2025-03-06
«Basta dare del putiniano a chi solleva dubbi»
Alessandro Colombo (Imagoeconomica)
Lo studioso, autore del saggio «Il suicidio della pace»: «Dopo la guerra fredda, l’Occidente ha smesso di preoccuparsi delle ragioni degli altri. E così si è fatto male da solo. Il paragone con Hitler e la pace di Monaco? Non ha alcun senso».Alessandro Colombo insegna Relazioni internazionali all’università di Milano ed è l’autore di alcuni dei saggi più rilevanti degli ultimi anni. La sua acutissima capacità di osservazione si sofferma per lo più sulle vicissitudini dell’Occidente e ultimamente ha esaminato i fallimenti dell’ordine neoliberale. È proprio questo fallimento al centro del suo nuovo lavoro, Il suicidio della pace, in uscita per Raffaello Cortina. Che cosa intende per suicidio della pace? Sembra di capire che si tratti del fallimento del «nuovo ordine mondiale» costruito a partire dalla fine della Guerra Fredda in avanti. «L’idea del suicidio è diversa dalle molte interpretazioni dell’attuale contesto internazionale e della crisi - ormai evidente a tutti - che tendono a concentrarsi o sulla personalità di singoli individui, come Donald Trump, o sull’iniziativa di attori antagonisti, come la Federazione Russa o la Cina in crescita. L’idea del suicidio insiste invece sul fatto che il progetto del nuovo ordine mondiale, concepito negli anni Novanta e realizzato nei decenni successivi, portava dentro di sé problemi e difetti irrimediabili. Il suicidio sta nel fatto che questo progetto liberale di ordine internazionale, nato dopo la fine della Guerra Fredda, non è stato pugnalato alle spalle da nemici esterni o interni, ma si è suicidato. Si basava su forzature originarie, che poi sono state esasperate nel tempo».Quali forzature?«L’ordine era debole dall’inizio a mio avviso sia perché si reggeva su un’interpretazione goffa della storia dell’ultimo secolo, sia perché aveva dentro di sé un progetto di trasformazione delle relazioni internazionali con una fortissima connotazione ideologica e con una totale indisponibilità a tenere conto delle intenzioni, delle preferenze e perché no anche delle paure degli altri. Il ’900 è stato interpretato alla fine della guerra fredda come un secolo tutto dominato dal confronto tra la democrazia liberale e i suoi nemici: è stato, questo, il trionfalismo degli anni Novanta, cioè l’idea che il ’900 si fosse concluso con il trionfo dell’Occidente liberale su tutti i nemici. Il che naturalmente è in parte avvenuto: questo trionfo fa parte della storia del secolo, ma non è l’unica parte».E le altre parti rimosse quali sono?«Il trionfo dell’Occidente liberale sui suoi nemici all’interno della civiltà occidentale ci ha fatto dimenticare due altre grandi correnti storiche che sono state totalmente ignorate per 20 o 30 anni. La prima corrente storica riguarda la fine della centralità dell’Europa e quella che gli storici britannici hanno definito la rivolta contro l’Occidente. La fine della centralità dell’Europa è di gran lunga la vicenda centrale del Novecento dal punto di vista della storia delle relazioni internazionali perché scardina completamente l’architettura politica, istituzionale e persino culturale delle relazioni internazionali degli ultimi secoli. Io resto tuttora sorpreso dall’amnesia su questa vicenda, specie se faccio il confronto con quanto invece era avvenuto in precedenza».La seconda corrente?«La crisi - non la fine - dell’altra centralità moderna, quella dello Stato. La crisi di tutto l’edificio interstatale delle relazioni internazionali. Il che non significa naturalmente che noi siamo in una convivenza internazionale post-statale, ma significa che la convivenza internazionale interstatale oggi soffre di vulnerabilità totalmente incomparabili a quelle di un secolo fa. L’ordine internazionale liberale degli anni Novanta ha totalmente ignorato questi problemi, ha fatto come se il Novecento non ci fosse stato».È stato un peccato di arroganza? Abbiamo pensato di essere i padroni del mondo o di essere comunque per diritto al centro della storia?«Sì, credo che si sia trattato di questo con una aggravante che ha scardinato il modo in cui la politica internazionale è sempre stata concepita. Per secoli abbiamo concepito le relazioni internazionali come, appunto, relazioni. Significa che noi abbiamo le nostre intenzioni, le nostre preferenze, i nostri obiettivi. Ma nel perseguire questi obiettivi dobbiamo continuamente tenere conto degli obiettivi degli altri, delle intenzioni degli altri e perché no delle paure degli altri. Io ho la sensazione che a partire dagli anni Novanta i Paesi vincitori della guerra fredda abbiano agito in un modo, in una prima fase direi narcisistico e in una seconda fase quasi autistico». Ovvero?«Abbiamo tenuto conto naturalmente delle nostre preoccupazioni di sicurezza e questo è più che legittimo, ma quello che è grave è che abbiamo smesso di tenere conto delle preoccupazioni di sicurezza degli altri e quindi abbiamo fatto cose che hanno messo in apprensione gli altri. Se gli altri avessero fatto altrettanto a noi, ci saremmo messi in apprensione eccome». Volendo potremmo sovrapporre quello che lei sta dicendo nell’ambito dei rapporti internazionali, delle relazioni, a quello che succede nella nostra società. Sembra che abbiamo perduto l’abitudine alla relazione, cioè come notava già Christopher Lasch ci siamo rinchiusi nel narcisismo. «Normalmente nella politica internazionale qualunque attore si trova a dover fare i conti, che lo voglia o no, con altri attori che sono relativamente tanto forti quanto lui. Negli anni Novanta ci siamo ritrovati invece in una situazione eccezionale: gli Stati Uniti e i loro alleati hanno goduto per diversi anni di una superiorità che non ha precedenti nella storia moderna dell’economia internazionale. E questa superiorità ha prodotto un altro dei paradossi di quel decennio: il mondo liberale, una volta vinta la competizione contro i Paesi totalitari, si è buttato in una grande impresa di ingegneria sociale, cioè si è buttato esattamente nel tipo di impresa che aveva esecrato per tutto il Novecento. Ha pensato di poter riplasmare il mondo a propria immagine, lo ha detto anche in modo esplicito, c’era un’espressione che ricorreva in tanti documenti americani di quell’epoca che era “to shape the international order”, cioè proprio plasmare... Questa era l’idea: noi possiamo farlo perché non ci sono più forze controbilancianti. E credi che questo sia stato l’errore capitale, un errore di presunzione. Su cui per altro già nei Novanta c’erano stati una serie di ammonimenti sia degli Stati Uniti sia in Europa, ma questi ammonimenti non sono stati ascoltati e sia in Europa sia negli Stati Uniti hanno prevalso delle élite politiche e intellettuali che non erano disposte a tenere conto dei problemi evidenti». A ben vedere non solo non abbiamo tenuto conto delle ragioni degli altri che stavano al di fuori, ma anche degli altri che stavano dentro di noi: il dissenso in questi anni è stato decisamente criminalizzato. «Credo che non sia troppo polemico riconoscere che il dibattito pubblico e il dibattito intellettuale negli ultimi anni si siano clamorosamente inariditi. Si sono inventate una serie di parole clava, penso per esempio all’aggettivo putiniano, che sono state impiegate contro chiunque provasse anche solo a sollevare dei dubbi. Personalmente non conosco putiniani, conosco invece una serie di colleghi che si pongono a questioni che credo che sia legittimo porsi. Si chiedono cioè se nel processo che ha portato alla catastrofe della guerra in Ucraina non ci siano state delle forzature anche da parte dei Paesi europei e da parte degli Stati Uniti. Io sono convinto che ci siano state forzature, il che non significa andare a cacciare il colpevole perché non credo che questo sia il compito né di uno storico né di un teorico delle relazioni internazionali».A proposito di Putin ultimamente si sente questo ritornello: se non lo fermiamo si allargherà, farà come Hitler...«Questa dell’appeasement di Monaco, di Hitler, è una barzelletta pericolosa, tra l’altro è uno dei cavalli di battaglia della peggiore politica americana degli ultimi decenni. Il precedente di Monaco veniva usato all’epoca della guerra fredda come versione in rosa della teoria del domino, una teoria stupida dal punto di vista politico e dal punto di vista strategico. Il precedente di Monaco è stato usato in occasione di tutte le guerre del dopo guerra fredda: fu evocato nel 1991 contro Saddam Hussein, nel 1999 contro Milosevic, oggi viene evocato contro Putin. Ci sono biblioteche sull’uso del precedente di Monaco, è un precedente rozzo che evidentemente funziona perché viene continuamente impiegato. Ma non ha alcun senso: se vogliamo comprendere qualche cosa della realtà internazionale dobbiamo dimenticarcelo. L’idea che un Paese per il fatto di aggredirne un altro sia destinato ad aggredirne anche un terzo, un quarto e via dicendo è un determinismo folle che si basa su analogie storiche prive di senso. E che anche dal punto di vista politico sono molto pericolose. Quindi liberiamoci di questa follia, anche se è una follia continuamente ripetuta, ahimè anche da qualche collega».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)