2023-05-19
Proposta «indecente» sulla Consulta anomala
La riforma presidenzialista può riequilibrare lo strapotere del Colle ma è l’occasione per agire anche sulla «fame» legislativa della Corte. Con un referendum abrogativo per le sue sentenze che, in parte o in tutto, si sostituiscono alle norme ordinarie. Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione Difficile prevedere che fine faranno le progettate riforme costituzionali che bollono nella pentola governativa, a cominciare dalla più ambiziosa (e controversa) costituita dall’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Una cosa, però, può dirsi fin da ora, e cioè che se essa andasse in porto, ciò comporterebbe, se non altro, l’eliminazione di una vistosa anomalia che da tempo contraddistingue l’assetto politico del nostro Paese. L’Italia, infatti, a partire dalla presidenza Napolitano (ma robuste avvisaglie vi erano già state in passato, soprattutto con la presidenza Scalfaro) è, di fatto, diventata una repubblica semipresidenziale, dal momento che il presidente della Repubblica, lungi dall’essere (o, quanto meno, dall’apparire) come un mero garante dell’osservanza delle regole formali alle quali, secondo la Costituzione, debbono attenersi tutti i poteri dello Stato, ha assunto un ruolo sempre più attivo nella determinazione dell’indirizzo politico generale che, a stretto rigore, sarebbe invece di propria ed esclusiva competenza del governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene. Significativa (ma non certo unica) manifestazione di tale trasformazione è quella costituita dall’ormai consolidata prassi per la quale il governo (quale che esso sia) deve «contrattare» con il presidente della Repubblica il contenuto dei decreti legge che intende adottare, nonostante che soltanto al governo, per espresso disposto dell’articolo 77 della Costituzione, faccia carico la relativa responsabilità, spettando al presidente della Repubblica il solo compito di emanarli sotto forma di decreto a sua firma (oltre che a firma del presidente del Consiglio e dei ministri proponenti). Con il che si è venuto quindi a riconoscere al presidente della Repubblica anche il potere di rifiutare (come, difatti, talvolta è avvenuto), l’emanazione di qualsiasi decreto legge che pur sia stato regolarmente deliberato dal Consiglio dei ministri, sol perché egli non ne condivide il contenuto, senza per questo ritenerlo, tuttavia, manifestamente incostituzionale; unica ipotesi, quest’ultima, in cui, secondo la più accreditata dottrina giuridica, il rifiuto sarebbe legittimo e, anzi doveroso. Ora, caratteristica comune delle repubbliche semipresidenziali, a cominciare da quella francese, che ne costituisce il prototipo, è (e non può non essere) l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Di qui la segnalata anomalia alla quale, stabilendo che anche in Italia il presidente della Repubblica sia direttamente eletto dal popolo, si verrebbe a porre rimedio. Ma, una volta avviata, in ipotesi, la procedura di revisione costituzionale finalizzata ad ottenere tale risultato, sarebbe allora il caso di affrontare e risolvere anche un’altra anomalia, meno evidente ma non per questo meno grave della prima: quella, cioè, costituita dal ruolo paralegislativo che, ormai da molti anni, la Corte costituzionale è venuta ad assumere, debordando in modo sempre più disinvolto (anche se mascherato da solenni paludamenti), dalla sue proprie funzioni, quali previste nelle apposite norme contenute nella Costituzione e nelle leggi che hanno dato loro attuazione; tra esse, in particolare, l’articolo 28 della legge 87 del 1953, che espressamente vieta alla Corte costituzionale «ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». Lo strumento del quale la Corte si è avvalsa è quello costituito dalle sentenze «additive» o «manipolative», di sua propria ed esclusiva invenzione, mediante le quali essa è venuta a creare vere e proprie norme giuridiche, in aggiunta o in sostituzione di quelle sottoposte al suo giudizio e da essa ritenute, per una qualsiasi ragione, non conformi alla Costituzione. Fenomeno, questo, che ha assunto una particolare gravità da quando la Corte ha ritenuto superabile il limite che essa stessa, in passato, si era autoimposto, e per il quale, quando l’eventuale declaratoria di incostituzionalità di una norma vigente avesse comportato un «vuoto normativo» in materia che comunque necessitava di essere normativamente disciplinata, a quella declaratoria non si potesse dar luogo se non in presenza di una «soluzione costituzionalmente obbligata». Il che significava che la Corte non poteva disegnare, a sua discrezione, una nuova disciplina per quella materia, ma doveva necessariamente trovare l’unica norma, già esistente o ricavabile dall’ordinamento nel suo complesso, che, essa sola e non altre, potesse sostituire quella venuta a mancare. Negli ultimi anni, invece, come si è detto, la Corte ha superato anche questo limite autoattribuendosi espressamente il potere di scegliere essa stessa, discrezionalmente, tra tutte quelle astrattamente possibili, la disciplina normativa da adottare in sostituzione di quella ritenuta incostituzionale, alla sola condizione, assai vaga e generica, che essa resti nell’ambito della non meglio identificata né identificabile «logica perseguita dal legislatore» e (come appare, del resto, ovvio) dei «principi generali dell’ordinamento». Così ha fatto, ad esempio, nel caso della norma penale che puniva l’aiuto al suicidio e di quelle che comportavano l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio concepito in costanza di matrimonio. Il che costituisce, all’evidenza, una flagrante usurpazione del ruolo che, a termini di Costituzione, dovrebbe essere proprio ed esclusivo del legislatore. E allora, stando così le cose, ed essendo del tutto improbabile (anche alla luce delle ultime dichiarazioni della sua attuale presidente), che la Corte rientri negli argini delle sue originarie competenze, altro non rimane, per tentare di rimediare anche alla suddetta anomalia, se non lanciare una «proposta indecente»: quella cioè, di introdurre la possibilità che le sentenze «additive» o «manipolative» della Corte, in quanto assimilabili, in tutto e per tutto, a delle vere e proprie leggi, siano, al pari di queste ultime, assoggettabili a referendum abrogativo, con la previsione, naturalmente, che non valga, per esso, la regola del preventivo giudizio di ammissibilità da parte della stessa Corte. Trattandosi, appunto, di una «proposta indecente», è del tutto ovvio che essa farà, al momento, la fine che deve fare. Ma erano, al loro tempo, «indecenti» anche le proposte di sostituire, alla sovranità dei principi, quella dei popoli. Il tempo, bene o male che ciò sia stato, ha dato loro ragione.