2025-04-17
Pure la moka Bialetti diventa cinese: operazione da oltre 53 milioni
Nuo Capital compra il 78,5% del gruppo e prepara un’Opa per ritirarlo da Piazza Affari.Sembra facile resistere allo strapotere finanziario dei cinesi. Che forse per tirarsi su dai dazi di Donald Trump hanno deciso di farsi un caffè. Passa in mani che più straniere di così non si può uno dei simboli dell’economia domestica (come quella che studiavano a scuola le mamme e le nonne dell’Italia che fu) e del gusto italiano: la Bialetti. Il fondo Nuo capital octagon di diritto lussemburghese ma posseduto dal tycoon cinese Stephen Cheng-Pao ha rilevato il 78, 56 % del capitale Bialetti: sul resto lancerà l’Opa sulle per eliminare dal listino di Piazza Affari la società dell’Omino coi baffi. Così Cheng prepara la colazione all’italiana a Xi Jinping. Dal punto di vista della mera logica aziendale l’arrivo di nuovo capitale è positivo, ma dal punto di vista della cultura d’impresa e dell’evoluzione dello stile italiano è un colpo basso. I cinesi hanno comprato da Francesco Ranzoni, presidente di Bialetti industria che da 30 anni deteneva la maggioranza delle azioni della società, il 59% di Bialetti investimenti e di Bialetti holding e il 19,5% dal fondo Sculptor ristretto investments con un esborso di oltre 53 milioni. L’Opa sarà a 0,45 euro per azione, livello a cui si è subito adeguato il listino di Borsa dove ieri Bialetti ha fatto un salto del 60%. Da tempo Ranzoni cercava investitori perché doveva restituire entro questo mese un prestito obbligazionario a Sculptor, Illimity e Amco. La vicenda Bialetti ricorda quella di un altro simbolo del made in Italy egualmente legato al fascino «domestico»: La Perla. L’intervento di Ranzoni data 1993: in cerca di capitali si decise per la quotazione in Borsa. Ci fu un piccolo giallo perché si scoprì che il collocamento si basava su un prospetto dove il rapporto prezzo/utili era stato moltiplicato per quattro. Le azioni furono collocate a 2,5 euro, nel corso di 18 anni di quotazione però si sono quasi azzerate. L’ultimo prezzo era 24 centesimi. Ora alcuni dei magnati dello stile italiano che avevano acquistato la prima emissione saranno costretti ad aderire all’Opa contabilizzando il 75% di perdita. Ciò che resta è la moka che sta in tutte le case degli italiani. Fu inventata da Alfonso Bialetti 92 anni fa: questo fabbro-meccanico aveva appreso la fusione dell’alluminio in Francia. Tornato nelle sue valli ossolane osservando il bollitore per la lisciva (era il sapone dell’epoca) usato per lavare i panni ebbe l’intuizione della moka. Rispetto alla caffettiera napoletana allora in voga aveva tre pregi: il caffè veniva cremoso, la pressione di infusione e la temperatura dell’acqua erano più alte e la manutenzione quasi assente. L’alluminio era peraltro il metallo del «regime» perché lucente, resistente e italianissimo. Così nel 1933 debuttò la caffettiera art decò a otto facce che faceva l’espresso come al bar. Bialetti aprì il primo stabilimento a Omegna e la chiamò moka in omaggio alla città yemenita capitale del caffè. È considerata un caposaldo del design: è esposta sia alla Triennale di Milano sia al Moma di New York. Il successo massimo giunse quando il baffuto figlio di Alfonso, Renato Bialetti, decise di lanciare il prodotto a livello internazionale sfruttando anche le comunità italiane all’estero. Debuttò nel 1955 a Carosello; Paul Campani disegnò, ispirandosi a Renato che portava due mustacchi giganteschi, l’Omino coi baffi che diventerà il marchio aziendale della Bialetti e che recitava il tormentone: «Eh sì, sì sembra facile… fare un buon caffè!». La moka rimase ai Bialetti fino ai primi anni Novanta, poi passa a Faema e infine a Ranzoni che l’acquista nel 1993. Ranzoni stressa l’italianità: fa la moka tricolore, si affida a Dolce&Gabbana per disegnare le nuove moke e le tazzine, produce anche macchine da caffè espresso domestiche, commercializza il caffè Bialetti, apre i negozi monomarca, ma… sembra facile! E alla fine arrivano i cinesi.