
L’attivista Myriam Romano: «Troppi pregiudizi sui volontari. Non diamo solo aiuti economici. Quelle che assistiamo poi ci mandano le amiche».Nell’immaginario dei mass media, l’attivista pro life è un maschio non più giovanissimo, invasato e che vuole minacciare la libertà della donna. Sfatano alla grande lo stereotipo i giovani del Movimento per la Vita italiano (Mpv), gruppo guidato da una équipe nazionale di cui fa parte anche la veneta Myriam Romano, 24 anni. Fresca di laurea in pedagogia, conseguita col massimo dei voti all’Università di Padova, la giovane ha conosciuto la più grande realtà pro life italiana otto anni fa e, da allora, non l’ha più lasciata, diventandone una volontaria. La Verità l’ha contattata per capire come vede la polemica di questi giorni.Dottoressa Romano, che idea si è fatta della polemica sulle associazioni antiabortiste nei consultori? «Su questo tema molto è stato detto, ciò che mi sento di aggiungere è un sincero dispiacere per l’incoerenza di chi dice di essere dalla parte delle donne, professando la sua fede nella libertà di pensiero ed espressione, salvo poi non lottare affinché ogni donna abbia accesso a un reale supporto. Il termine “polemica” mi pare azzeccato, forse l’unica traccia che lascia questo tempo di divisione. Proprio per questo ciò che stiamo cercando di creare noi come Equipe giovani del Movimento è un luogo in cui i ragazzi possano interrogarsi su tematiche importanti, scavare, informarsi e non soffermarsi sulla superficie di titoli accattivanti e divisivi».Voi pro life rappresentate davvero una minaccia per la libertà della donna o vi dipingono solo come tali? «Semmai cerchiamo di rendere più concreta la sua libertà di scegliere conoscendo tutte le alternative all’aborto. Riguardo all’immagine che danno di noi, credo sia una questione di pregiudizi, gli stessi di cui noi nuove generazioni ci diciamo liberi ormai da tempo. Chiamiamole pure euristiche, ovvero “scorciatoie” cognitive. Purtroppo, chiunque si dica pro life deve immeritatamente scontare le colpe di chi invece fa pesare il proprio giudizio sulla donna».Qual è l’esperienza del Movimento per la Vita sul fronte dell’assistenza alla maternità a rischio? «È un’esperienza estremamente concreta e che si regge in gran parte sul volontariato. Tornerei sul termine “polemica”, perché è proprio quello che il Movimento per la vita ha sempre cercato di evitare, basti pensare a come è nato. Agli inizi degli anni Settanta – prima che la legge 194 esistesse – a Firenze si scoprì l’esistenza di una clinica clandestina che permetteva alle donne di abortire. Una simile scoperta diede avvio alle indagini, portando al contempo chi le conduceva a interrogarsi su come offrire supporto e un’alternativa concreta alle donne che decidevano di abortire. Da lì nacque una realtà che, nel tempo, è stata in grado di intessere in Italia una fitta rete di luoghi dove le donne sono accolte sapendo di non essere più sole».Che frutti ha prodotto tale impegno? «Dal 1975 – anno in qui nacque il primo Centro di aiuto alla vita (Cav) – ad oggi, oltre 280.000 bambini sono stati aiutati a nascere e ogni anno vengono assistite, in media, 32.500 donne. Questo grazie all’accoglienza e al supporto garantiti dai volontari degli oltre 350 Cav, ma anche grazie alle Case di accoglienza, a mezzi come Sos vita – che offre assistenza h 24 sia telefonicamente che tramite una chat online – e alle Culle per la vita. Queste e ulteriori informazioni sono fruibili online al sito www.mpv.org».Quali sono le alternative all’aborto che offrite alle gestanti? «La possibilità di avere un supporto economico per portare a termine la gravidanza è solo la punta dell’iceberg delle numerose alternative all’aborto. Quello che si offre nei Cav è accoglienza, rassicurazione e una valutazione della situazione per capire assieme come superare le difficoltà, che a volte non sono solo materiali ma nascono dalla mancanza di una rete di supporto attorno alla donna. Il primo passo credo sia realizzare che la paura, se condivisa, può essere superata. L’idea di supportare economicamente non è però mero assistenzialismo, bensì mira a incoraggiare la donna anche avviandola a una maggiore autonomia e indipendenza pur potendo contare su una nuova comunità di cura. E questo lo si nota anche dal rapporto che nel tempo viene mantenuto col Cav al quale spesso le donne indirizzano le loro amiche che dovessero vivere una gravidanza inattesa. Un esempio forse non noto ma calzante è infine quello del servizio baby-sitting di alcune volontarie e volontari offerto alle donne affinché possano lavorare e o terminare gli studi».Oggi sembra che di aborto si possano occupare solo le donne, per cui le chiedo: tra i volontari dei Cav c’è parità di genere? «Effettivamente nei Cav si incontrano prevalentemente volontarie donne, con qualche eccezione che personalmente ritengo una ricchezza. Non sono, inoltre, infrequenti le storie di volontarie che hanno scelto questo servizio a seguito di un aborto vissuto in prima persona per la mancata conoscenza delle alternative possibili»Cosa direbbe ad una sua coetanea tentata di abortire?«A volte prima di parlare c’è bisogno di ascoltare e non dire nulla. Abbiamo sempre molta fretta di dire la nostra, ma credo che il miglior modo per aiutare sia esserci. E questo è ciò che Il Mpv cerca di fare, non solo in maniera organizzata nei Cav ma sempre e ovunque. Un volontario è una persona che ascolta, c’è, è presente alle necessità altrui e conosce le alternative concrete all’unica scelta generalmente nota. Il male di questa società – lo si sente dire in tutte le salse – è la solitudine. E allora dovremmo avere il coraggio di navigare in questo mare che ci vede tutti isole provando a costruire ponti, a non far sentire le persone sole, perché le difficoltà si superano insieme».
Il luogo dell'accoltellamento a Milano. Nel riquadro, Vincenzo Lanni (Ansa)
Nei principali Paesi europei, per essere riconosciuto «pericoloso» basta la segnalazione di un medico. Qui invece devi prima commettere un delitto. E pure in questo caso non è detto che una struttura ti accolga.
Vincenzo Lanni, l’accoltellatore di Milano, aveva già colpito. Da condannato era stato messo alla Rems, la residenza per le misure di sicurezza, poi si era sottoposto a un percorso in comunità. Nella comunità però avevano giudicato che era violento, pericoloso. E lo avevano allontanato. Ma allontanato dove? Forse che qualcuno si è preso cura di Lanni, una volta saputo che l’uomo era in uno stato di abbandono, libero e evidentemente pericoloso (perché se era pericoloso in un contesto protetto e familiare come quello della comunità, tanto più lo sarebbe stato una volta lasciato libero e senza un riparo)?
Ansa
Dimenticata la «sensibilità istituzionale» che mise al riparo l’Expo dalle inchieste: ora non c’è Renzi ma Meloni e il gip vuole mettere sotto accusa Milano-Cortina. Mentre i colleghi danno l’assalto finale al progetto Albania.
Non siamo più nel 2015, quando Matteo Renzi poteva ringraziare la Procura di Milano per «aver gestito la vicenda dell’Expo con sensibilità istituzionale», ovvero per aver evitato che le indagini sull’esposizione lombarda creassero problemi o ritardi alla manifestazione. All’epoca, con una mossa a sorpresa dall’effetto immediato, in Procura fu creata l’Area omogenea Expo 2015, un’avocazione che tagliò fuori tutti i pm, riservando al titolare dell’ufficio ogni decisione in materia.
Getty Images
Dopo il Ponte tocca ai Giochi. Per il gip sarebbe «incostituzionale» il decreto con cui il governo ha reso «ente di diritto privato» la Fondazione Milano-Cortina. Palla alla Consulta. Si rifà viva la Corte dei Conti: la legge sugli affitti brevi favorirà il sommerso.
Da luglio la decisione sembrava bloccata nei cassetti del tribunale. Poi, due giorni dopo l’articolo della Verità che segnalava la paralisi, qualcosa si è sbloccato. E così il giudice delle indagini preliminari Patrizia Nobile ha accolto la richiesta della Procura di Milano e ha deciso di rimettere alla Corte Costituzionale il decreto legge del governo Meloni che, nell’estate 2024, aveva qualificato la Fondazione Milano-Cortina 2026 come «ente di diritto privato». La norma era stata pensata per mettere la macchina olimpica al riparo da inchieste e blocchi amministrativi, ma ora finisce sotto la lente della Consulta per possibile incostituzionalità.
Il ministro della giustizia libico Halima Abdel Rahman (Getty Images)
Il ministro della giustizia libico, Halima Abdel Rahman, alla «Verità»: «L’arresto del generale dimostra che il tempo dei gruppi armati fuori controllo è finito e che anche la Rada deve sottostare al governo di Tripoli». Pd e M5s attaccano ancora l’esecutivo. Conte: «Italia umiliata».
Il caso di Osama Almasri Anjim, arrestato e rinviato a giudizio delle autorità libiche ha scatenato una dura polemica politica fra governo e opposizione. L’ex capo di una delle più potenti milizie di Tripoli a gennaio scorso era stato rimpatriato con un volo di Stato dopo essere stato arrestato in esecuzione di un mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Il governo aveva motivato il suo allontanamento con la pericolosità del soggetto, che era stato accolto a Tripoli da centinaia dei suoi fedelissimi con bandiere e scariche di kalashnikov.






