2024-09-27
I giudici vogliono gestire i confini. Ecco perché processano Salvini
Il procedimento in corso a Palermo ha davvero una natura ideologica, ma non solo nel senso che intende delegittimare il leader leghista. L’obiettivo è più ambizioso: sottrarre alla politica il controllo delle frontiere.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di cassazione In un certo senso hanno forse ragione coloro i quali negano che quello in corso a Palermo nei confronti di Matteo Salvini sia un processo «politico». Salvini, com’è noto, è imputato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per non aver aderito, quando era ministro dell’Interno, alla richiesta di far sbarcare in un porto italiano un certo numero di «migranti» tratti in salvo, al largo delle coste libiche, dalla nave Open arms, battente bandiera spagnola. In effetti, se per «politico» si intende un processo in cui la finalità dell’accusa sia soltanto quella di «far fuori» per via giudiziaria un partito o un personaggio politicamente avversi, non può dirsi che tale sia la caratteristica del processo in questione. Il che non vuol dire, però - come da molti si vorrebbe far credere - che alla sua origine, conformemente alla normalità dei casi, ci sia soltanto la constatata esistenza di una condotta chiaramente costitutiva di un illecito penale, per cui si debba procedere nei confronti di chi ne appaia responsabile. Vuol dire, invece, che la finalità del processo va ben oltre quella che potrebbe essere costituita dalla sola delegittimazione politica di Salvini, per effetto della sua eventuale condanna, giacché il vero obiettivo è quello della pronuncia di una sentenza «esemplare», dalla quale risulti dimostrato che dev’essere la magistratura, nelle sue varie articolazioni (penale, civile e amministrativa), e non il potere politico, a dare le linee direttive per la gestione dell’intero fenomeno dell’immigrazione in Italia da paesi extracomunitari. Significativo appare, al riguardo, il fatto che, nella vicenda che ha dato luogo al processo, abbiano assunto rilievo determinante due interventi della magistratura: il primo, costituito dal provvedimento con il quale, il 14 agosto 2019, il Tar Lazio sospendeva l’efficacia del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale italiano, disposto dal ministro dell’Interno nei confronti della Open arms, in applicazione del dl numero 53/2019 (cosiddetto Sicurezza bis) convertito con modifiche in legge numero 77/2019; il secondo, costituito dall’intervento, il 20 agosto 2019, del procuratore della Repubblica di Agrigento che effettuava di sua iniziativa una ispezione a bordo della nave, stazionante da alcuni giorni a ridosso dell’isola di Lampedusa e ne disponeva, quindi, il sequestro preventivo in relazione all’ipotizzato reato di rifiuto di atti d’ufficio a carico dei pubblici ufficiali, indicati, al momento, come «ignoti», che non avevano fino a quel momento autorizzato lo sbarco dei «migranti»; sbarco che, conseguentemente, aveva luogo subito dopo. Entrambi tali interventi, al di là della loro formale legittimità, si fondano, nella sostanza, su di una interpretazione dell’intero complesso delle norme, soprattutto internazionali, in materia di soccorso in mare che si ritiene debba essere autoritativamente sovrapposta a quella, eventualmente divergente, delle autorità politico-amministrative funzionalmente preposte alla loro applicazione. Il principio al quale, di fatto, si ispira la suddetta interpretazione è, nell’essenziale, quello per cui tutti coloro che si siano messi in mare con l’intento di raggiungere l’Italia nella presumibile intenzione di chiedere una qualsiasi forma di protezione internazionale debbano esservi, in un modo o nell’altro, accolti, tanto se l’abbiano raggiunta autonomamente quanto se siano stati presi a bordo di una qualsiasi nave intervenuta per soccorrerli. È il medesimo principio che ritroviamo all’origine della sistematica disapplicazione, con le più varie motivazioni - a partire dalle prime pronunce del tribunale di Catania, in persona del giudice Iolanda Apostolico - del dl numero 20/2023, convertito con modifiche nella legge numero 50/2023 (decreto Cutro), finalizzato a rendere più facile e veloce il respingimento di «migranti» provenienti da uno dei Paesi da ritenersi ufficialmente «sicuri». E lo stesso è a dirsi con riguardo anche a talune incredibili decisioni della Corte di cassazione, come quella che ha ritenuto non punibile, per aver agito nel preteso esercizio di un dovere, costituito dal condurre in un «luogo sicuro» i «migranti» presi a bordo al largo delle coste libiche, la nota «capitana» Carola Rackete, resasi responsabile di resistenza a pubblico ufficiale per aver speronato, con la nave di cui era al comando, una motovedetta della Guardia di Finanza che, come da ordini ricevuti, aveva cercato di impedirle l’ingresso nel porto di Lampedusa. Ovvero l’altra sentenza, del 16 dicembre 2021, che ha dichiarato non punibili, per aver agito in stato di pretesa «legittima difesa», alcuni «migranti» che, partiti dalle coste della Libia e poi soccorsi e presi a bordo dalla nave italiana Vos Thalassa in area Sar di competenza libica, avevano usato violenza e minaccia per costringere il comandante della stessa nave a far rotta verso l’Italia, invertendo quella che da lui era stata intrapresa verso la Libia. E gli esempi potrebbero continuare. Inutile dire che si tratta di un principio che non ha, in realtà, nella sua assolutezza, il benché minimo fondamento giuridico, tanto che, anche quando viene applicato (come nei casi appena menzionati), ci si guarda bene dall’enunciarlo formalmente. Si preferisce farlo trasparire mediante il ricorso, il più delle volte, ad una arbitraria e confusa commistione tra le norme che giustamente prevedono come dovere assoluto e ineludibile il soccorso di chiunque si trovi in mare in condizione di pericolo e quelle che disciplinano, in via generale, l’accesso alle procedure di protezione internazionale. Proprio per questo, però, volendosi fare in modo che al principio in questione tutti si attengano, non vi è nulla di meglio che creare il timore di incorrere, non osservandolo, in sanzioni penali. E un modo per ottenere tale risultato è sicuramente quello di far rientrare a colpi di martello in determinate ipotesi di reato, previste a tutt’altro fine dal codice penale, condotte che, per loro natura, qualora ritenute, a torto o a ragione, illegittime, potrebbero tutt’al più comportare, se poste in essere da soggetti investiti di pubbliche funzioni, l’annullamento o la disapplicazione dei provvedimenti da essi adottati e dar luogo a responsabilità soltanto civili o amministrative. Ed è appunto questo il caso delle condotte sulla base delle quali appaiono costruiti gli addebiti penali formulati a carico di Matteo Salvini, al quale sembra, quindi, toccata la non invidiabile condizione di essere colui nei confronti del quale deve trovare applicazione la nota regola, da taluni attribuita a Mao Zedong, del «colpirne uno per educarne cento».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)