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2018-06-26
La Procura di Roma si muove: «No alla registrazione dei bimbi delle coppie gay»
ANSA
Stop alle trascrizioni anagrafiche per i figli di «due padri» e «due madri». La Procura di Roma è scesa ufficialmente in campo con un ricorso al tribunale civile che contesta la decisione del Campidoglio di registrare all'anagrafe in modo automatico, senza cioè alcuna istruttoria, gli atti di nascita e adozione di bambini figli di due genitori dello stesso sesso. Una decisione maturata dopo che in diversi comuni italiani, da quello di Gabicce Mare a quello di Torino fino, appunto, alla Capitale, nelle ultime settimane i sindaci si erano arrogati il diritto di procedere autonomamente, per conto loro, all'iscrizione all'anagrafe di figli di coppie arcobaleno. Come se fosse possibile venire al mondo grazie a due uomini o due donne. Una chiara negazione della realtà però permessa da alcune sentenze, che avevano aperto alla possibilità di queste trascrizioni previo accertamento, da parte dei giudici, dell'«idoneità affettiva» e della «capacità di educare e istruire il minore» nonché dell'«ambiente familiare dell'adottante».
Le registrazioni di atti di nascita e adozione nazionale estera di figli di famiglie arcobaleno erano e sono dunque permesse, sì, ma non in modo automatico tramite i Comuni. Che è esattamente quel che alcune amministrazioni locali hanno pensato bene di fare, e che è stato impugnato dalla Procura di Roma grazie, dettaglio non marginale, al gruppo di pm che si occupa di reati contro le donne e i minori coordinato dal procuratore aggiunto Maria Monteleone, e dopo una lunga valutazione supervisionata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone. Nel dettaglio, il ricorso della magistratura romana si basa su due casi distinti nella procedura ma simili nei contenuti: quelli di una coppia di donne e di una coppia di uomini che si erano rivolte al comune di Roma richiedendo, e subito ottenendo, la trascrizione dell'adozione avvenuta fuori dall'Italia. Il peso dell'iniziativa della Procura è notevole non solo perché di mezzo c'è un possibile stravolgimento del diritto di famiglia, ma anche in vista della sentenza che in autunno, proprio su questo tema, la Cassazione emetterà a sezioni unite.
Degna di nota, peraltro, è la tempistica di questo ricorso, promosso dalla stessa Procura dove meno di una settimana fa i rappresentanti di Generazione Famiglia e Citizengo, capeggiati da Filippo Savarese, depositavano ben cinque esposti per altrettante Procure della penisola, contestando proprio la trascrizione anagrafica di atti di nascita esteri riguardanti i figli di «due padri» e «due madri». Che i pro family ci abbiano visto giusto è altresì confermato dal fatto che i pm capitolini si sono mossi sulla base del medesimo impianto giuridico dei loro esposti, tutti richiamanti l'articolo 95 del Dpr 396 del 2000, che al secondo comma attribuisce proprio al procuratore della Repubblica la facoltà di richiedere «la cancellazione di un atto indebitamente registrato».
«Siamo molto contenti di questa iniziativa della Procura», commenta Savarese, comprensibilmente soddisfatto, «perché certifica la fondatezza dei nostri esposti e riconosce un dato fondamentale: i figli nascono sempre da un padre e da una madre». Appoggia il ricorso della magistratura anche Simone Pillon, senatore leghista capogruppo in Commissione giustizia, il quale da un lato sottolinea come la prassi delle trascrizioni di atti di nascita arcobaleno celi il «tentativo di legittimare l'utero in affitto e la compravendita di gameti umani» e, dall'altro, annuncia che a questo proposito la settimana prossima presenterà un'interrogazione su quello che è «uno dei più gravi delitti contro la dignità delle donne e dei loro bambini».
In attesa di vedere quali saranno i responsi dei giudici, e se la prassi pro Lgbt di alcuni Comuni sarà convalidata o sconfessata, c'è da segnalare una polemica sorta nelle scorse ore sempre sulle cosiddette nuove famiglie rispetto nel Siracusano, dove don Sebastiano Gulinello, parroco della chiesa dell'Immacolata di Priolo, ha negato il sacramento della comunione a due donne, Paola Desi e Maria Grimaldi, che proprio a Priolo, lo scorso 6 aprile, si erano unite civilmente. Com'era prevedibile, le reazioni delle associazioni arcobaleno contro questa decisione non si sono fatte attendere, e i commenti sono stati durissimi. Da parte sua, invece, don Sebastiano ribatte d'essersi attenuto alle regole che in effetti, dinnanzi a peccatori manifesti, non soltanto autorizzano ma obbligano il sacerdote a negare l'eucaristia a tutela, direbbe san Cipriano, della «santità» e dell'«onore della Chiesa».
Tempi duri, insomma, per il movimento arcobaleno, che dall'elezione di Trump in poi, dopo anni di vento in poppa, si trova a dover fare i conti con uno scenario complessivo se non ostile certamente non più così favorevole. Si tratta ora di capire, come dicevamo, se i paladini dei cosiddetti diritti civili avranno ancora dalla loro almeno la frangia più «creativa» della magistratura, oppure neppure quella. Staremo a vedere. Comunque vada, una cosa è certa: l'estate in corso, per il fronte Lgbt, è molto più calda di quella segnata dalla colonnina di mercurio.
Giuliano Guzzo
Il finto diritto di non mettere al mondo figli
No, non è semplicemente una questione di soldi. Quando si discute dello spaventoso calo demografico che affligge l'Europa, e l'Italia in particolare, spesso si chiamano in causa le difficili condizioni economiche dei più giovani e delle nuove famiglie. Il problema, in effetti, esiste, ed è anche parecchio grave. Ma il crollo delle nascite affonda le radici ben più in profondità, è prima di tutto una questione culturale, di mentalità.
A dimostrarlo c'è una tendenza che va imponendosi con forza crescente, tanto da trasformarsi in una sorta di movimento. È l'orgoglio delle «non mamme», quelle che in inglese si definiscono childfree. Donne che rivendicano il diritto a non mettere al mondo bambini. Il loro punto di vista lo ha sintetizzato in un libro fresco di stampa (Non me lo chiedete più. Childfree. La libertà di non volere figli e non sentirsi in colpa, Harper Collins) Michela Andreozzi.
Attrice, sceneggiatrice, nel 2017 ha girato Nove e lune e mezza, commedia con Claudia Gerini che affrontava il tema della maternità surrogata. Ora si dedica a raccontare la propria vicenda e quella di altre donne felici di non aver partorito. «Sono una #childfree», scrive, «così si definiscono oggi le donne come me nel resto del mondo [...]. Un modo piuttosto recente di vivere e pensare la femminilità. Childfree, senza figli, è diverso da childless, priva di figli. Una scelta versus una casualità. Uno stile di vita, ben diverso da una condizione».
«Un tempo una donna senza figli era diversa», continua la Andreozzi. «Si trovava in una condizione particolare. Aveva un problema. Poteva essere, a seconda dei casi: sterile, zitella o suora. Oggi una donna può scegliere - attenzione al verbo - che “no, grazie, non ne voglio"». Già, una donna può scegliere. E infatti tantissime scelgono di non riprodursi.
Alcuni dei motivi alla base di questa decisione li ha elencati qualche anno fa Cameron Diaz, testimonial dichiarata del movimento childfree. «Avere figli significa molto più lavoro», ha dichiarato. «Significa avere vite diverse dalla tua di cui sei responsabile. E io non l'ho fatto. Questo ha reso le cose più facili per me». Insomma, il discorso è chiaro: i figli sono un impegno gravoso, che pesa soprattutto sulle spalle della madre, dunque chi ce lo fa fare?
Intendiamoci, qui non stiamo affatto colpevolizzando le donne che non intendono avere bambini. Notiamo soltanto che questa scelta binaria è piuttosto curiosa. Carriera, divertimento, femminilità da un lato; fatica, compromessi e maternità dall'altro. Siamo sicuri che sia l'unica prospettiva possibile? È interessante, a questo proposito, ciò che che scrive la celebre psicanalista francese Sylviane Giampino in Perché le mamme che lavorano si sentono colpevoli? (Salani).
La studiosa, sulla base di dati scientifici piuttosto approfonditi, spiega, tra le altre cose, che «non c'è un legame diretto tra il lavoro della madre e la salute psicologica dei figli. Gli studi e le ricerche condotti dal 1970 in poi non rivelano differenze sostanziali e durature sullo sviluppo sociale, intellettuale e motorio dei bambini».
Il che, ovviamente, è utile a lenire il «senso di colpa» delle madri lavoratrici. Ma serve anche a capire che, in effetti, è possibile lavorare e avere figli. Certo, per evitare che una madre sia sfiancata da entrambe le incombenze è necessario un aiuto, non solo all'interno della famiglia, ma pure da parte delle istituzioni. Ed è qui che il ruolo della retorica childfree si fa ambiguo. Lottare per «il diritto a non avere figli» distoglie da altre rivendicazioni. Perché non lottare, per esempio, affinché sia possibile lavorare e avere figli senza essere abbandonati dallo Stato? Separare la maternità dalla libertà serve esattamente a questo: a dimostrare che non avere figli è meglio. Del resto, una donna che non ha bambini è una lavoratrice molto più disponibile e sfruttabile.
Identica funzione ha la retorica della «scelta». Io scelgo di vivere senza bambini, ripete la childfree. Questo ragionamento ha un'altra faccia: la donna che ha un figlio ha «scelto» di averlo. Ha deciso lei, «da sola». E da sola, adesso, lo deve gestire. Sylviane Giampino riassume bene il concetto: «L'hai voluto? Adesso te lo tieni». È colpa tua se hai messo al mondo un neonato, quindi non lamentarti. Non chiedere aiuto allo Stato, alla società, arrangiati. Solo che avere figli non è mai soltanto una scelta del singolo. «La contraccezione e l'aborto», spiega la Giampino, «hanno indotto a credere che il desiderio di un figlio rispondesse alla stessa logica del desiderio di una macchina. In realtà quando si desidera un figlio non si sa cosa si vuole, si desidera qualcosa che non si conosce». Soprattutto, non si desidera un oggetto, un giocattolo. Il figlio non è un'entità di cui beneficia soltanto la madre: è un dono di cui gode il popolo nella sua interezza. Certo, si può «scegliere» di non avere bambini. Resta da vedere quanto sia realmente libera tale scelta.
Francesco Borgonovo
Oggi più che mai bisogna difendere il valore della «Humanae vitae»
Cinquant'anni sono un tempo sufficiente per verificare l'utilità o la validità di un'ideologia e di una politica, di un nuovo stile musicale o di un'invenzione scientifica. Ma anche per le questioni etiche le cose sono simili. Dopo che nel maggio del 1968 era scoppiata, da Parigi a New York, la rivoluzione studentesca contro i presunti padroni, a Roma il vicario di Cristo decise di mettere un punto fermo al dilagare del vietato vietare sessantottino. Papa Paolo VI, dopo aver nominato una commissione di studio, ed aver ripreso in mano quanto era stato evitato dal Concilio (1962-1965) e da Giovanni XXIII, pubblicò il 25 luglio di quell'anno fatidico, l'enciclica Humanae vitae.
L'enciclica difende la famiglia tradizionale di impianto biblico, vieta l'aborto ed ogni tipo di anticoncezionale (inclusa la vasectomia e la sterilizzazione), e propone ai cattolici la regolazione naturale della fertilità. La differenza morale, secondo il pontefice, sta in questo. Una cosa è un atto sessuale legittimo (ovvero tra coniugi) in un tempo che si presuppone di non fertilità della donna; una cosa ben diversa è l'uso della sessualità finalizzata al piacere edonistico, con il tentativo (che riesca o meno) di privare l'unione sessuale delle sue virtualità procreative. Non si può dire che l'enciclica sia un documento vaticano contro il Sessantotto, ciò sarebbe troppo riduttivo. È certo però che la condanna netta e senza eccezioni dell'aborto e della contraccezione - cose che proprio allora iniziavano a dilagare in Occidente - andava in senso opposto al moto di liberazione dei costumi proposto dai vari Daniel Cohn Bendit, Mario Capanna e gli altri profeti del nuovo.
La contestazione all'enciclica fu tale che Paolo VI da quell'anno alla morte (1978) non pubblicò più alcuna enciclica. Gli storici del cristianesimo assicurano che né prima né dopo vi fu mai un documento pontificio così criticato, contestato e sabotato come l'Humanae vitae. E questo per due motivi. Anzitutto il fatto che il documento, un po' come fu per il celebre Sillabo di papa Pio IX nell'Ottocento, era un colpo duro per le tendenze dominanti della cultura del momento. Mentre tutti osannavano la dea Libertà ed alcuni persino la dea Anarchia, ecco che il Papa, il padre per antonomasia dei popoli cristiani, metteva un limite, tracciava una linea, difendeva una trincea morale prima ancora che politica: certi comportamenti non si possono sdoganare.
Un secondo motivo, ancor più al cuore delle contestazioni, fu questo. Dopo gli anni del bergamasco papa buono (1958-1963) e del Vaticano II (1962-1965), moltissimi fedeli e pastori auspicavano, per dirla in breve, una Chiesa al passo coi tempi. E i tempi, nella logica allora prevalente, erano segnati dall'antiautoritarismo, dal rifiuto di ogni morale tradizionale e patriarcale, sino al libertinismo più o meno estremista (droghe e sesso libero osannati e rivendicati nelle piazze). Così, fu proprio dall'interno della Chiesa che venne, in perfetta simbiosi con i progressisti laici all'estero, il moto di ribellione all'enciclica. Lo storico Roberto de Mattei (nel saggio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, 2010) ha descritto così il contesto: «Pochi giorni dopo [la pubblicazione], il 30 luglio 1968, con il titolo di Contro l'enciclica di Papa Paolo, il New York Times pubblicò un appello firmato da oltre 200 teologi, che invitava i cattolici a disubbidire all'enciclica di Paolo VI […]. Si tratta di qualche cosa che non si era mai visto nella lunga - e pur tormentata - storia della Chiesa. Ma il fatto eccezionale […] è che la contestazione non provenne solo da teologi e sacerdoti, ma anche da alcuni episcopati, tra cui, in primis, quello belga, capeggiato dal cardinale Primate Leo Suenens».
Da allora si ebbe una spaccatura storica e mai più completamente rientrata tra i cattolici più consapevoli, attivi e militanti. I conservatori, fedeli alla morale tradizionale, e i progressisti o neo modernisti che della critica all'Humanae vitae fecero una bandiera. Tra di essi, anche autori destinati a diventare in seguito i numi della teologia più avanzata e autorevole come il tedesco Karl Rahner (1904-1984), considerato da molti il san Tommaso del XX secolo.
E oggi? Oggi la schiera di coloro che nella Chiesa vorrebbero archiviare l'insegnamento di Humanae vitae si è infittita, e moltissimi cattolici, anche praticanti, vivono la loro sessualità secondo la propria coscienza, ignorando o fingendo di ignorare le norme del cattolicesimo.
C'è da dire però che un enorme movimento pro life e pro family (visibile in manifestazioni oceaniche come il Family day o la Manif pour tous) ha conquistato terreno al di là e al di qua dell'Oceano, e se l'aborto resta legale in Occidente è però sempre più criticato, specie dai giovani e dal personale sanitario. I medici ora vedono bene al computer ciò che non poteva vedersi a occhi nudi 40 anni fa... Lo stesso dicasi, seppur in scala minore, per la contraccezione. Ormai vi sono dei punti fermi che 50 anni di sperimentalismo contraccettivo non possono cancellare. Ad esempio, è ovvio, non esiste una contraccezione sicura e infallibile al 100% (né in rapporto alla gravidanza indesiderata né in relazione alle malattie sessualmente trasmissibili, come l'Aids) e d'altra parte molte pillole anticoncezionali femminili sono dannose o almeno pericolose per la salute delle donne.
La condanna di Paolo VI è stata dunque profetica e i suoi successori hanno seguito il suo insegnamento. Giovanni Paolo II, disapprovando sia la contraccezione che l'aborto, li definì «come frutti di una medesima pianta» (Evangelium vitae, 13).
Papa Francesco in un discorso recente ha messo in relazione la difesa della famiglia tradizionale, la protezione dell'embrione e la base etica necessaria ad ogni civiltà. La civiltà infatti ha dei pilastri che sono stati scossi e minati nel mezzo secolo post Sessantotto: è ora di finirla. Questo governo, nel suo piccolo, può rappresentare l'inizio di un nuovo inizio. Chissà.
Fabrizio Cannone
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Ricorso al tribunale civile contro la decisione del Campidoglio di iscrivere all'anagrafe i piccoli con due mamme o due papà. È la risposta alla ribellione dei Comuni pro Lgbt.L'attrice e regista Michela Andreozzi riassume in un libro le istanze delle «childfree», donne orgogliose di non riprodursi. Dietro la retorica della «libertà di scelta», tuttavia, si nasconde un grande inganno. E la volontà di creare lavoratrici disponibili.Oggi più che mai bisogna difendere il valore della Humanae vitae. Cinquant'anni dopo la pubblicazione, l'enciclica di Paolo VI è centrale per l'Occidente.Lo speciale contiene tre articoliStop alle trascrizioni anagrafiche per i figli di «due padri» e «due madri». La Procura di Roma è scesa ufficialmente in campo con un ricorso al tribunale civile che contesta la decisione del Campidoglio di registrare all'anagrafe in modo automatico, senza cioè alcuna istruttoria, gli atti di nascita e adozione di bambini figli di due genitori dello stesso sesso. Una decisione maturata dopo che in diversi comuni italiani, da quello di Gabicce Mare a quello di Torino fino, appunto, alla Capitale, nelle ultime settimane i sindaci si erano arrogati il diritto di procedere autonomamente, per conto loro, all'iscrizione all'anagrafe di figli di coppie arcobaleno. Come se fosse possibile venire al mondo grazie a due uomini o due donne. Una chiara negazione della realtà però permessa da alcune sentenze, che avevano aperto alla possibilità di queste trascrizioni previo accertamento, da parte dei giudici, dell'«idoneità affettiva» e della «capacità di educare e istruire il minore» nonché dell'«ambiente familiare dell'adottante». Le registrazioni di atti di nascita e adozione nazionale estera di figli di famiglie arcobaleno erano e sono dunque permesse, sì, ma non in modo automatico tramite i Comuni. Che è esattamente quel che alcune amministrazioni locali hanno pensato bene di fare, e che è stato impugnato dalla Procura di Roma grazie, dettaglio non marginale, al gruppo di pm che si occupa di reati contro le donne e i minori coordinato dal procuratore aggiunto Maria Monteleone, e dopo una lunga valutazione supervisionata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone. Nel dettaglio, il ricorso della magistratura romana si basa su due casi distinti nella procedura ma simili nei contenuti: quelli di una coppia di donne e di una coppia di uomini che si erano rivolte al comune di Roma richiedendo, e subito ottenendo, la trascrizione dell'adozione avvenuta fuori dall'Italia. Il peso dell'iniziativa della Procura è notevole non solo perché di mezzo c'è un possibile stravolgimento del diritto di famiglia, ma anche in vista della sentenza che in autunno, proprio su questo tema, la Cassazione emetterà a sezioni unite. Degna di nota, peraltro, è la tempistica di questo ricorso, promosso dalla stessa Procura dove meno di una settimana fa i rappresentanti di Generazione Famiglia e Citizengo, capeggiati da Filippo Savarese, depositavano ben cinque esposti per altrettante Procure della penisola, contestando proprio la trascrizione anagrafica di atti di nascita esteri riguardanti i figli di «due padri» e «due madri». Che i pro family ci abbiano visto giusto è altresì confermato dal fatto che i pm capitolini si sono mossi sulla base del medesimo impianto giuridico dei loro esposti, tutti richiamanti l'articolo 95 del Dpr 396 del 2000, che al secondo comma attribuisce proprio al procuratore della Repubblica la facoltà di richiedere «la cancellazione di un atto indebitamente registrato».«Siamo molto contenti di questa iniziativa della Procura», commenta Savarese, comprensibilmente soddisfatto, «perché certifica la fondatezza dei nostri esposti e riconosce un dato fondamentale: i figli nascono sempre da un padre e da una madre». Appoggia il ricorso della magistratura anche Simone Pillon, senatore leghista capogruppo in Commissione giustizia, il quale da un lato sottolinea come la prassi delle trascrizioni di atti di nascita arcobaleno celi il «tentativo di legittimare l'utero in affitto e la compravendita di gameti umani» e, dall'altro, annuncia che a questo proposito la settimana prossima presenterà un'interrogazione su quello che è «uno dei più gravi delitti contro la dignità delle donne e dei loro bambini».In attesa di vedere quali saranno i responsi dei giudici, e se la prassi pro Lgbt di alcuni Comuni sarà convalidata o sconfessata, c'è da segnalare una polemica sorta nelle scorse ore sempre sulle cosiddette nuove famiglie rispetto nel Siracusano, dove don Sebastiano Gulinello, parroco della chiesa dell'Immacolata di Priolo, ha negato il sacramento della comunione a due donne, Paola Desi e Maria Grimaldi, che proprio a Priolo, lo scorso 6 aprile, si erano unite civilmente. Com'era prevedibile, le reazioni delle associazioni arcobaleno contro questa decisione non si sono fatte attendere, e i commenti sono stati durissimi. Da parte sua, invece, don Sebastiano ribatte d'essersi attenuto alle regole che in effetti, dinnanzi a peccatori manifesti, non soltanto autorizzano ma obbligano il sacerdote a negare l'eucaristia a tutela, direbbe san Cipriano, della «santità» e dell'«onore della Chiesa».Tempi duri, insomma, per il movimento arcobaleno, che dall'elezione di Trump in poi, dopo anni di vento in poppa, si trova a dover fare i conti con uno scenario complessivo se non ostile certamente non più così favorevole. Si tratta ora di capire, come dicevamo, se i paladini dei cosiddetti diritti civili avranno ancora dalla loro almeno la frangia più «creativa» della magistratura, oppure neppure quella. Staremo a vedere. Comunque vada, una cosa è certa: l'estate in corso, per il fronte Lgbt, è molto più calda di quella segnata dalla colonnina di mercurio.Giuliano Guzzo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/procura-roma-gay-registrazione-2581234891.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-finto-diritto-di-non-mettere-al-mondo-figli" data-post-id="2581234891" data-published-at="1765883735" data-use-pagination="False"> Il finto diritto di non mettere al mondo figli No, non è semplicemente una questione di soldi. Quando si discute dello spaventoso calo demografico che affligge l'Europa, e l'Italia in particolare, spesso si chiamano in causa le difficili condizioni economiche dei più giovani e delle nuove famiglie. Il problema, in effetti, esiste, ed è anche parecchio grave. Ma il crollo delle nascite affonda le radici ben più in profondità, è prima di tutto una questione culturale, di mentalità. A dimostrarlo c'è una tendenza che va imponendosi con forza crescente, tanto da trasformarsi in una sorta di movimento. È l'orgoglio delle «non mamme», quelle che in inglese si definiscono childfree. Donne che rivendicano il diritto a non mettere al mondo bambini. Il loro punto di vista lo ha sintetizzato in un libro fresco di stampa (Non me lo chiedete più. Childfree. La libertà di non volere figli e non sentirsi in colpa, Harper Collins) Michela Andreozzi. Attrice, sceneggiatrice, nel 2017 ha girato Nove e lune e mezza, commedia con Claudia Gerini che affrontava il tema della maternità surrogata. Ora si dedica a raccontare la propria vicenda e quella di altre donne felici di non aver partorito. «Sono una #childfree», scrive, «così si definiscono oggi le donne come me nel resto del mondo [...]. Un modo piuttosto recente di vivere e pensare la femminilità. Childfree, senza figli, è diverso da childless, priva di figli. Una scelta versus una casualità. Uno stile di vita, ben diverso da una condizione». «Un tempo una donna senza figli era diversa», continua la Andreozzi. «Si trovava in una condizione particolare. Aveva un problema. Poteva essere, a seconda dei casi: sterile, zitella o suora. Oggi una donna può scegliere - attenzione al verbo - che “no, grazie, non ne voglio"». Già, una donna può scegliere. E infatti tantissime scelgono di non riprodursi. Alcuni dei motivi alla base di questa decisione li ha elencati qualche anno fa Cameron Diaz, testimonial dichiarata del movimento childfree. «Avere figli significa molto più lavoro», ha dichiarato. «Significa avere vite diverse dalla tua di cui sei responsabile. E io non l'ho fatto. Questo ha reso le cose più facili per me». Insomma, il discorso è chiaro: i figli sono un impegno gravoso, che pesa soprattutto sulle spalle della madre, dunque chi ce lo fa fare? Intendiamoci, qui non stiamo affatto colpevolizzando le donne che non intendono avere bambini. Notiamo soltanto che questa scelta binaria è piuttosto curiosa. Carriera, divertimento, femminilità da un lato; fatica, compromessi e maternità dall'altro. Siamo sicuri che sia l'unica prospettiva possibile? È interessante, a questo proposito, ciò che che scrive la celebre psicanalista francese Sylviane Giampino in Perché le mamme che lavorano si sentono colpevoli? (Salani). La studiosa, sulla base di dati scientifici piuttosto approfonditi, spiega, tra le altre cose, che «non c'è un legame diretto tra il lavoro della madre e la salute psicologica dei figli. Gli studi e le ricerche condotti dal 1970 in poi non rivelano differenze sostanziali e durature sullo sviluppo sociale, intellettuale e motorio dei bambini». Il che, ovviamente, è utile a lenire il «senso di colpa» delle madri lavoratrici. Ma serve anche a capire che, in effetti, è possibile lavorare e avere figli. Certo, per evitare che una madre sia sfiancata da entrambe le incombenze è necessario un aiuto, non solo all'interno della famiglia, ma pure da parte delle istituzioni. Ed è qui che il ruolo della retorica childfree si fa ambiguo. Lottare per «il diritto a non avere figli» distoglie da altre rivendicazioni. Perché non lottare, per esempio, affinché sia possibile lavorare e avere figli senza essere abbandonati dallo Stato? Separare la maternità dalla libertà serve esattamente a questo: a dimostrare che non avere figli è meglio. Del resto, una donna che non ha bambini è una lavoratrice molto più disponibile e sfruttabile. Identica funzione ha la retorica della «scelta». Io scelgo di vivere senza bambini, ripete la childfree. Questo ragionamento ha un'altra faccia: la donna che ha un figlio ha «scelto» di averlo. Ha deciso lei, «da sola». E da sola, adesso, lo deve gestire. Sylviane Giampino riassume bene il concetto: «L'hai voluto? Adesso te lo tieni». È colpa tua se hai messo al mondo un neonato, quindi non lamentarti. Non chiedere aiuto allo Stato, alla società, arrangiati. Solo che avere figli non è mai soltanto una scelta del singolo. «La contraccezione e l'aborto», spiega la Giampino, «hanno indotto a credere che il desiderio di un figlio rispondesse alla stessa logica del desiderio di una macchina. In realtà quando si desidera un figlio non si sa cosa si vuole, si desidera qualcosa che non si conosce». Soprattutto, non si desidera un oggetto, un giocattolo. Il figlio non è un'entità di cui beneficia soltanto la madre: è un dono di cui gode il popolo nella sua interezza. Certo, si può «scegliere» di non avere bambini. Resta da vedere quanto sia realmente libera tale scelta. 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Papa Paolo VI, dopo aver nominato una commissione di studio, ed aver ripreso in mano quanto era stato evitato dal Concilio (1962-1965) e da Giovanni XXIII, pubblicò il 25 luglio di quell'anno fatidico, l'enciclica Humanae vitae. L'enciclica difende la famiglia tradizionale di impianto biblico, vieta l'aborto ed ogni tipo di anticoncezionale (inclusa la vasectomia e la sterilizzazione), e propone ai cattolici la regolazione naturale della fertilità. La differenza morale, secondo il pontefice, sta in questo. Una cosa è un atto sessuale legittimo (ovvero tra coniugi) in un tempo che si presuppone di non fertilità della donna; una cosa ben diversa è l'uso della sessualità finalizzata al piacere edonistico, con il tentativo (che riesca o meno) di privare l'unione sessuale delle sue virtualità procreative. Non si può dire che l'enciclica sia un documento vaticano contro il Sessantotto, ciò sarebbe troppo riduttivo. È certo però che la condanna netta e senza eccezioni dell'aborto e della contraccezione - cose che proprio allora iniziavano a dilagare in Occidente - andava in senso opposto al moto di liberazione dei costumi proposto dai vari Daniel Cohn Bendit, Mario Capanna e gli altri profeti del nuovo. La contestazione all'enciclica fu tale che Paolo VI da quell'anno alla morte (1978) non pubblicò più alcuna enciclica. Gli storici del cristianesimo assicurano che né prima né dopo vi fu mai un documento pontificio così criticato, contestato e sabotato come l'Humanae vitae. E questo per due motivi. Anzitutto il fatto che il documento, un po' come fu per il celebre Sillabo di papa Pio IX nell'Ottocento, era un colpo duro per le tendenze dominanti della cultura del momento. Mentre tutti osannavano la dea Libertà ed alcuni persino la dea Anarchia, ecco che il Papa, il padre per antonomasia dei popoli cristiani, metteva un limite, tracciava una linea, difendeva una trincea morale prima ancora che politica: certi comportamenti non si possono sdoganare. Un secondo motivo, ancor più al cuore delle contestazioni, fu questo. Dopo gli anni del bergamasco papa buono (1958-1963) e del Vaticano II (1962-1965), moltissimi fedeli e pastori auspicavano, per dirla in breve, una Chiesa al passo coi tempi. E i tempi, nella logica allora prevalente, erano segnati dall'antiautoritarismo, dal rifiuto di ogni morale tradizionale e patriarcale, sino al libertinismo più o meno estremista (droghe e sesso libero osannati e rivendicati nelle piazze). Così, fu proprio dall'interno della Chiesa che venne, in perfetta simbiosi con i progressisti laici all'estero, il moto di ribellione all'enciclica. Lo storico Roberto de Mattei (nel saggio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, 2010) ha descritto così il contesto: «Pochi giorni dopo [la pubblicazione], il 30 luglio 1968, con il titolo di Contro l'enciclica di Papa Paolo, il New York Times pubblicò un appello firmato da oltre 200 teologi, che invitava i cattolici a disubbidire all'enciclica di Paolo VI […]. Si tratta di qualche cosa che non si era mai visto nella lunga - e pur tormentata - storia della Chiesa. Ma il fatto eccezionale […] è che la contestazione non provenne solo da teologi e sacerdoti, ma anche da alcuni episcopati, tra cui, in primis, quello belga, capeggiato dal cardinale Primate Leo Suenens». Da allora si ebbe una spaccatura storica e mai più completamente rientrata tra i cattolici più consapevoli, attivi e militanti. I conservatori, fedeli alla morale tradizionale, e i progressisti o neo modernisti che della critica all'Humanae vitae fecero una bandiera. Tra di essi, anche autori destinati a diventare in seguito i numi della teologia più avanzata e autorevole come il tedesco Karl Rahner (1904-1984), considerato da molti il san Tommaso del XX secolo. E oggi? Oggi la schiera di coloro che nella Chiesa vorrebbero archiviare l'insegnamento di Humanae vitae si è infittita, e moltissimi cattolici, anche praticanti, vivono la loro sessualità secondo la propria coscienza, ignorando o fingendo di ignorare le norme del cattolicesimo. C'è da dire però che un enorme movimento pro life e pro family (visibile in manifestazioni oceaniche come il Family day o la Manif pour tous) ha conquistato terreno al di là e al di qua dell'Oceano, e se l'aborto resta legale in Occidente è però sempre più criticato, specie dai giovani e dal personale sanitario. I medici ora vedono bene al computer ciò che non poteva vedersi a occhi nudi 40 anni fa... Lo stesso dicasi, seppur in scala minore, per la contraccezione. Ormai vi sono dei punti fermi che 50 anni di sperimentalismo contraccettivo non possono cancellare. Ad esempio, è ovvio, non esiste una contraccezione sicura e infallibile al 100% (né in rapporto alla gravidanza indesiderata né in relazione alle malattie sessualmente trasmissibili, come l'Aids) e d'altra parte molte pillole anticoncezionali femminili sono dannose o almeno pericolose per la salute delle donne. La condanna di Paolo VI è stata dunque profetica e i suoi successori hanno seguito il suo insegnamento. Giovanni Paolo II, disapprovando sia la contraccezione che l'aborto, li definì «come frutti di una medesima pianta» (Evangelium vitae, 13). Papa Francesco in un discorso recente ha messo in relazione la difesa della famiglia tradizionale, la protezione dell'embrione e la base etica necessaria ad ogni civiltà. La civiltà infatti ha dei pilastri che sono stati scossi e minati nel mezzo secolo post Sessantotto: è ora di finirla. Questo governo, nel suo piccolo, può rappresentare l'inizio di un nuovo inizio. Chissà. Fabrizio Cannone
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Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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