2021-06-05
Pugno duro di Biden contro Pechino. Vietati gli investimenti in 59 aziende
Ampliata la black list di Trump delle società coinvolte nella sorveglianza delle minoranze. Irritazione cinese per la risoluzione della Camera che condanna la repressione degli uiguri: «Interferenza su affari interni»Linea dura contro Pechino. Joe Biden ha siglato giovedì un ordine esecutivo, destinato a entrare in vigore il 2 agosto, che «vieta gli investimenti statunitensi nel complesso militare-industriale della Repubblica popolare cinese». A finire nel mirino sono state 59 aziende cinesi: aziende che, secondo la Casa Bianca, sono da considerarsi pericolose soprattutto per i loro collegamenti con i sistemi di sorveglianza tecnologica del Dragone (tra di esse, figura anche il colosso Huawei). In particolare, il provvedimento amplia un precedente ordine esecutivo - firmato a novembre da Donald Trump - che metteva nel mirino 31 società della Repubblica popolare. L’amministrazione Biden ha nel dettaglio chiarito che questo nuovo decreto «impedisce agli investimenti statunitensi di sostenere il settore della Difesa cinese, ampliando al contempo la capacità del governo degli Stati Uniti di affrontare la minaccia delle aziende di tecnologia di sorveglianza cinesi che contribuiscono, sia all’interno che all’esterno della Cina, alla sorveglianza delle minoranze religiose o etniche o altrimenti facilitano la repressione e gravi violazioni dei diritti umani». Un riferimento neppur troppo velato alla repressione degli uiguri nello Xinjiang: una repressione che si serve - come ormai tristemente noto - anche di sorveglianza tecnologica. La reazione di Pechino non si è comunque fatta attendere. Ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha condannato l’ordine esecutivo, chiedendo agli Stati Uniti di rispettare le regole del libero mercato e lasciando intendere che Pechino può decidere di adottare misure ritorsive. Queste tensioni esplodono proprio mentre i rapporti tra Stati Uniti e Cina stanno attraversando una (nuova) fase burrascosa sulla controversa questione della genesi del Covid-19. Biden ha di recente incaricato l’intelligence statunitense di fare luce sulla questione, rimettendo quindi sul tavolo l’ipotesi - un tempo bollata semplicisticamente da molti come «complottista» - di una origine del virus in laboratorio. Un’ipotesi che sta irritando non poco Pechino. Il governo cinese tiene infatti a rimarcare che il rapporto dell’Oms ha definito come «estremamente improbabile» una tale teoria. Ciononostante i dubbi restano. Non solo, a marzo, il segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha detto di temere che quel rapporto sia stato redatto con il concorso di Pechino. Ma, tra i componenti del team investigativo dell’Oms, figurava anche Peter Daszak: zoologo britannico che vanta (problematici) legami con il Wuhan Institute of Virology. Al di là del coronavirus, non è un mistero che la questione dello Xinjiang e - più in generale - dei diritti umani rappresenti un elemento spinoso nelle relazioni tra Washington e Pechino. Un discorso che vale anche per Hong Kong, dove è stata da poco approvata - su input cinese - una controversa riforma elettorale e dove la Repubblica popolare ha proibito la possibilità di manifestare in ricordo del massacro di Piazza Tienanmen. Ieri un imponente dispiegamento di polizia ha in tal senso blindato Victoria Park e si sono verificati almeno due arresti. Tutto questo, mentre sulla questione è intervenuto anche uno dei punti di riferimento dei manifestanti pro democrazia, il cardinale Joseph Zen, che ha postato il testo di un’apposita omelia su Twitter. Dell’anniversario di Tienanmen ha parlato anche Blinken, invocando il rispetto dei diritti umani. Una posizione che Wenbin ha bollato come un’interferenza. Nonostante abbia giustificato il divieto con la pandemia, è chiaro che Pechino tema l’attenzione internazionale su eventuali proteste collegate ai tragici eventi del 1989: soprattutto nell’anno -il 2021 - in cui si celebra il centenario della nascita del Partito comunista cinese. Tornando allo Xinjiang, va registrato che, per Pechino, non sia una fonte di attrito solo con Washington, ma anche con Roma. Il Dragone non ha digerito la risoluzione, approvata la scorsa settimana dalla commissione Esteri della Camera, che - pur evitando di usare il termine «genocidio» - ha comunque duramente criticato la repressione degli uiguri. Non a caso, l’ambasciata cinese in Italia non ha avuto parole tenere, manifestando «risoluto malcontento e la ferma obbiezione». «Lo Xinjiang», ha inoltre precisato l’ambasciata, «è il territorio della Cina e i suoi affari sono puramente affari interni della Cina, che non ammettono interferenze da parte di forze esterne». Ricordiamo - per inciso - che proprio all’ambasciata cinese si recò per un (controverso) incontro Beppe Grillo nel novembre 2019: quello stesso Grillo che, sul suo blog, ha recentemente rilanciato uno studio sullo Xinjiang, in cui si definiscono «presunte» le repressioni degli uiguri da parte cinese. Una posizione non poco discutibile, soprattutto alla luce del fatto che al vertice della Farnesina sieda un esponente del Movimento 5 Stelle: una posizione, forse proprio per questo, tutt’altro che casuale. E che, chissà, potrebbe puntare a ostacolare l’avvicinamento di Mario Draghi a Washington.
Jose Mourinho (Getty Images)