2022-03-14
Quei medici senza Speranza
Decimati dai pensionamenti, gravati dalla burocrazia legata al Covid, demotivati dalle crescenti proteste dei pazienti, i camici bianchi di famiglia sono l’ultimo anello debole della sanità italiana. Il calo del loro numero era stato previsto già 10 anni fa, ma le risorse per la formazione sono state dirottate altrove. Ora il ministro si è inventato le Case della comunità e gli studi aperti 24 ore: misure che rischiano di trasformarsi nell’ennesimo fallimento.Il presidente Fnomceo Filippo Anelli,: «Con la pandemia alcune carenze sono state colmate ma ancora non si guarda avanti La riforma introduce contenitori vuoti. Le Regioni risparmiano sul personale per fare quadrare i loro bilanci»Lo speciale contiene due articoliLa pandemia ha fatto esplodere tutti i mali del nostro sistema sanitario. Terapie intensive intasate, reparti sotto organico, pronto soccorsi pieni, macchinari e scorte inadeguati. Una crisi profonda colpisce anche i medici di medicina generale. Nella prima fase della pandemia sono rimasti senza protezioni, con qualche mascherina polverosa nell’armadio avanzata dai tempi dalla Sars. Si è cominciato a parlare dell’importanza della «medicina del territorio», ma sono rimaste parole vuole. Nella seconda fase, agli occhi dei pazienti, questa classe di camici bianchi è sembrata inghiottita dal Covid. I tamponi sono passati alle farmacie mentre per la campagna vaccinale sono stati impiegati soprattutto i grandi hub. In teoria, i medici di famiglia sembravano sgravati di molti compiti. E la gente si chiedeva cosa avessero tanto da fare, visto che spesso risultavano irraggiungibili. Il fatto è che la maggior parte del loro tempo è stata assorbita quasi completamente da adempimenti burocratici: controlli sulle quarantene, prenotazione dei tamponi molecolari, trasmissione di dati alle aziende sanitarie, attivazione e disattivazione dei green pass. Più le urgenze. Più le altre malattie di stagione. Più la vaccinazione antinfluenzale. Più la cura dei sempre più numerosi malati cronici (ipertesi, diabetici, cardiopatici, eccetera). Poco il tempo per le altre patologie. Pochissimo il tempo per rispondere a tutti. E un generale scoramento per vedersi trasformati in passacarte. E via con la retorica facile dei medici di famiglia che guadagnano tanto e fanno poco, delle loro 15 ore settimanali obbligatorie, della formazione lasciata in mano ai sindacati. La realtà è molto più complessa. La questione fondamentale è che il numero dei medici di famiglia è insufficiente.Almeno un milione e mezzo di italiani sono senza medico di base e moltissimi sono costretti ad appoggiarsi a medici che hanno già raggiunto il massimale di assistiti, che teoricamente sarebbe 1.500. Secondo l’Accordo collettivo nazionale, che viene firmato ogni tre anni per regolare i rapporti con i medici di medicina generale, le regioni sono incaricate della sanità territoriale e dei medici di famiglia. Questi ultimi non sono dipendenti, ma liberi professionisti che però svolgono funzioni ritenute fondamentali, alcune delle quali infatti rientrano nei cosiddetti Lea (livelli essenziali di assistenza). L’Italia dà al cittadino il diritto di avere un’assistenza sanitaria di base, ma il sistema sanitario non lo fa attraverso i propri dipendenti, ma assegnando questo servizio a professionisti esterni che sono appunto i medici di medicina generale, con cui si stipula un accordo.La carenza di medici è un’emergenza che attanaglia tutta Italia da molti anni. Nel secondo dopoguerra furono sempre più numerosi i giovani che scelsero gli studi in medicina e un numero altissimo di medici si laureò, saturando la domanda presente a fine degli anni ottanta. Da allora, viceversa, le assunzioni sono avvenute con una sorta di imbuto, perché il numero di laureati era superiore a quello messo a disposizione dalle strutture sanitarie, così che molti non trovavano collocazione lavorativa né sul territorio né in ospedale. I ripetuti tagli alla sanità hanno ridotto anche i posti di medicina generale sui territori. La pandemia ha aperto gli occhi a tutti e l’anno scorso sono state date talmente tante borse di specialità da inglobare quasi tutti i laureati. Ora però si presenta una nuova emergenza, che è legata all’età dei medici. La Fimmg, la federazione italiana dei medici di medicina generale, calcola che entro il 2030 saranno 35.000 i camici bianchi che lasceranno la professione. È sempre un problema lavorare sotto organico, ma mentre nei reparti ospedalieri, in cui pure il carico di lavoro aumenta, si lavora comunque in team, è estremamente più complesso lavorare sotto organico per i medici di famiglia. In più, il numero di assistiti è in aumento poiché si aggiungono i pazienti di chi è andato in pensione.Emergenza imprevedibile? Tutt’altro. La Fondazione Enpam, che garantisce la previdenza e l’assistenza per i medici, denuncia questa situazione da oltre 10 anni. Già nel 2013 l’analisi dei dati sui pensionamenti degli anni a venire dimostravano che in 7-15 anni tra il 25 e il 50% dei medici di famiglia operanti sarebbero andati in pensione rendendo necessario l’ingresso di 30.000 nuovi medici. Si sapeva da tempo che sarebbe scoppiata la bomba demografica. Ma il conto alla rovescia ha subito un’accelerazione con l’epidemia di Covid. Tanti medici di famiglia sono dovuti andare in pensione prima del previsto per evitare il peggio e molti altri sono tragicamente morti per aver contratto il virus. L’analisi economica delle delibere Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di finanziamento per la formazione dei medici dal 1989 al 2013 è indicativa per capire le scelte - consapevoli o no - che sono state attuate dalle Regioni. In 24 anni per la formazione dei medici di famiglia sono state messe a disposizione borse di specializzazione per il valore di 671.310.853,66 euro, meno di quanto erogato alle stesse Regioni per il concorso aggiuntivo al finanziamento per le Scuole di specializzazione riguardanti le altre categorie mediche di sole quattro annualità. Tra il 2008 e il 2011 l’investimento è stato infatti di 692.040.000 euro.Le Regioni non hanno voluto investire nella medicina generale. Per far quadrare i bilanci da qualche parte è necessario tagliare o decidere di non investire e questo è il risultato. Formare un maggior numero di professionisti avrebbe significato investimenti per migliaia e migliaia di euro e si è preferito evitare, pur consapevoli dell’insufficiente ricambio generazionale. Le soluzioni che si prospettano sono tre e sembrano tutte sbagliate. O vengono tenuti in attività medici con più di 70 anni, o si aumenta il massimale dei pazienti peggiorando la qualità del servizio, o si chiamano medici non ancora formati. Ora il ministro Roberto Speranza ha presentato la sua riforma: più ore negli studi a ricevere pazienti e 2.564 Case della comunità aperte 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con specialisti, infermieri e macchinari per ecografie, analisi del sangue, elettrocardiogrammi, spirometrie e altro. Tutte strutture nuove di zecca, da costruire da zero, con 7 miliardi destinati dal Pnrr all’assistenza domiciliare. Quanto tempo ci vorrà per mettere tutto a regime? Sembra l’ennesima riforma destinata ad arenarsi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quei-medici-senza-speranza-2656948909.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-programmazione-non-e-esistita-e-tra-qualche-anno-saremo-da-capo" data-post-id="2656948909" data-published-at="1647213691" data-use-pagination="False"> «La programmazione non è esistita e tra qualche anno saremo da capo» «Quello che stiamo vedendo oggi è frutto delle scellerate scelte fatte nel passato». Così sentenzia il dottor Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo). Dal 2018 la federazione che lei presiede denuncia la situazione dei medici che sarebbero andati in pensione e dei relativi vuoti nell’assistenza. Chi si sarebbe dovuto muovere? «La programmazione è compito delle Regioni. Le Regioni comunicano ogni anno al ministero della Salute il fabbisogno dei professionisti, frutto di un’istruttoria che gli enti locali devono svolgere per verificare quante persone sono presenti e quanti medici andranno in pensione». È un calcolo complesso? «Deve tenere conto dei pensionamenti e del numero di medici in formazione specialistica. Poiché il corso di formazione specifica è triennale, bisognerà considerare il triennio. E in aggiunta almeno altri due anni prima che le graduatorie regionali siano realmente efficaci per consentire l’inserimento e la distribuzione degli incarichi. Se la programmazione non è precisa, poi ovviamente succede quello che tutti quanti stiamo verificando». Per esempio? «Ne faccio soltanto uno. La Lombardia fino a qualche anno fa dichiarava un fabbisogno di medici di medicina generale sostanzialmente simile a quello della Puglia, avendo invece il doppio della popolazione. È sicuro che in questo sistema qualcosa non abbia funzionato». Le misure che sta prendendo il governo con l’investimento del Pnrr nella medicina generale e con l’istituzione delle Case di comunità saranno utili? «Le Case di comunità rappresentano oggi soltanto degli involucri, delle strutture murarie. Resta inalterato il fabbisogno dei professionisti che dovrebbe attestarsi in 1 medico ogni 1.000/1.300 assistiti. L’attuale programmazione era stata fatta sul rapporto ottimale di 1 medico ogni 1.000 cittadini, ma il rapporto è cambiato con lo spostarsi della curva pensionistica». Oggi a che livello siamo? «Abbiamo un rapporto attorno a 1 medico ogni 1.250 assistiti, con alcune Regioni che lo hanno portato fino a 1.500. Gli interventi del governo hanno oggettivamente svuotato quell’imbuto formativo che è stato da noi evidenziato, quindi quest’anno il numero dei medici professionisti disponibili a partecipare alle prossime turnazioni e che hanno effettuato il concorso è quasi pari al numero di borse messe a concorso. Anche in questa fase, oltre alle 17.500 borse, sono state rese disponibili circa 4.000 borse per la medicina generale che hanno esaurito l’imbuto e quindi la disponibilità dei medici a partecipare». È possibile che dando così tante borse di specializzazione fra qualche anno si crei il processo inverso, ovvero che il numero dei medici diventi addirittura eccessivo? «Sì, il rischio c’è. Per questo noi chiediamo che sia svolta una migliore programmazione. Abbiamo due strade: la prima è quella della specialistica su cui bisognerebbe fare standardizzazioni sul numero di professionisti in ragione dei posti letto, degli ospedali, dei servizi attivi e di quelli che si vogliono attivare. In medicina generale bisogna definire il rapporto ottimale tra numero di pazienti e medici. Poi è necessario definire come poter consentire più agevolmente ai diplomati e ai medici di medicina generale di entrare realisticamente nel mondo del lavoro, snellendo la burocrazia e le lunghe attese». Perché negli anni scorsi sono state stanziate così poche borse rispetto a quelle per specializzare gli altri medici? «Direi che questa scelta è frutto di una cultura che ha considerato la salute unicamente un costo e questa cultura ha determinato tagli pesanti sulle professioni. L’oggi è frutto di quelle scelte sciagurate fatte nel passato che hanno portato a un blocco, per esempio, delle assunzioni negli ospedali o a un fondo previsto per l’assunzione del personale fermo al 2004. Questo è ancora vigente anche se è stato leggermente modificato». E sulla medicina generale? «Qui più si risparmiava in termini di personale, più le Regioni facevano quadrare i loro bilanci. Le Regioni non hanno mai finanziato i fondi per poter assumere il personale amministrativo e il personale di studio, lasciando praticamente in percentuali risibili i fondi che avrebbero consentito l’assunzione di questo tipo di personale, che sarebbe stato indispensabile nella gestione della pandemia. I medici si sono trovati da soli a svolgere mansioni che avrebbero richiesto le competenze di altre professioni, nel bel mezzo di una emergenza di masse e perfino in una situazione di carenza. Hanno svolto un carico di lavoro immenso durante questi due anni. Ma per loro il tempo in cui venivano acclamati come eroi sembra già appartenere al passato».