Djokovic fuori, gli stragisti dentro: il modello Australia è andato in pezzi

La foto di Naveed Akram, l’attentatore affiliato a una cellula australiana dell’Isis che con suo padre Sajid Akram ha ucciso 16 persone che celebravano vicino Sidney la festa ebraica dell’Hannukkah, ferendone altre 38, circola da ore, accostata a quella di Novak Djokovic. Il meme, accompagnato dalla scritta «Una di queste due persone è stata espulsa dall’Australia», contrappone il tennista serbo, respinto dall’Australia nel 2022 per non essersi sottoposto a vaccinazione anti Covid, a uno degli autori della strage, a indicare le contraddizioni (eufemismo) dei controlli di frontiera australiani.
Controlli ispirati alle politiche dell’accoglienza e dell’integrazione spesso evocate dal primo ministro australiano Anthony Albanese, laburista, che in queste ore è stato attaccato duramente dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Pour cause: Akram Jr. era già noto alle forze dell’ordine dal 2019 per i suoi stretti legami con una cellula terroristica dello Stato islamico con sede a Sydney ma, ha fatto sapere lo stesso Albanese, «nelle valutazioni effettuate non era emersa alcuna indicazione che lasciasse presupporre minacce in corso o minacce di violenza». In effetti chi non ha una bandiera del Califfato in macchina, come quella ritrovata nell’auto dei due attentatori? Netanyahu si è scatenato contro Albanese: «Il vostro governo (che il 22 settembre ha formalizzato il riconoscimento dello Stato di Palestina, ndr) non ha fatto nulla per fermare la diffusione dell’antisemitismo in Australia». Per Marina Rosenberg, della Anti-Defamation League, «quello che sta accadendo in Australia è un campanello d’allarme per tutto il mondo».
Bondi Beach, spiaggia libera e aperta a tutti, a 20 minuti da Sidney, è - era - il simbolo dell’accoglienza e dell’immigrazione di massa nell’Australia orgogliosa della tolleranza. Il continente australiano ha accolto negli anni Sessanta e Settanta ondate di migranti greci e italiani (raccontate anche nel celebre film con Alberto Sordi Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata). Negli anni Settanta e Ottanta sono arrivati i rifugiati vietnamiti e libanesi, negli anni Novanta cinesi e coreani. L’allora governo conservatore, guidato da John Howard, ha imposto una stretta all’immigrazione illegale, incoraggiando in compenso quella legale, finché non è arrivata la migrazione delle popolazioni di religione musulmana, che ha provocato forse i più feroci scontri culturali fino ad oggi. Contro i simboli dell’islamismo si era espressa lo scorso 24 novembre la senatrice del partito di destra One Nation, Pauline Hanson, indossando un burqa in Senato a seguito del rifiuto della camera alta di concederle il permesso di introdurre un disegno di legge sul divieto di indossare il velo: il Senato l’ha censurata.
La percentuale di australiani che si identificano come musulmani è oggi superiore al 3 per cento. I cittadini di religione ebraica, però, sebbene costituiscano una comunità più ristretta (soltanto lo 0,4 per cento della popolazione) sono arrivati prima di tutti: Bondi Beach è stata sempre l’epicentro della comunità ebraica di Sydney, da quando i rifugiati sono giunti dall’Europa fuggendo prima dai nazisti, poi dai comunisti, prima e dopo la seconda guerra mondiale. E sono loro ad essere finiti nel mirino: solo quindici giorni fa, l’Executive Council of Australian Jewry aveva pubblicato un rapporto che evidenziava un aumento esponenziale di attacchi antisemiti (abusi verbali, assalti fisici, vandalismo, messaggi violenti e scritte antisemite). Se la media prima del 7 ottobre era di circa 400 incidenti l’anno, nel 2024 sono saliti a 2.062. Albanese ha nominato un commissario all’antisemitismo, Jillian Segal, che mesi fa ha prodotto un documento, ma il governo non ha ancora risposto formalmente (anche se ieri Albanese ha elencato le misure adottate su varie questioni). Alcune delle raccomandazioni di Segal erano state molto contestate e il governo sembrava non sapere cosa fare, dovendosi destreggiare tra le diverse istanze della società multiculturale australiana e il peso degli elettori musulmani a Sydney. Le maglie larghe nei controlli alle frontiere, il lassismo della security interna, che ha minimizzato i chiari precedenti di uno dei due attentatori, insieme con l’ondata antisemita in crescita, hanno fatto il resto: la sparatoria di massa è la più sanguinosa degli ultimi trent’anni. Alla retorica di governo sull’antisemitismo, insomma, è mancata la leadership di Albanese, considerata non convincente.
Oggi, la linea sembra più chiara: già prima dell’efferato attacco di domenica, un recente sondaggio Resolve aveva rilevato che il 53 per cento degli australiani vorrebbe un freno all’immigrazione di massa, che negli ultimi anni è cresciuta oltre misura. E se l’eroe che ha fermato uno dei due attentatori, Ahmed Al Ahmed, è un rifugiato di religione islamica e di origine siriana (memento utile a ricordare quanto sia errato confondere un’intera comunità con le azioni di un singolo), il fatto che fosse privo di visto (a differenza dei due attentatori) rende ancora più plastico lo stato di confusione delle politiche migratorie e di sicurezza australiane.





