primi temporali o la frase di Matteo Renzi: «Noi eravamo più bravi». Una bicchierata e via, al di là delle celebrazioni televisive e della statistica, perché il cuore e la mente sono rimasti lì, al 67' di una sera da cani, mentre Matthijs de Ligt colpiva di testa fra due bianconeri imbambolati (Daniele Rugani e Alex Sandro) il pallone della vita o almeno quello della Champions. Fine delle trasmissioni perché, andata anche la Tim Cup, la Juventus prova la vissuta sensazione delle rivali milanesi negli anni bui: tirare a campare fino alle ferie. Non se l'aspettava nessuno, men che meno Cristiano Ronaldo che era arrivato in elicottero a luglio per vincere la coppa dalle grandi orecchie e ieri mattina faceva shopping in centro a Torino a bordo della lussuosa Rolls Royce. Per lui, evidentemente senza parole dopo la batosta, ha parlato mamma Dolores: «È triste, mi ha detto che non può fare miracoli. Sarà per la prossima volta, la vita continua». A 34 anni e dopo essere entrato almeno in semifinale negli ultimi 11, si può anche farsene una ragione. Non se l'aspettava il presidente Andrea Agnelli, che aveva finanziato la macchina perfetta per conquistare l'Europa con un investimento di 350 milioni (ingaggi compresi) per mettere a disposizione dell'allenatore CR7, Joao Cancelo ed Emre Can e adesso si trova a dover ribadire che «la stagione è stata buona, siamo quinti nel ranking Uefa, siamo usciti a testa alta». Per la verità, in fondo alla lezione di calcio impartita dall'Ajax nel secondo tempo (poteva finire 2-5) le orecchie strisciavano come quelle dei bassethound. A forza di uscire a testa alta, qualcuno ha sibilato che nel logo al posto della zebra potrebbe esserci una giraffa. Sta di fatto che il presidente è rimasto pietrificato esattamente come la Borsa, che ieri mattina ha subito sentenziato -25% sul titolo, sospeso per eccesso di ribasso per poi rientrare con numeri meno disastrosi. La notte infernale è costata 45 milioni in titoli bruciati e in mancati guadagni, che vanno ad aggiungersi agli investimenti per ora infruttuosi, per un totale stimato da Bloomberg in 400 milioni di euro. L'unico juventino ad azzeccare un pronostico nell'ultimo mese è stato il direttore finanziario Marco Re quando ha annunciato che il primo bilancio dell'era CR7 sarà in rosso. La frenata è stata violenta, la parola più immediata di fronte ai numeri e ai volti dei tifosi è fallimento. Ma la Juventus ha mezzi, solidità, potere per ripartire subito. Ora bisognerà capire se ha anche un allenatore. Nell'immediato, Agnelli ha compiuto un gesto saggio e ha confermato Max Allegri. Ma oggi nessuno a Torino, tranne lui, è convinto che il tecnico sia l'uomo ideale per affrontare una ristrutturazione nei giocatori (la difesa dei senatori ha un'età media di 32 anni e Rugani è inaffidabile, Paulo Dybala uno straccio, Miralem Pjanic invecchiato, Federico Bernardeschi una riserva di lusso) e soprattutto nel gioco. Perché a perdere contro gli olandesi volanti, a farsi schiacciare ad Amsterdam e a farsi annichilire allo Stadium è stato innanzitutto l'allenatore. A forza di ripetere «l'unica cosa che conta è vincere», Allegri si è avvitato su se stesso e si è dimenticato di dare un minimo di gioco alla squadra. Niente di scientifico, solo quel salvagente al quale ti aggrappi quando gli avversari sembrano 13 e tu sei in riserva. In Italia non succede mai, qui la Juventus passeggia a meno che non schieri la Primavera, ma all'estero la musica cambia. Gli schemi non sono tutto ma servono anche a valorizzare i tuoi giocatori; è assurdo non averne studiato uno neppure per lanciare a rete Ronaldo, cercato solo con i cross neanche fosse un Maurito Icardi qualunque. Una filosofia tattica serve soprattutto se dall'altra parte hai una dozzina di ragazzini scatenati, che corrono a doppia velocità e giocano a memoria da quando andavano alle elementari. Il vivaio, questo giardino segreto che l'Ajax coltiva da mezzo secolo, ha eliminato i Ronaldo boys. Uno smacco moltiplicato dalla considerazione che De Ligt, De Jong e Van de Beek sono costati meno dell'ingaggio di Mattia De Sciglio e oggi valgono 200 milioni in tre. Allegri ha tempo di riflettere per ripartire con le idee chiare e magari con un Dybala più coinvolto nel progetto. A sorpresa, nell'anno della possibile consacrazione, l'argentino è diventato impalpabile, soprammobile, riserva. Forse non c'è più neppure la voglia di ripartire con lui. Ma ripartire si deve, se non lo fa la Juventus non lo fa nessuno. Anche se la legnata è stata dura. E la maledizione del perfido «Fino al confine» si è rivelata più inossidabile del miglior giocatore del mondo.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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