2018-07-15
Quattro valide ragioni per tifare Croazia e arrostire i galletti
Se vincerà la Francia dovremo sorbirci l'esultanza di Emmanuel Macron e il coro di elogi dei giornaloni nostrani.Luka Modric non è stato un migrante. Nikola Kalinic da psichiatra. Il talento scappò dalla guerra a 6 anni, poi però è tornato a casa sua. Ma per Repubblica è un simbolo. Che pena il milanista... Eden Hazard. Imprendibile, geniale, costante. Il capitano del Belgio ha disputato un mondiale strepitoso, chiuso con 3 gol e il bronzo. Maurizio Sarri l'aspetta a Londra, a meno che il Real...Lo speciale contiene tre articoli.Mosca, ore 17, Luzhniki Stadium. Aggiungete 90 minuti, più cinque di recupero, più eventuali supplementari e rigori: al massimo verso le 19.30 italiane, forse molto prima, sapremo il nome della nazionale campione del mondo di calcio. Come si dice in questi casi, vinca il migliore: ma se per caso risulterà migliore la Croazia, saremo tutti più tranquilli. Qui non si vuole certo istigare al tifo contro la Francia, che peraltro (prima gufata) parte favoritissima: squadra obiettivamente molto forte, un Mbappé sontuoso, e soprattutto un cammino meno faticoso di quello dei croati, che escono da una serie di spossanti match conclusi solo ai supplementari. Insomma, Francia lanciatissima verso il titolo (seconda gufata). Starei per dire che, a meno di una clamorosa sorpresa, legata al talento di Modric e alla tenacia di Mandzukic, la Francia ha già le mani sulla coppa del mondo (terza gufata).Compiuti i doverosi riti scaramantici e apotropaici, ragioniamo freddamente sulle ragioni per cui una vittoria francese sarebbe una notevole scocciatura. Primo: già stasera, in diretta, l'esultanza di Macron in tribuna, non sappiamo se accompagnato dall'immancabile Brigitte, sarebbe uno spettacolo per stomaci forti. Diciamocelo francamente: conoscendo abitudini e attitudini dell'inquilino dell'Eliseo, in pochi minuti sarebbe capace di sollevare lui la coppa, togliendola dalle mani del capitano della squadra, il portiere Lloris. Non senza aver prima sorriso a 32 denti in tribuna autorità, e fatto gesti da ganassa (ganassa chic, si capisce) in favore di telecamera.Secondo: partirebbe dal mattino successivo, sui giornaloni italiani, il coretto a cappella degli editorialisti per cantare la canzoncina multiculturale e multietnica, accompagnata da inevitabili commenti (già scritti: sono sul tavolo di una decina di direttori, che aspettano solo di sapere se cestinarli o pubblicarli, in base al risultato della partita di stasera) tra la Croazia «nazionalista e sovranista» e la Francia «multi-qua e multi-là». In tutta questa melassa preconfezionata, non aspettatevi però una sola osservazione, un solo «piccolo dettaglio»: in questo trionfo di accoglienza, in questo meraviglioso mix di colori e storie, provate a fare un confronto tra la formazione della nazionale di calcio francese e la squadra di governo. Nel governo Macron-Philippe trovate una sola ministra di colore, non a caso al marginale dicastero dello Sport: la bravissima ex schermitrice, già medaglia d'oro olimpica, Laura Flessel. Appena una su 18 ministri, e per giunta allo sport. Se invece prendete la nazionale di calcio, nella semifinale con il Belgio, sui tredici giocatori schierati dal ct Deschamps (gli undici di partenza, più i due subentrati in gara), ben otto sono di colore. Otto su 13. Nessuna conclusione, nessun commento: solo un'evidenza numerica - diciamo così - sul diverso ritmo con cui procede l'integrazione multietnica, velocissima nello sport e lentissima (quasi impercettibile) quando si tratta del potere vero. Terzo: tornerebbero in auge, qui da noi, i «macronisti italici». Una specie animale particolarissima, a pelo corto e a pelo lungo, in espansione rapidissima al momento della vittoria elettorale di Macron (in un tripudio di Inni alla gioia e bandiere europee), e poi improvvisamente sparita al limite dell'estinzione negli ultimi tempi, quando è risultato chiaro a tutti che il soave Macron, sull'immigrazione, fa il fenomeno se si tratta dell'Italia, ma a casa sua schiera esercito e polizia. Meglio scomparire per un po': troppo impopolare la posizione… Ora però questi macronisti nostrani potrebbero riemergere, in pericolosa coincidenza con la data fatidica per la Francia del 14 luglio.Quarto (e ultimo, e più serio argomento): sarà bene metterselo in testa. La Francia, e in questo fa benissimo dal suo punto di vista, persegue in modo determinato e spregiudicato il proprio interesse nazionale. Ammanta tutto di retorica europeista, ma in mente ha solo i colori della propria bandiera. Vale su tutto: quando vuole fare raid economici e shopping in Italia (ma è prontissima a bloccare analoghe missioni italiane in territorio francese); quando difende gli interessi dei suoi campioni nazionali (energetici, infrastrutturali, eccetera) e delle sue banche; quando continua a coltivare disegni di influenza in Africa e nel Mediterraneo (in genere a spese dell'Italia); quando addita buchi e problemi nei conti pubblici altrui per meglio nascondere il fatto che il suo rapporto deficit/Pil veleggia pericolosamente verso il 5 per cento. È ora di accorgercene, e di non far finta di credere alla favola per cui Parigi si fa carico dei problemi degli altri e del futuro della costruzione europea. Per tutte queste ragioni, sorridendo senza cattiveria e senza malizia verso i «cugini» francesi, vale la pena di affidarsi con speranza a Modric e Mandzukic, e pure a Perisic e Brozovic, e augurarci che siano tutti in serata di grazia. Dalla loro buona vena, deriverà un pezzettino di tranquillità anche per noi. Appuntamento alle 17: gufata vivamente consigliata.Daniele Capezzone<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quattro-valide-ragioni-per-tifare-croazia-e-arrostire-i-galletti-2586725266.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="modric-non-e-stato-un-migrante-kalinic-da-psichiatra" data-post-id="2586725266" data-published-at="1761314360" data-use-pagination="False"> Modric non è stato un migrante. Kalinic da psichiatra Ci abbiamo pensato tutti: ma cosa sarebbe, oggi, calcisticamente, la vecchia Iugoslavia, con le geometrie del bosniaco Miralev Pjanic e gli affondi del serbo Serjei Milinkovic Savic accanto al motore (per niente) immobile della Croazia, Luka Modric? Una sorta di Brasile balcanico, praticamente. Del resto a Belgrado il Marakana ce l'hanno già. Si tratta, tuttavia, di una fallacia logica: la forza della nazionale con la maglia a scacchi bianchi e rossi è anche e soprattutto in quell'orgoglio, in quella sofferenza, in quella combattività di chi è cresciuto schivando i cecchini in un periodo in cui i coetanei di questa parte dell'Adriatico sperimentavano al massimo le emozioni di Beverly Hills 90210. Schegge di fierezza nazionale piantate sul dorso dell'Europa dopo l'esplosione di un'impossibile convivenza. Si sono scannati, pur di non stare più insieme, i cultori dell'impossibile dream team slavo se ne faranno una ragione. Se non altro, dopo averci ammannito la narrazione della bella Inghilterra multirazziale (nonostante Birmingham), del superbo Belgio colorato (nonostante Molenbeek) e quella, tuttora nel menù, della fantastica Francia della diversità (nonostante Seine-Saint-Denis), stavolta il gioco della strumentalizzazione avrà le polveri bagnate. O forse no, forse la creatività retorica e il cinismo politicante possono trasformare in mascotte dell'invasione persino quei volti tagliati con l'accetta, gente che ha festeggiato la qualificazione per i mondiali brasiliani con cori degli Ustascia e che sotto la doccia intona brani del cantante nazionalista Marko Perkovic Thompson, i cui concerti sono vietati in mezza Europa. Per osare l'inosabile, basta far leva sul suono delle parole. «Rifugiato», per esempio. Ha iniziato tutto Muhammad Lila, giornalista della Cnn, che in un tweet recante la foto del piccolo Modric, ha scritto: «Quando aveva 6 anni, suo nonno fu ucciso. Lui e la sua famiglia hanno vissuto da rifugiati, in una zona di guerra. È cresciuto con il suono delle granate che esplodevano. I suoi allenatori dicevano che era troppo debole e troppo timido per giocare a calcio. Oggi Luka Modric ha portato la Croazia alla sua prima finale mondiale». È il segnale, si può scatenare l'inferno: «Russia 2018, Luka Modric: dall'infanzia da rifugiato al sogno Mondiale con la Croazia», è il titolo di un video strappalacrime di Repubblica. E se l'attualizzazione non fosse chiara, l'Huffington Post è ancora più didascalico: «La storia di Modric, croato classe 1985, inizia con le stesse paura di milioni di rifugiati che oggi abbandonano i loro paesi in cerca di un futuro migliore, schiacciati fra guerre e povertà». Perché è ovvio: un bambino di 6 anni che scappa da una guerra vera e si rifugia a 40 chilometri da casa (dal villaggio natale di Zaton Obrovacki a Zara, dove fu ospitato da un ostello) deve convincerci ad aprire le porte e possibilmente dare la cittadinanza a centinaia di migliaia di nigeriani di 20 anni. Chiaro, no? Certo, c'è anche la famiglia di Mario Mandzukic rifugiata in Germania, sempre a causa della guerra, e il portiere Danijel Subasic che è per metà serbo, tutte storie su cui la stampa sta insistendo molto per costruire la narrazione dell'accoglienza, sempre con il medesimo, ineffabile senso per i nessi logici: o pensate che il fatto che il padre di Subasic fosse serbo non sia un buon motivo per diventare una provincia dell'Africa? La verità è che da quelle parti i paradisi di convivenza, progresso e fraternità li hanno già sperimentati: gli è piaciuto talmente tanto che ne sono usciti con i giardinieri che disegnano svastiche sull'erba dei campi da calcio (successe a Spalato, durante un Croazia-Italia). Sono così, genio e sregolatezza. La fantasia dei mediterranei e la cattiveria degli slavi. L'inaffidabilità di entrambi. Pensiamo solo a Nikola Kalinic, l'uomo delle sliding doors prese in faccia. Stasera, l'attaccante croato guarderà i suoi compagni dare l'assalto al cielo da seduto. Non in panchina, ché quella non la gradisce, bensì nella poltrona di casa sua. Contro la Nigeria si era rifiutato di entrare, suscitando l'ira del ct Zlatko Dalic, che lo cacciò senza tanti complimenti. Via dal ritiro, quindi. Ora i suoi colleghi rischiano di diventare campioni del mondo, per la prima volta, poi chissà quando ricapiterà. Che le scelte di vita non fossero il suo forte lo si era capito quando Kalinic aveva rotto traumaticamente con la Fiorentina per approdare al Milan dei sogni, quello che i cinesi sembravano dover riportare ai fasti di un tempo. Ma i rossoneri hanno imbroccato un'annata storta e lui di più: errori, partitacce, lite con i tifosi, lite con Rino Gattuso, tanto per cambiare. Insomma, uno che fa sempre scelte dalle conseguenze disastrose e continua a perseverare. A pensarci bene, la metafora dell'Europa aperta all'accoglienza è molto più lui che Modric. Adriano Scianca <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quattro-valide-ragioni-per-tifare-croazia-e-arrostire-i-galletti-2586725266.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-migliore-non-e-in-finale-hazard" data-post-id="2586725266" data-published-at="1761314360" data-use-pagination="False"> Il migliore non è in finale: Hazard La notizia della sua morte era francamente esagerata. Lanciata su Facebook nei giorni scorsi, ha avuto migliaia di contatti in poche ore e ha raccolto frasi di disperazione fra i tifosi belgi. Ma all'82° della penultima partita del mondiale Eden Hazard l'ha personalmente smentita: ha ricevuto palla da Kevin De Bruyne, l'ha difesa dal ritorno di un difensore inglese e l'ha scaricata con rabbia in porta. Vivo e vegeto, terzo gol nel torneo, fine del film (2-0), lutto a Piccadilly Circus e Belgio che per la prima volta sale sul podio mondiale. Per la verità la sfida era finita quattro minuti dopo l'inizio, quando Thomas Meunier aveva inflitto il primo dolore al portiere inglese, affermando due tendenze opposte: Inghilterra in preda alla depressione e all'acido lattico dopo il sogno svanito della finale e Belgio entusiasta, ancora abbastanza vitale da stampare il marchio del suo contropiede col turbo, una volta di più, in terra di Russia. Dove sono finite le ragazze? Già siamo di fronte alla partita più inutile del torneo, quella fra le sconfitte, che nella storia si definisce finalina proprio perché solo i fanatici ricordano a memoria chi è arrivato terzo o quarto. E in più notiamo la malinconica assenza delle bellezze sugli spalti. Sollecitato dagli imam della Fifa a non inquadrare signorine avvenenti per non incoraggiare il sessismo, il regista ha già messo il chador alle telecamere. Così ci fanno compagnia imbarazzanti ragionieri di Kensington travestiti da crociati (e anche qui, seguendo i deliri del politicamente corretto, qualcuno potrebbe avere da ridire) e attempati signori con il naso rosso. Sarebbe più divertente un cartone animato sovietico o il vecchio monoscopio, se in campo non ci fosse lui, il numero dieci in maglia gialla, quello con lo sguardo truce e il dribbling da ballerino del Bolscioi. Eden Hazard, il folletto, il miglior giocatore di questo mondiale. Perché se il Belgio è arrivato fin qui il merito è certamente del ct Roberto Martinez che lo ha assemblato con intelligenza, del gigantesco portiere Thibault Courtois, dell'asse verticale formato da Vincent Kompany, Kevin De Bruyne e Romelu Lukaku. Ma sulla Grand Place dovrebbero erigere un monumento equestre a lui, l'elemento di corto circuito, il diabolico artista che tocca ogni pallone e manda in porta gli altri quando non decide di andarci da solo. Colui che Roman Abramovich nel 2012 pensava essere il terzo uomo fra Leo Messi e Cristiano Ronaldo. Lo pagò 40 milioni per portarlo al Chelsea, nella speranza che maturasse subito. E invece Hazard, che oggi ha 27 anni ed è ufficialmente immarcabile, ne ha impiegati quattro a crescere, a passare dal ruolo di monello a quello di leader, a togliersi dalla biografia il nomignolo di deaf, il sordo, che ascolta solo la sua musica interiore e non i dettami tattici dell'allenatore. Brutta faccenda se i tecnici si chiamano Josè Mourinho e Antonio Conte, storie tese inevitabili negli spogliatoi. Oggi Hazard è uno straordinario direttore d'orchestra in campo, se ne sono accorti anche gli inglesi. Nello stadio di San Pietroburgo si presenta al 13° con la sua azione preferita: accelerazione centrale, devastante, un paio di avversari dribblati come birilli. Alla mezz'ora regala a Youri Telemans (21 anni, bella conferma) un pallone d'oro sfruttato male. Si ferma e riparte, rallenta e ti pianta in asso, apre a sinistra, imbuca l'assist, gioca tra le linee anche quando dorme, come piace alla nouvelle vague della critica sportiva in cerca di vampate di originalità. Gli inglesi lo fermano abbracciandolo, frustrati e senza affetto. Contro di lui e i suoi allegri compari, i britannici non ci capiscono nulla: il capocannoniere Harry Kane è un fantasma stremato (sei gol e un gioco troppo dispendioso per durare), i granatieri di difesa sono stanchi (Harry Maguire si fa notare solo sui colpi di testa), Jesse Lingard e Markus Rashford hanno voglia di vacanze, gli altri sono già su Booking.com da due giorni. Solo Eric Dier, tuttocampista del Tottenham, ha voglia di essere protagonista e per due volte sfiora il gol del pareggio. Contro il destino non si va. E il destino del mondiale che ha perso Leo Messi nei meandri delle teorie di Sigmund Freud e che ha mandato a casa Cristiano Ronaldo per manifesta inferiorità dei compagni, è legato ad Hazard. Incoronarlo prima della finale, scusate la petulanza, non è un azzardo. Perché Kylian Mbappé potrà essere un simbolo, ma a 19 anni deve ancora mangiare quintali di polenta prima di diventare numero uno. E Luka Modric, cervello elettronico inarrivabile della Croazia, è stato portato a braccia in finale dagli altri dieci guerrieri nella sfida bucata contro l'Inghilterra. Il nostro uomo è Hazard, figlio di Thierry e Carine, che giocavano a calcio e quando hanno smesso hanno fatto gli insegnanti di educazione fisica. È anche il pilastro attorno al quale Maurizio Sarri vuole costruire il nuovo Chelsea; dopo aver allenato divinamente due ragazzi che un po' gli somigliano come Lorenzo Insigne e Dries Mertens (i pregi di entrambi per farne uno), può svolgere un gran lavoro con il re del Belgio. Il problema è che proprio lui è l'obiettivo numero uno di un signore che di pallone se ne intende, Florentino Perez, alla ricerca per il suo Real Madrid di un leader al quale affidare la maglia numero sette di Cristiano Ronaldo. Secondo i giornali spagnoli l'offerta è pronta a partire: 170 milioni. Poiché il ragazzo avrebbe altri estimatori che stanno a Barcellona, in Spagna si profila un'asta bollente. Niente male per un mezzo morto. Giorgio Gandola
Silvia Salis (Imagoeconomica)
Il vicepresidente americano J.D. Vance durante la visita al Santo Sepolcro di Gerusalemme (Getty Images)
Roberto Cingolani, ad di Leonardo (Getty Images)