2023-11-14
I prof si ribellano ai boicottaggi: «Israele non è uno Stato canaglia»
Contromobilitazione di alcuni docenti in risposta ai colleghi che chiedono di interrompere i rapporti con gli atenei ebraici: «Criticare Gerusalemme è legittimo, ma senza bugie: lì non c’è alcuna apartheid».Le università dovrebbero essere il tempio della ricerca, del sapere, della serietà e dell’inclusione. Anche in tempo di guerra. Invece, nei giorni scorsi, circa quattromila membri delle università italiane hanno firmato un appello per interrompere ogni forma di collaborazione con gli atenei israeliani come forma di presunta solidarietà con la popolazione di Gaza. Da domenica, con 2.500 adesioni in poche ore, è partita la risposta di chi trova questo boicottaggio «ingiusto e dannoso». Un contro-appello per nulla dogmatico, nel quale si respinge duramente «l’identificazione de facto tra critica alle azioni del governo Netanyahu -legittima e condivisibile - e rifiuto delle istituzioni culturali e accademiche israeliane che operano in piena autonomia dalla politica». L’«Appello contro il boicottaggio delle università italiane», già in rete sulla piattaforma di change.org, vede come primi firmatari Lucia Corso (Università Kore di Enna), Mathew Diamond (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Sissa, Trieste), Alessandro Silva (Sissa), Raffaella Rumiati (Sissa) e Cosimo Nicolini Coen (Università Bar Ilan, Ramat Gan, Israele). Il documento si preoccupa innanzitutto di confutare alcune tesi assai discutibili contenute nella «Richiesta urgente» di sabato scorso, con cui alcuni docenti si sono rivolti, tra gli altri, al ministro dell’Università, Anna Maria Bernini e alla Crui, la conferenza dei rettori. La prima affermazione nel mirino è quella secondo la quale in Israele vi sarebbe un «illegale regime di oppressione militare e apartheid». Il contro-appello parla di «lettura distorta, univoca e semplificata», facendo notare che invece «la società israeliana è secolare e rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell’incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini». E ricorda che i cittadini arabi sono il 20%, «sono parte integrante della vita del Paese, partecipano alla vita culturale e istituzionale, siedono nelle medesime università e nei medesimi uffici e giocano nelle stesse squadre di sport». Poi il documento non si sottrae al tema spinoso dei coloni e afferma: «La politica degli insediamenti e la presenza militare in Cisgiordania, passibile di aspre critiche anche all’interno di Israele, non può non essere letta alla luce del contesto geopolitico, fra cui il naufragio degli sporadici tentativi di pace (Accordi di Oslo I e II) per responsabilità condivise e della spirale di violenza che affligge l’area innescata e sostenuta da tutti i soggetti coinvolti».La seconda tesi che non va giù agli estensori del contro-manifesto è quella di definire l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso una risposta quasi giustificabile a un’asserita oppressione coloniale. Qui, nel documento si ricordano vari accordi internazionali e poi si legge: «L’operazione di Hamas non è il gesto improvvisato di una vittima che ha subito vessazioni, ma il risultato di anni di pianificazione e di investimenti milionari. Hamas le ha dato un nome, come se fosse un’operazione militare legittima: Al-Aqsa Flood. Per esser sicuri di avere potere negoziale i terroristi hanno poi rapito più di 200 ostaggi, di cui 33 bambini». «Nulla giustifica gli atti orripilanti che sono stati commessi», continua il contro-appello, e qui c’è davvero poco da dire. L’ultima argomentazione della «Richiesta urgente» che non è andata giù a molti professori e ricercatori italiani è quella che caratterizza la risposta militare israeliana come «punizione collettiva», una rappresaglia o una vendetta, con lo stereotipo antisemita dell’occhio per occhio sullo sfondo. Nel contro-appello, si parla invece di «operazione militare volta a neutralizzare la possibilità che vengano inferti ulteriori attacchi da parte di Hamas». Ipotesi non remota, perché «non solo i leader di Hamas hanno ribadito la volontà di espellere tutti gli ebrei dall’area, ma anche altri attori internazionali, come Hezbollah, Iran, Yemen e Siria, non perdono occasione per negare il diritto all’esistenza di Israele». Rimessi in chiaro i termini del conflitto in corso, i redattori dell’appello pro Israele denunciano una situazione allarmante. Il boicottaggio proposto odora lontano un miglio di antisemitismo («in costante aumento anche all’interno delle nostre università») perché un’iniziativa simile non è mai stata proposta «nei confronti di università di Paesi con politiche brutali e ciniche, come l’Iran e Siria». E ancora, «criticare Israele e le azioni di un suo governo è legittimo, dipingerlo ideologicamente come stato canaglia no». Poi, c’è la profonda tristezza che suscita l’idea che in una nazione che ha avuto le leggi razziali si stia lì a discutere di boicottaggi, chiusure e rinunce a scambi, ricerca e maggior cultura. Con l’aggravante che l’idea di oggi nasce direttamente in qualche ateneo. Per il resto, giusto concludere con le parole dedicate dal contro appello alla guerra in corso: «Noi firmatari condividiamo l’angoscia e il dolore per l’immensa tragedia che sta colpendo la popolazione di Gaza ed esprimiamo l’auspicio per un’immediata e incondizionata liberazione degli ostaggi e conclusione del conflitto».
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)