2023-09-09
La produzione Ilva sarà sotto la soglia. E Arcelor sventola la chiusura dei forni
I 4 milioni di tonnellate da contratto sono lontani: manca liquidità per materie prime. Lo Stato ha messo i soldi, i privati?Era l’8 settembre del 2018 quando il ministro Luigi Di Maio annunciava, ovviamente su Facebook, di aver risolto la grana Ilva dopo soli tre mesi di lavoro. L’ex ministro grillino - e attuale inviato Ue nei Paesi del Golfo - era a sua volta subentrato nella partita al collega Carlo Calenda. Ricorderanno tutti le manfrine e le polemiche tra i due. Risultato entrano nel sito di Taranto gli indiani di Arcelor Mittal e dopo un solo anno il governo di Giuseppe Conte cancella con una leggina lo scudo penale nato per garantire ai subentranti la tranquillità di operare. In ottemperanza alle richieste dei commissari, nel 2015 viene creato uno scudo penale che difende gli amministratori da illeciti ambientali compiuti nell’ambito di un percorso di bonifica. I 5 stelle alla fine del 2019 fanno saltare in Parlamento lo scudo penale (confermato da Conte e previsto a livello contrattuale) così Arcelor Mittal, dopo aver stappato una bottiglia di champagne, prende la scusa per chiedere una revisione del contratto. Cosa che avviene e ci porta alla situazione attuale. Stato e Arcelor Mittal a dicembre 2020 pattuiscono una joint venture, fissando alla data di maggio 2022 la scadenza per il cambio di controllo. Cioè Il passaggio delle quote di Invitalia dal 38% di minoranza al 60% di maggioranza. Arrivati a ridosso della data, i franco-indiani fanno di nuovo pesare i cambi normativi e ottengono una proroga di due anni. Il governo di Mario Draghi si beve la cosa e non fa nulla per cambiare la rotta.Nel frattempo subentra un nuovo governo, l’attuale, guidato da Giorgia Meloni. Vengono stanziati ben 2 miliardi: 1 per le bonifiche e l’altro per la società. Con un problema di fondo che il governo ha iniziato ad affrontare a dicembre dello scorso anno. Se Acciaierie d’Italia (questo il nome della joint venture) vorrà incassare i soldi dovrà ricapitalizzare e quindi per Arcelor Mittal significherà o scendere nel capitale o cacciare oltre 1,5 miliardi per mantenere il controllo. Questo era l’interrogativo che circolava dalle parti di Palazzo Chigi e soprattutto del Mimit a guida Adolfo Urso. Un esproprio però sarebbe stata una pubblicità così negativa da rendere l’opzione non percorribile. La palla così è passata di nuovo nelle mani di Lucia Morselli. Inutile pensare che il presidente Franco Bernabè potesse sbloccare la situazione. In tutto ciò abbiamo dimenticato la famiglia Riva. A Taranto la Corte d’Assise li ha condannati per reati ambientali, mentre a Milano li ha assolti per non aver causato alcun crac: l’accusa usata in sostanza per perpretare l’esproprio. Riavvolgendo il nastro come sarebbe cambiata la storia? Chissà. Sappiamo due cose. La prima è che nel giugno 2021, quando i prezzi dell’acciaio erano alle stelle, l’Iva aumentò il numero di cassintegrati. Nel momento in cui l’azienda franco-indiana negli altri stabilimenti metteva sul mercato lavorati a caldo a 1.100 euro alla tonnellata, con marginalità di 700 euro, a Taranto manager, sindacati e Confindustria si sono messi d’accordo per cassa ordinaria per circa 4.000 dipendenti. È anche per questo motivo che le varie situazioni hanno permesso all’azienda siderurgica di sfilarsi in più occasioni, salvo poi avviare nuove trattative sempre nelle sapienti mani di Lucia Morselli che ancora oggi è alla guida dell’ex colosso, condividendo la poltrona con lo Stato. O meglio con i rappresentanti scelti da Invitalia. Segnale di continuità sempre ammantato dalla transizione green che ci riporta a quel 2018. All’epoca la produzione annua di acciaio a Taranto era scesa al livello più basso: 3,5 milioni di tonnellate. L’asticella che dovrebbe contraddistinguere la produzione del 2023 attesterà i livelli comunque sotto i 4 milioni, che da contratto sarebbe la soglia minima da raggiungere. Solo che, a differenza dello scorso e dei precedenti anni, sappiamo una cosa in più. Sappiamo che nel frattempo, nel 2023, sono successe altre cose. Ad esempio lo scudo penale è stato ripristinato. I fondi stanziati sono in parti stati messi a terra, eppure il 2024 potrebbe riservare delle pessime sorprese. La chiusura dell’ultimo altoforno effettivamente in funzione. Ieri, un breve articolo pubblicato sul Foglio preannuncia la cassintegrazione per tutti i 10.000 lavoratori. L’articolo picchia duro su Di Maio. Omette però gli ultimi tre anni di storia e un altro dettaglio. I soci privati non utilizzano a pieno gli altoforni perché non c’è sufficiente materia prima. Perché l’azionista franco-indiano che nel frattempo macina miliardi di utili non garantisce flussi di liquidità. Niente cash per fare scorta di materie prime e quindi torniamo a livelli minimi di produzione che sono paragonabili a quelli del 1965, primo anno di entrata in funzione. La notizia a chiusura del pezzo fogliante è un chiaro messaggio dell’azienda alla politica. E qui ci riporta alla tratta Roma-Bari-Taranto. L’ultimo decreto su Ilva è a firma Palazzo Chigi e se ne occupa il ministro Raffaele Fitto. Su tutto ciò vigila con le solite pressioni il governatore Michele Emiliano. Scuole di pensiero diverse. C’è chi vuole Lucia Morselli fuori e chi desidera rimanga dentro. Non si può tornare a dare la colpa a Di Maio, le ultime mosse politiche hanno permesso di recuperare il terreno perduto.I soldi lo Stato li ha messi i franco-indiani non ancora. Questo è il punto. Aspettare sei mesi significa dover usare l’aspersorio a Taranto e dire addio all’acciaio. Non è una minaccia la nostra, un dato di fatto. Altro che transizione green.
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