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2021-10-04
Quando l’ecologia inquina
iStock
Perdita di posti di lavoro, aziende costrette a chiudere schiacciate da logiche di riconversione costosissime, montagne di rifiuti tecnologici da smaltire e aumento delle esportazioni illecite di scorie. È l'altra faccia della transizione ecologica. Nessuno azzarda previsioni, ma con la fine dell'era degli idrocarburi e l'avvio del «tutto elettrico» le conseguenze non saranno solo per il bene (presunto) dell'ambiente. Ammesso poi che le ripercussioni positive siano così evidenti, considerando che il mondo non si sta muovendo con lo stesso passo. L'Europa ha preso decisioni drastiche e fissato una tabella di marcia stringente mentre l'Asia si muove lentamente e «approfitta» della sensibilità ecologista europea per continuare a inquinare come se nulla fosse.
Entro il 2025 l'Italia chiuderà le centrali a carbone ancora attive e che soddisfano ancora ogni anno tra il 5 e il 10% della domanda di energia. Saranno trasformate in impianti a ciclo combinato a gas e poi fermate entro il 2050. Il passaggio all'economia green si lascerà dietro anche una scia di aziende che non sono riuscite a riconvertirsi e lavoratori che non hanno trovato altra occupazione.
La stessa Commissione europea ammette, nei suoi documenti sulla transizione ecologica, che ci saranno ripercussioni importanti sul mercato del lavoro e impatti di natura sociale. Ma è anche ottimista e sostiene che alla fine tutto si sistemerà e che la svolta verde porterà alla creazione di nuova occupazione, più di quella che sparirà. È previsto anche un fondo, il Social climate fund, pari a circa 100 miliardi di euro l'anno a regime, alimentato dal gettito legato allo scambio di quote di emissione di CO2, che dovrebbe intervenire come una sorta di ammortizzatore sociale.
Un report di McKinsey stima al 2040 una perdita sul mercato mondiale di 800 milioni di posti di lavoro avanzati. A fronte di questa valanga di disoccupati, i 110 milioni di nuovi posti che derivano mettendo insieme le stime di diversi istituti di ricerca (i 24,3 milioni di nuovi addetti nelle rinnovabili al 2050 stimati da Stanford, i 3,9 milioni previsti dall'Ue al 2030 nell'economia circolare europea, i 18 milioni dell'Ilo e i 65 milioni stimati dal Global climate action summit per le economie low carbon) rappresentano solo il 12,5% delle perdite complessive di posti di lavoro.
Il fenomeno dell'emorragia occupazionale legata alla transizione ecologica è già in corso. Un esempio? Il nuovo stabilimento dell'industria siderurgica austriaca Voestalpine, vicino a Vienna, oggi è elettrico e per la maggior parte alimentato da energia rinnovabile, al contrario di quello precedente che si serviva del petcoke. Vi lavorano, per produrre mezzo milione di tonnellate di acciai speciali l'anno, 14 dipendenti mentre quello vecchio ne impiegava circa 1.000. Cosa è successo? Gli operai degli altiforni sono stati sostituiti dai robot. L'acciaio non dà più lavoro, come dimostra anche la crisi dell'Ilva la cui salvezza è appesa a un piano di riconversione ecologica. È l'altra faccia della transizione energetica che sta spostando le produzioni verso le rinnovabili.
La Commissione europea sostiene che alla fine si produrranno 7,7 milioni di nuovi posti, soprattutto nel settore della produzione. Ciò che preoccupa è che questo avverrà «alla fine» e comunque bisognerà capire come saranno distribuite le nuove posizioni. La loro dislocazione non sarà omogenea. Nello sfruttamento delle terre rare e nella produzione di componenti per le auto elettriche come per gli impianti fotovoltaici e i pannelli solari, la Cina e la Corea sono un passo in avanti ed è quindi probabile che la nuova occupazione si svilupperà soprattutto in questi Paesi, da dove vengono i materiali essenziali alle nuove tecnologie. «L'Europa ha voluto accelerare sul green ma attenzione a non finire fuori strada», ha osservato il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti.
Il passaggio all'auto elettrica è uno degli aspetti più delicati della transizione. Morgan Stanley stima una perdita del 30% dei posti di lavoro a livello mondiale. La produzione dei nuovi veicoli a batterie richiede la metà del tempo, molta meno manodopera e un terzo dei componenti in meno. Continental, uno dei maggiori produttori al mondo di componentistica, ha avvertito che la transizione sta procedendo a un ritmo troppo elevato e avrà un impatto da choc. C'è un altro aspetto. I motori elettrici diventano veramente green quando l'energia per muoverli sarà prodotta esclusivamente da fonti rinnovabili e non da centrali alimentate a gas, petrolio o carbone. Altrimenti gli effetti sul clima non sono rilevanti. In Europa l'industria dell'auto dà lavoro a 4 milioni di persone; in Germania gli occupati sono 800.000, in Francia 230.000 e in Italia 176.000.
Un altro volto del passaggio all'economia green è l'aumento esponenziale dei rifiuti elettronici a cui non corrisponde una eguale capacità di smaltimento. I caricabatterie smaltiti e non utilizzati rappresentano in Europa circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici ogni anno. Secondo il Global e-waste Monitor 2020, ogni anno vengono prodotti nel mondo oltre 53 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici pari a 7,3 chili a testa. L'Europa è quella che produce più rifiuti elettronici pro capite pari a 16,2 chili. Con l'economia verde i dispositivi elettronici aumenteranno e il problema dello smaltimento sarà cruciale. Il report dice anche che negli ultimi cinque anni tali rifiuti sono cresciuti del 21%. Nel 2019 ne sono stati riciclati solo 9,3 tonnellate pari al 17,4% dei prodotti generati nello stesso anno. Le previsioni per il futuro sono preoccupanti. Si stima che entro il 2030 il volume dei rifiuti non correttamente riciclati raddoppierà rispetto a quello registrato nel 2014.
Il problema dello smaltimento nella transizione verde riguarda soprattutto la plastica che rappresenta il 12% della produzione globale di rifiuti. Se ne produce ancora una quantità enorme che si fatica a eliminare. Da gennaio è entrato in vigore un emendamento della Convenzione di Basilea che dà un giro di vite all'esportazione di scarti plastici dei Paesi occidentali verso quelli poveri in Asia e Africa, consentiti solo se pretrattati in vista di un riciclo immediato. Il rischio, paventato dalla ricercatrice dell'Università Cattolica Serena Favarin, è che «siccome spostare i rifiuti plastici a livello internazionale sarà più oneroso, ci sarà un incremento delle esportazioni illegali. La soluzione è di limitare il flusso verso quei Paesi che non sono in grado di effettuare lo smaltimento e rendere meno conveniente la produzione a monte». Al momento però ci sono solo i paletti e il mercato illegale se ne avvantaggia.
E l’economia soffre: condanna a morte per il distretto auto
Il settore dell'automotive, che già esce malmesso da un anno di forte contrazione a causa della pandemia, ora deve affrontare una riconversione più veloce del previsto. Il pacchetto Fit for 55 propone di fermare la vendita di auto a diesel e a benzina nel 2030. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha detto che a farne le spese sarebbero Ferrari, Lamborghini, Maserati, Dallara e le altre case della Motor valley. Questo perché la Commissione Ue ha comunicato che anche le produzioni di nicchia dovranno adeguarsi al full electric entro il 2030. Il che vorrebbe dire, come ha rimarcato Cingolani, che stando alla tecnologia attuale il distretto dell'auto dell'Emilia Romagna dovrebbe chiudere. Nel settore delle quattro ruote il passaggio alle auto elettriche richiederà meno manodopera e componenti diversi dal passato. C'è il rischio di una emorragia di posti di lavoro. La situazione in Italia è particolarmente critica soprattutto per le aziende della componentistica concentrate in Lombardia e Piemonte. Il 54% dei 165.000 addetti lavora per piccole aziende a conduzione familiare.
«Queste non hanno la forza per affrontare gli enormi investimenti che occorrono per la riconversione e l'innovazione imposti dalla transizione ecologica», afferma il leader della Uilm, il sindacato dei metalmeccanici della Uil, Rocco Palombella. «È bastato l'annuncio che entro il 2025 non ci saranno più le auto diesel e che entro il 2030 spariranno quelle a combustione, per seminare il panico. Ci arrivano notizie che tante aziende della componentistica stanno chiudendo».
Il sindacalista sottolinea la fragilità di tali piccole realtà che, pur essendo altamente specializzate, dipendono da pochi grandi acquirenti che possono decidere di cambiare fornitori sullo scenario mondiale. «Per Stellantis, cioè l'ex Fiat da poco confluita nella Peugeot-Citroen, l'Italia è un mercato marginale che potrebbe subire certe scelte. L'auto elettrica che esce da Mirafiori è costosissima, non è per tutti i portafogli», afferma Palombella che lancia il sasso: «L'Europa ha fatto una scelta radicale accelerando la transizione ecologica, ma non ha definito le contromisure per evitare la perdita di posti di lavoro. C'è il rischio che l'Europa resti isolata mentre il resto del mondo si muove in tutt'altra direzione. E allora non solo non avremmo i benefici ambientali che tutti auspicano, ma i costi sociali del cambiamento saranno enormi».
Il sindacato non ha ancora fatto stime sulla perdita di occupazione, ma il prossimo 11 ottobre porterà il problema sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. Intanto il sindacato tedesco del settore, l'Ig Metall, sta negoziando ammortizzatori sociali e differenti contratti, prevedendo di qui al 2050 un calo degli occupati di circa il 35%. «Tutti siamo d'accordo sull'ambiente più pulito ma la transizione va governata tenendo presente l'attuale sistema industriale», puntualizza il leader dei metalmeccanici Uil. «Anche se magari quelle scadenze saranno cambiate, perché difficili da rispettare, l'effetto annuncio è stato dirompente. Già ora chi aveva intenzione di cambiare l'auto, ha rinviato l'acquisto perché vuole capire meglio dove stiamo andando».
Palombella spiega che sulla crisi dell'automotive pesa anche la carenza di semiconduttori e di microchip determinata dallo stop delle attività durante la fase acuta della pandemia. «Mentre la Tesla consegna un'auto in 15-20 giorni, in Italia bisogna attendere la prossima primavera», esemplifica. L'economia green richiede la riqualificazione di alcune professionalità e la fase di cambiamento non è mai semplice. L'Italia parte da una posizione svantaggiata. Le classifiche Ocse pongono il nostro Paese come fanalino di coda per la formazione permanente e l'aggiornamento delle competenze dei lavoratori.
«Diventeremo una biopattumiera»
Antonello Ciotti, presidente del Committee of pet manufacturers in Europe (Twitter)
«La direttiva europea sul single use plastic (Sup) rischia di far diventare la Ue e quindi anche l'Italia la pattumiera del mondo». L'allarme viene da Antonello Ciotti, presidente del Committee of pet manufacturers in Europe, l'organizzazione che rappresenta a livello europeo i produttori di pet. Questo acronimo indica un materiale plastico totalmente riciclabile, il polietilene tereftalato, utilizzato prevalentemente nella produzione di contenitori per liquidi, di cui l'Italia è ai primi posti in Europa per la raccolta (circa il 70% dell'immesso al consumo) e il riciclo.
L'Europa pattumiera del mondo? Ma allora le politiche di abolizione della plastica?
«Non è vero che meno plastica significhi maggiore sostenibilità. Questo aspetto controverso ha origine da una errata definizione della direttiva europea Sup. Questa stabilisce l'obbligo dal 2025 di inserire un 25% di rpet, cioè di plastica riciclata nelle bottiglie di plastica e dal 2030 un 30%. Questa norma sembrerebbe favorire il recupero e il riciclo di un materiale dannoso se abbandonato nell'ambiente. In realtà rischia di far aumentare le importazioni di prodotti realizzati all'estero che solo sull'etichetta hanno l'indicazione della percentuale di materiale riciclabile. Tali prodotti vengono da Paesi come Marocco, Egitto, India e Cina che li realizzano con scarsi controlli e a un costo molto basso».
Non ci sono controlli sui prodotti importati?
«È molto difficile individuare la plastica riciclata inserita nella produzione di una bottiglia perché si comporta come quella vergine. Servirebbero strumenti molto sofisticati e comunque è pressoché impossibile stabilire la percentuale di plastica riciclata nel prodotto finale. Potrebbe accadere, quindi, che per evitare eventuali controlli si vada a produrre oltre confine, in Paesi extra Ue e poi importare le bottiglie in Italia. Oppure importare direttamente materie plastiche “riciclate" senza poter avere la certezza dell'effettivo contenuto di riciclato».
Rischiamo quindi di essere sommersi da una valanga di plastica importata?
«Proprio così. Nel tentativo di essere più religiosa del Papa, l'Europa rischia di diventare la discarica del mondo. Si fa un gran parlare dell'uso di materiale riciclato ma le istituzioni europee non hanno definito che il materiale riciclato usato in Europa debba provenire dalla raccolta differenziata dei rifiuti europei. Non ha senso importare rifiuti da fuori Europa, con tutti gli impatti sulla sostenibilità, per incrementare formalmente l'uso del riciclato e migliorare la sostenibilità».
C'è un buco nella direttiva europea?
«Non so se sia qualcosa di intenzionale: la normativa è stata elaborata in fretta prima della scadenza della precedente legislatura del Parlamento europeo e quindi è molto approssimativa in più punti».
Ma questa superficialità rischia di danneggiare le industrie e l'ambiente.
«C'è un altro risvolto da considerare. Il mercato unico europeo potrebbe saltare. Ogni Paese dell'Unione deve legiferare per recepire la direttiva. E siccome le linee guida sono poco chiare, ognuno si muoverà per proprio conto rispondendo agli interessi delle industrie nazionali. Così avremo la situazione paradossale che una bottiglia di plastica potrà circolare in Italia ma non varcare il confine perché le regole sul contenuto riciclato potrebbero essere diverse. Il problema non è solo per le bottiglie: anche i piatti di plastica, di cui l'Italia era il primo produttore europeo, sono stati banditi con una perdita di circa 3.000 posti di lavoro localizzati prevalentemente nel Sud Italia».
Saranno sostituiti con prodotti ecologici?
«Niente affatto. Al loro posto vengono reclamizzati i piatti di polpa di cellulosa ricoperti con una pellicola di plastica realizzati in Cina. È uno dei casi di greenwashing, cioè quando si spacciano per ecologici prodotti che non lo sono. Un altro esempio: fino a poco tempo fa, sui treni erano fornite bottigliette di plastica che ora sono state sostituite da lattine o contenitori di cartone laminato. Un consumatore pensa di fare un favore all'ambiente; in realtà non sa che il cartone laminato è molto difficile da riciclare e le lattine richiedono un costo energetico molto alto per essere riciclate. Ma gli esempi sono molto numerosi».
«Il green disorienta i consumatori»
Fabio Iraldo, ordinario di management alla Scuola Sant'Anna di Pisa (YouTube)
«L'attenzione che il legislatore e i mercati stanno ponendo sulla transizione ecologica induce un'accelerazione nei processi di innovazione e competizione tra imprese, per cui i rischi di fare in fretta e promuovere prodotti non green cresce esponenzialmente. Le imprese fanno a gara nel proporsi al pubblico come sempre più attente all'ambiente e spesso in questa rincorsa mandano messaggi sbagliati che confondono il consumatore». Fabio Iraldo è ordinario di management alla Scuola Sant'Anna di Pisa, dove dirige il Phd in innovation, sustainability and healthcare ed è direttore del Green economy observatory alla Bocconi di Milano.
Quali sono i pericoli di una transizione ecologica accelerata nel rapporto tra aziende e consumatori?
«Molte aziende incorrono in un errore: la vaghezza e l'inconsistenza dei messaggi ambientali che trasmettono al mercato e, più in generale ai propri interlocutori. Questo, da una parte, può accrescere la diffidenza dei consumatori, sempre più maturi e meno disposti ad accontentarsi di messaggi generici di impegno verso l'ambiente; dall'altra, rischia di appiattire l'immagine aziendale rispetto a quella dei concorrenti».
Non ci sono certificazioni che attestino il grado di impatto ambientale di un prodotto?
«È questo il punto. Manca la capacità di valutare gli impatti ambientali dei prodotti per presentarli ai mercati e promuoverli con buona ragione avendo certezza che abbiano impatto ambientale inferiore rispetto allo stato attuale. Manca nelle aziende lo sforzo di promuovere i prodotti su base scientifica e aumenta il rischio di falsificazioni, di spacciare un prodotto per quello che non è. Si dice in modo generico che “fa bene all'ambiente", quando in realtà servirebbe un'analisi più approfondita. Le aziende dovrebbero dimostrare che quanto dicono è vero».
Si va verso un'economia green troppo in fretta?
«L'accelerazione della transizione ecologica comprende misure diverse, alcune sono ponderate e altre possono avere controindicazioni. L'auto elettrica, ad esempio: l'energia per le batterie, per essere davvero a scarso impatto ambientale, dovrebbe venire da fonti rinnovabili. Inoltre va ampliato il circuito di recupero delle batterie esauste».
Quindi quando si dice che un'auto elettrica ha impatto zero non è del tutto vero?
«Proprio così. Innanzitutto essa utilizza energia che non viene da fonti rinnovabili e poi è dotata di dispositivi che sono difficili da smaltire, come le batterie. Va comunque detto che, facendo un'analisi comparativa con l'auto a carburanti fossili, il veicolo elettrico è vantaggioso. Comunque, non esiste un impatto zero. Chi dice questo commette una mistificazione. La verità è che tramite una serie di interventi, con l'ottimizzazione dell'uso di materiali, si può diminuire l'impatto ambientale di un prodotto».
E l'obiettivo della carbon neutrality?
«Essa non significa eliminare il gas serra. Qualsiasi processo produttivo genera un impatto ambientale con l'emissione di CO2. Le politiche a favore della decarbonizzazione sono graduali e diminuiscono le emissioni di CO2, ma non arriveranno mai a zero. Verranno compensate dall'acquisto di crediti di emissione. Molte aziende vantano l'utilizzo di materiale riciclato per gli imballaggi anche se arrivano appena al 20% quando in molti casi si può arrivare al 100%. Molte altre vantano performance ambientali superiori ai concorrenti senza presentare dati che lo attestino, inventando prodotti autocertificati e loghi colorati di verde. C'è la tendenza di valorizzare sbrigativamente un prodotto senza preoccuparsi di farlo certificare. La moda della sostenibilità crea molta confusione nel consumatore».
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Riduci
La transizione ambientale ha un lato oscuro di cui si tace: cancella posti di lavoro, fa chiudere aziende schiacciate da costi di riconversione insostenibili, genera montagne di rifiuti non riciclabili, soprattutto plastici ed elettronici. Con il rischio di creare un enorme mercato illegale per smaltire queste scorie all'estero.Ferrari, Lamborghini, Maserati: la Motor valley è destinata a sparire se in pochi anni non si convertirà tutta all'elettrico.Il leader Ue dei produttori di pet, Antonello Ciotti: «Sommersi da materiali fabbricati non si sa come».Fabio Iraldo, esperto della Bocconi: «Serve una certificazione di qualità per i prodotti sostenibili».Lo speciale contiene quattro articoli.Perdita di posti di lavoro, aziende costrette a chiudere schiacciate da logiche di riconversione costosissime, montagne di rifiuti tecnologici da smaltire e aumento delle esportazioni illecite di scorie. È l'altra faccia della transizione ecologica. Nessuno azzarda previsioni, ma con la fine dell'era degli idrocarburi e l'avvio del «tutto elettrico» le conseguenze non saranno solo per il bene (presunto) dell'ambiente. Ammesso poi che le ripercussioni positive siano così evidenti, considerando che il mondo non si sta muovendo con lo stesso passo. L'Europa ha preso decisioni drastiche e fissato una tabella di marcia stringente mentre l'Asia si muove lentamente e «approfitta» della sensibilità ecologista europea per continuare a inquinare come se nulla fosse.Entro il 2025 l'Italia chiuderà le centrali a carbone ancora attive e che soddisfano ancora ogni anno tra il 5 e il 10% della domanda di energia. Saranno trasformate in impianti a ciclo combinato a gas e poi fermate entro il 2050. Il passaggio all'economia green si lascerà dietro anche una scia di aziende che non sono riuscite a riconvertirsi e lavoratori che non hanno trovato altra occupazione.La stessa Commissione europea ammette, nei suoi documenti sulla transizione ecologica, che ci saranno ripercussioni importanti sul mercato del lavoro e impatti di natura sociale. Ma è anche ottimista e sostiene che alla fine tutto si sistemerà e che la svolta verde porterà alla creazione di nuova occupazione, più di quella che sparirà. È previsto anche un fondo, il Social climate fund, pari a circa 100 miliardi di euro l'anno a regime, alimentato dal gettito legato allo scambio di quote di emissione di CO2, che dovrebbe intervenire come una sorta di ammortizzatore sociale. Un report di McKinsey stima al 2040 una perdita sul mercato mondiale di 800 milioni di posti di lavoro avanzati. A fronte di questa valanga di disoccupati, i 110 milioni di nuovi posti che derivano mettendo insieme le stime di diversi istituti di ricerca (i 24,3 milioni di nuovi addetti nelle rinnovabili al 2050 stimati da Stanford, i 3,9 milioni previsti dall'Ue al 2030 nell'economia circolare europea, i 18 milioni dell'Ilo e i 65 milioni stimati dal Global climate action summit per le economie low carbon) rappresentano solo il 12,5% delle perdite complessive di posti di lavoro. Il fenomeno dell'emorragia occupazionale legata alla transizione ecologica è già in corso. Un esempio? Il nuovo stabilimento dell'industria siderurgica austriaca Voestalpine, vicino a Vienna, oggi è elettrico e per la maggior parte alimentato da energia rinnovabile, al contrario di quello precedente che si serviva del petcoke. Vi lavorano, per produrre mezzo milione di tonnellate di acciai speciali l'anno, 14 dipendenti mentre quello vecchio ne impiegava circa 1.000. Cosa è successo? Gli operai degli altiforni sono stati sostituiti dai robot. L'acciaio non dà più lavoro, come dimostra anche la crisi dell'Ilva la cui salvezza è appesa a un piano di riconversione ecologica. È l'altra faccia della transizione energetica che sta spostando le produzioni verso le rinnovabili.La Commissione europea sostiene che alla fine si produrranno 7,7 milioni di nuovi posti, soprattutto nel settore della produzione. Ciò che preoccupa è che questo avverrà «alla fine» e comunque bisognerà capire come saranno distribuite le nuove posizioni. La loro dislocazione non sarà omogenea. Nello sfruttamento delle terre rare e nella produzione di componenti per le auto elettriche come per gli impianti fotovoltaici e i pannelli solari, la Cina e la Corea sono un passo in avanti ed è quindi probabile che la nuova occupazione si svilupperà soprattutto in questi Paesi, da dove vengono i materiali essenziali alle nuove tecnologie. «L'Europa ha voluto accelerare sul green ma attenzione a non finire fuori strada», ha osservato il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti.Il passaggio all'auto elettrica è uno degli aspetti più delicati della transizione. Morgan Stanley stima una perdita del 30% dei posti di lavoro a livello mondiale. La produzione dei nuovi veicoli a batterie richiede la metà del tempo, molta meno manodopera e un terzo dei componenti in meno. Continental, uno dei maggiori produttori al mondo di componentistica, ha avvertito che la transizione sta procedendo a un ritmo troppo elevato e avrà un impatto da choc. C'è un altro aspetto. I motori elettrici diventano veramente green quando l'energia per muoverli sarà prodotta esclusivamente da fonti rinnovabili e non da centrali alimentate a gas, petrolio o carbone. Altrimenti gli effetti sul clima non sono rilevanti. In Europa l'industria dell'auto dà lavoro a 4 milioni di persone; in Germania gli occupati sono 800.000, in Francia 230.000 e in Italia 176.000. Un altro volto del passaggio all'economia green è l'aumento esponenziale dei rifiuti elettronici a cui non corrisponde una eguale capacità di smaltimento. I caricabatterie smaltiti e non utilizzati rappresentano in Europa circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici ogni anno. Secondo il Global e-waste Monitor 2020, ogni anno vengono prodotti nel mondo oltre 53 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici pari a 7,3 chili a testa. L'Europa è quella che produce più rifiuti elettronici pro capite pari a 16,2 chili. Con l'economia verde i dispositivi elettronici aumenteranno e il problema dello smaltimento sarà cruciale. Il report dice anche che negli ultimi cinque anni tali rifiuti sono cresciuti del 21%. Nel 2019 ne sono stati riciclati solo 9,3 tonnellate pari al 17,4% dei prodotti generati nello stesso anno. Le previsioni per il futuro sono preoccupanti. Si stima che entro il 2030 il volume dei rifiuti non correttamente riciclati raddoppierà rispetto a quello registrato nel 2014.Il problema dello smaltimento nella transizione verde riguarda soprattutto la plastica che rappresenta il 12% della produzione globale di rifiuti. Se ne produce ancora una quantità enorme che si fatica a eliminare. Da gennaio è entrato in vigore un emendamento della Convenzione di Basilea che dà un giro di vite all'esportazione di scarti plastici dei Paesi occidentali verso quelli poveri in Asia e Africa, consentiti solo se pretrattati in vista di un riciclo immediato. Il rischio, paventato dalla ricercatrice dell'Università Cattolica Serena Favarin, è che «siccome spostare i rifiuti plastici a livello internazionale sarà più oneroso, ci sarà un incremento delle esportazioni illegali. La soluzione è di limitare il flusso verso quei Paesi che non sono in grado di effettuare lo smaltimento e rendere meno conveniente la produzione a monte». Al momento però ci sono solo i paletti e il mercato illegale se ne avvantaggia. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quando-ecologia-inquina-2655217843.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-leconomia-soffre-condanna-a-morte-per-il-distretto-auto" data-post-id="2655217843" data-published-at="1633350593" data-use-pagination="False"> E l’economia soffre: condanna a morte per il distretto auto Il settore dell'automotive, che già esce malmesso da un anno di forte contrazione a causa della pandemia, ora deve affrontare una riconversione più veloce del previsto. Il pacchetto Fit for 55 propone di fermare la vendita di auto a diesel e a benzina nel 2030. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha detto che a farne le spese sarebbero Ferrari, Lamborghini, Maserati, Dallara e le altre case della Motor valley. Questo perché la Commissione Ue ha comunicato che anche le produzioni di nicchia dovranno adeguarsi al full electric entro il 2030. Il che vorrebbe dire, come ha rimarcato Cingolani, che stando alla tecnologia attuale il distretto dell'auto dell'Emilia Romagna dovrebbe chiudere. Nel settore delle quattro ruote il passaggio alle auto elettriche richiederà meno manodopera e componenti diversi dal passato. C'è il rischio di una emorragia di posti di lavoro. La situazione in Italia è particolarmente critica soprattutto per le aziende della componentistica concentrate in Lombardia e Piemonte. Il 54% dei 165.000 addetti lavora per piccole aziende a conduzione familiare. «Queste non hanno la forza per affrontare gli enormi investimenti che occorrono per la riconversione e l'innovazione imposti dalla transizione ecologica», afferma il leader della Uilm, il sindacato dei metalmeccanici della Uil, Rocco Palombella. «È bastato l'annuncio che entro il 2025 non ci saranno più le auto diesel e che entro il 2030 spariranno quelle a combustione, per seminare il panico. Ci arrivano notizie che tante aziende della componentistica stanno chiudendo». Il sindacalista sottolinea la fragilità di tali piccole realtà che, pur essendo altamente specializzate, dipendono da pochi grandi acquirenti che possono decidere di cambiare fornitori sullo scenario mondiale. «Per Stellantis, cioè l'ex Fiat da poco confluita nella Peugeot-Citroen, l'Italia è un mercato marginale che potrebbe subire certe scelte. L'auto elettrica che esce da Mirafiori è costosissima, non è per tutti i portafogli», afferma Palombella che lancia il sasso: «L'Europa ha fatto una scelta radicale accelerando la transizione ecologica, ma non ha definito le contromisure per evitare la perdita di posti di lavoro. C'è il rischio che l'Europa resti isolata mentre il resto del mondo si muove in tutt'altra direzione. E allora non solo non avremmo i benefici ambientali che tutti auspicano, ma i costi sociali del cambiamento saranno enormi». Il sindacato non ha ancora fatto stime sulla perdita di occupazione, ma il prossimo 11 ottobre porterà il problema sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. Intanto il sindacato tedesco del settore, l'Ig Metall, sta negoziando ammortizzatori sociali e differenti contratti, prevedendo di qui al 2050 un calo degli occupati di circa il 35%. «Tutti siamo d'accordo sull'ambiente più pulito ma la transizione va governata tenendo presente l'attuale sistema industriale», puntualizza il leader dei metalmeccanici Uil. «Anche se magari quelle scadenze saranno cambiate, perché difficili da rispettare, l'effetto annuncio è stato dirompente. Già ora chi aveva intenzione di cambiare l'auto, ha rinviato l'acquisto perché vuole capire meglio dove stiamo andando». Palombella spiega che sulla crisi dell'automotive pesa anche la carenza di semiconduttori e di microchip determinata dallo stop delle attività durante la fase acuta della pandemia. «Mentre la Tesla consegna un'auto in 15-20 giorni, in Italia bisogna attendere la prossima primavera», esemplifica. L'economia green richiede la riqualificazione di alcune professionalità e la fase di cambiamento non è mai semplice. L'Italia parte da una posizione svantaggiata. Le classifiche Ocse pongono il nostro Paese come fanalino di coda per la formazione permanente e l'aggiornamento delle competenze dei lavoratori. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/quando-ecologia-inquina-2655217843.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="diventeremo-una-biopattumiera" data-post-id="2655217843" data-published-at="1633350593" data-use-pagination="False"> «Diventeremo una biopattumiera» Antonello Ciotti, presidente del Committee of pet manufacturers in Europe (Twitter) «La direttiva europea sul single use plastic (Sup) rischia di far diventare la Ue e quindi anche l'Italia la pattumiera del mondo». L'allarme viene da Antonello Ciotti, presidente del Committee of pet manufacturers in Europe, l'organizzazione che rappresenta a livello europeo i produttori di pet. Questo acronimo indica un materiale plastico totalmente riciclabile, il polietilene tereftalato, utilizzato prevalentemente nella produzione di contenitori per liquidi, di cui l'Italia è ai primi posti in Europa per la raccolta (circa il 70% dell'immesso al consumo) e il riciclo. L'Europa pattumiera del mondo? Ma allora le politiche di abolizione della plastica? «Non è vero che meno plastica significhi maggiore sostenibilità. Questo aspetto controverso ha origine da una errata definizione della direttiva europea Sup. Questa stabilisce l'obbligo dal 2025 di inserire un 25% di rpet, cioè di plastica riciclata nelle bottiglie di plastica e dal 2030 un 30%. Questa norma sembrerebbe favorire il recupero e il riciclo di un materiale dannoso se abbandonato nell'ambiente. In realtà rischia di far aumentare le importazioni di prodotti realizzati all'estero che solo sull'etichetta hanno l'indicazione della percentuale di materiale riciclabile. Tali prodotti vengono da Paesi come Marocco, Egitto, India e Cina che li realizzano con scarsi controlli e a un costo molto basso». Non ci sono controlli sui prodotti importati? «È molto difficile individuare la plastica riciclata inserita nella produzione di una bottiglia perché si comporta come quella vergine. Servirebbero strumenti molto sofisticati e comunque è pressoché impossibile stabilire la percentuale di plastica riciclata nel prodotto finale. Potrebbe accadere, quindi, che per evitare eventuali controlli si vada a produrre oltre confine, in Paesi extra Ue e poi importare le bottiglie in Italia. Oppure importare direttamente materie plastiche “riciclate" senza poter avere la certezza dell'effettivo contenuto di riciclato». Rischiamo quindi di essere sommersi da una valanga di plastica importata? «Proprio così. Nel tentativo di essere più religiosa del Papa, l'Europa rischia di diventare la discarica del mondo. Si fa un gran parlare dell'uso di materiale riciclato ma le istituzioni europee non hanno definito che il materiale riciclato usato in Europa debba provenire dalla raccolta differenziata dei rifiuti europei. Non ha senso importare rifiuti da fuori Europa, con tutti gli impatti sulla sostenibilità, per incrementare formalmente l'uso del riciclato e migliorare la sostenibilità». C'è un buco nella direttiva europea? «Non so se sia qualcosa di intenzionale: la normativa è stata elaborata in fretta prima della scadenza della precedente legislatura del Parlamento europeo e quindi è molto approssimativa in più punti». Ma questa superficialità rischia di danneggiare le industrie e l'ambiente. «C'è un altro risvolto da considerare. Il mercato unico europeo potrebbe saltare. Ogni Paese dell'Unione deve legiferare per recepire la direttiva. E siccome le linee guida sono poco chiare, ognuno si muoverà per proprio conto rispondendo agli interessi delle industrie nazionali. Così avremo la situazione paradossale che una bottiglia di plastica potrà circolare in Italia ma non varcare il confine perché le regole sul contenuto riciclato potrebbero essere diverse. Il problema non è solo per le bottiglie: anche i piatti di plastica, di cui l'Italia era il primo produttore europeo, sono stati banditi con una perdita di circa 3.000 posti di lavoro localizzati prevalentemente nel Sud Italia». Saranno sostituiti con prodotti ecologici? «Niente affatto. Al loro posto vengono reclamizzati i piatti di polpa di cellulosa ricoperti con una pellicola di plastica realizzati in Cina. È uno dei casi di greenwashing, cioè quando si spacciano per ecologici prodotti che non lo sono. Un altro esempio: fino a poco tempo fa, sui treni erano fornite bottigliette di plastica che ora sono state sostituite da lattine o contenitori di cartone laminato. Un consumatore pensa di fare un favore all'ambiente; in realtà non sa che il cartone laminato è molto difficile da riciclare e le lattine richiedono un costo energetico molto alto per essere riciclate. Ma gli esempi sono molto numerosi». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/quando-ecologia-inquina-2655217843.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-green-disorienta-i-consumatori" data-post-id="2655217843" data-published-at="1633350593" data-use-pagination="False"> «Il green disorienta i consumatori» Fabio Iraldo, ordinario di management alla Scuola Sant'Anna di Pisa (YouTube) «L'attenzione che il legislatore e i mercati stanno ponendo sulla transizione ecologica induce un'accelerazione nei processi di innovazione e competizione tra imprese, per cui i rischi di fare in fretta e promuovere prodotti non green cresce esponenzialmente. Le imprese fanno a gara nel proporsi al pubblico come sempre più attente all'ambiente e spesso in questa rincorsa mandano messaggi sbagliati che confondono il consumatore». Fabio Iraldo è ordinario di management alla Scuola Sant'Anna di Pisa, dove dirige il Phd in innovation, sustainability and healthcare ed è direttore del Green economy observatory alla Bocconi di Milano. Quali sono i pericoli di una transizione ecologica accelerata nel rapporto tra aziende e consumatori? «Molte aziende incorrono in un errore: la vaghezza e l'inconsistenza dei messaggi ambientali che trasmettono al mercato e, più in generale ai propri interlocutori. Questo, da una parte, può accrescere la diffidenza dei consumatori, sempre più maturi e meno disposti ad accontentarsi di messaggi generici di impegno verso l'ambiente; dall'altra, rischia di appiattire l'immagine aziendale rispetto a quella dei concorrenti». Non ci sono certificazioni che attestino il grado di impatto ambientale di un prodotto? «È questo il punto. Manca la capacità di valutare gli impatti ambientali dei prodotti per presentarli ai mercati e promuoverli con buona ragione avendo certezza che abbiano impatto ambientale inferiore rispetto allo stato attuale. Manca nelle aziende lo sforzo di promuovere i prodotti su base scientifica e aumenta il rischio di falsificazioni, di spacciare un prodotto per quello che non è. Si dice in modo generico che “fa bene all'ambiente", quando in realtà servirebbe un'analisi più approfondita. Le aziende dovrebbero dimostrare che quanto dicono è vero». Si va verso un'economia green troppo in fretta? «L'accelerazione della transizione ecologica comprende misure diverse, alcune sono ponderate e altre possono avere controindicazioni. L'auto elettrica, ad esempio: l'energia per le batterie, per essere davvero a scarso impatto ambientale, dovrebbe venire da fonti rinnovabili. Inoltre va ampliato il circuito di recupero delle batterie esauste». Quindi quando si dice che un'auto elettrica ha impatto zero non è del tutto vero? «Proprio così. Innanzitutto essa utilizza energia che non viene da fonti rinnovabili e poi è dotata di dispositivi che sono difficili da smaltire, come le batterie. Va comunque detto che, facendo un'analisi comparativa con l'auto a carburanti fossili, il veicolo elettrico è vantaggioso. Comunque, non esiste un impatto zero. Chi dice questo commette una mistificazione. La verità è che tramite una serie di interventi, con l'ottimizzazione dell'uso di materiali, si può diminuire l'impatto ambientale di un prodotto». E l'obiettivo della carbon neutrality? «Essa non significa eliminare il gas serra. Qualsiasi processo produttivo genera un impatto ambientale con l'emissione di CO2. Le politiche a favore della decarbonizzazione sono graduali e diminuiscono le emissioni di CO2, ma non arriveranno mai a zero. Verranno compensate dall'acquisto di crediti di emissione. Molte aziende vantano l'utilizzo di materiale riciclato per gli imballaggi anche se arrivano appena al 20% quando in molti casi si può arrivare al 100%. Molte altre vantano performance ambientali superiori ai concorrenti senza presentare dati che lo attestino, inventando prodotti autocertificati e loghi colorati di verde. C'è la tendenza di valorizzare sbrigativamente un prodotto senza preoccuparsi di farlo certificare. La moda della sostenibilità crea molta confusione nel consumatore».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il Capo della Polizia, Prefetto Vittorio Pisani, e altri vertici delle forze dell’ordine per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il Capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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