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2021-06-01
Il processo Ilva sforna 300 anni di carcere
Getty Images-Ansa
Il disastro ambientale dell'Ilva di Taranto costa ai Riva una pesantissima sentenza di condanna in primo grado per complessivi 306 anni e due mesi. Il processo ribattezzato «Ambiente svenduto», con accuse a vario titolo che vanno dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla corruzione in atti giudiziari, all'omicidio colposo, al favoreggiamento, comprendendo anche altre imputazioni minori, si è chiuso con 22 anni di reclusione per Fabio Riva (il pm ne aveva chiesti 28) e 20 per Nicola (il pm ne aveva chiesti 25), gli ex proprietari del gruppo siderurgico.
La sentenza della Corte d'assise per i 47 imputati è stata letta in aula per un'ora e 46 minuti di fila ieri mattina dal presidente, Stefania D'Errico, alla trecentotrentesima udienza dei cinque anni di processo. Disposta, così come richiesto dalla Procura, rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Mariano Buccoliero, Remo Epifani, Raffaele Graziano e Giovanna Cannalire, la confisca degli impianti dell'area a caldo (che non avrà effetto sulla produzione fino a sentenza irrevocabile). Nonché la confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa (oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione) e Riva forni elettrici, per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro. Condanne pesanti anche per il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall'accusa come la «longa manus» dei Riva con le istituzioni e la politica, al quale sono stati inflitti 21 anni e 6 mesi di reclusione, e per l'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, condannato a 21 anni.
Agli uomini di fiducia dell'acciaieria, Alfredo Ceriani, Lanfranco Legnani, Agostino Pastorino e Giovanni Rebaioli, considerati i colonnelli dei Riva sono stati inflitti 18 anni e 6 mesi di pena. L'avvocato dei Riva, Francesco Perli, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi (l'accusa ne aveva chiesti 7). Per l'ex direttore del sito, Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia, partecipata di Invitalia, 4 anni (la richiesta era 17 anni). Condannato anche l'ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata: per lui i giudici hanno stabilito una pena di 3 anni e 6 mesi. Sei mesi in meno all'ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido: 3 anni di pena. Era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della Provincia affinché concedessero l'autorizzazione all'Ilva per l'uso della discarica interna. Tre anni anche all'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva. Condannato a 2 anni per favoreggiamento (pena sospesa) l'ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato. A molti dei condannati, a seconda delle pene, la Corte ha inflitto anche l'interdizione perpetua o per cinque anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi.
Assolti invece l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, presidente dell'Ilva nel periodo più difficile, l'ex assessore pugliese ora deputato di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, l'assessore regionale Donato Pentassuglia e l'ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano. I giudici hanno anche trasmesso gli atti alla Procura per l'ipotesi di falsa testimonianza per quattro testimoni, tra i quali l'ex arcivescovo di Taranto, Benigno Papa.
I Riva, tramite i loro avvocati, oltre ad annunciare ricorso, hanno rivendicato di aver investito ingenti capitali per migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme. Ma nonostante la questione provenisse da lontano, è con la loro gestione che è scoppiato il bubbone, con il sequestro degli impianti dell'area a caldo il 26 luglio 2012, dopo che l'azienda era stata definita strategica da un numero considerevole di decreti denominati Salva Ilva.
La città pugliese convive con la questione ambientale sin dal 1889, quando re Umberto I decise di piazzare lì l'Arsenale militare. Ma è dal 1960 che combatte con il siderurgico. Lo stabilimento viene costruito nel 1959 nel quartiere Tamburi su una superficie complessiva di oltre 15 milioni di metri quadrati. L'Italsider di Taranto, di proprietà pubblica, comincia a produrre nel luglio del 1960. La grave crisi degli anni Ottanta porta l'Iri a dismettere l'acciaieria, che nel maggio 1995 viene acquisita dal gruppo Riva. La privatizzazione, finalizzata dal primo governo Prodi (che si beccò non poche critiche per il prezzo di favore pagato dai Riva), era partita con il governo Dini.
Sequestri e arresti cominciati nel 2012 hanno messo fuori gioco i Riva. E a gennaio 2016 viene pubblicato il bando di gara con l'invito a manifestare interesse per Ilva. I commissari straordinari scelgono la cordata ArcelorMittal-Marcegaglia. Ma dopo soli tre anni, nel novembre 2019 ArcelorMittal annuncia di voler lasciare lo stabilimento, restituendolo allo Stato. Nel dicembre 2020 firma con Invitalia un accordo che fa entrare l'Agenzia al 50% nella compagine societaria. Caduto il governo Conte, però, anche se Domenico Arcuri si era intestato il salvataggio dell'azienda, il decreto non è mai arrivato. Questione di non poco conto, perché di fatto non sono stati versati i 400 milioni di euro annunciati.
Nichi non ci sta e urla al complotto. La sinistra finge di non conoscerlo
La condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione devono essere stati un duro colpo per l'ex governatore pugliese e paladino dei diritti Lgbt Nichi Vendola. I pm avevano chiesto una pena da 5 anni per concussione aggravata in concorso, in quanto avrebbe esercitato pressioni sull'ex direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato (condannato a 2 anni, pena sospesa), per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva.
Vendola è andato in escandescenza: «Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità», ha commentato, aggiungendo che «è come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova». Ed è andato a muso duro contro i giudici: «Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali».
Parole che sembrano lontanissime da quelle del 2009, quando fu indagato per gli scandali nel settore della Sanità l'assessore Alberto Tedesco: «Piena fiducia nell'operato della magistratura, impegnata nell'opera di bonifica della Pubblica amministrazione da qualsivoglia veleno corruttivo e da ogni rete affaristica», disse Vendola. Parole ribadite nel 2013, dopo il primo avviso di garanzia per i fatti dell'Ilva, quando giurò che lui e la sua giunta avevano sempre «tenuto la schiena dritta». Poi la solita menata: «Ho piena fiducia nella magistratura».
Ora, invece, annuncia: «Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata». E denuncia: «Sappiano che i giudici hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l'intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell'Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda».
È un fiume in piena Vendola: «Ho taciuto per quasi dieci anni, difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità». Nonostante l'ex governatore abbia suonato la tromba, il soccorso rosso è sembrato molto fiacco. A parte Michele Emiliano, che ha sottolineato come «la Regione Puglia dal 2005 in poi è stata l'unica istituzione ad aver concretamente agito per fermare quella scellerata gestione della fabbrica», il sindaco di Bari e presidente Anci, Antonio Decaro, che ha ricordato le «battaglie» per abbassare i livelli di diossina, e il collega democratico Gianni Pittella, Vendola sembra quasi isolato.
Dure anche le parole dell'ex legale del Gruppo Riva, Francesco Perli: «Non sono per nulla abbattuto anzi più determinato di prima a combattere per il prevalere della verità. Non ho concorso alla concussione di Assennato perché non ho partecipato ad alcuna riunione con Vendola in quanto nelle stesse ore ero in udienza avanti a un giudice del tribunale di Milano. Il procedimento Aia non è un procedimento segretato, come ha sostenuto Argentino, ma un procedimento aperto cui partecipano tutti gli enti e le associazioni ambientaliste e nel quale le migliori tecniche da adottare sono proposte dall'operatore tra le Bat vigenti e la loro appropiatezza valutata dalla Commissione Aaia».
E infine l'avvocato ha aggiunto: «Io ho fatto soltanto l'avvocato e i giudici di Taranto i faccendieri devono andare a scovarli da altre parti, magari più vicino. Nel dispositivo mi hanno anche inibito di svolgere la professione di legale. Una cosa vergognosa. Pensavo che le due giudici togate fossero di ben altro livello».
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Condannati gli ex proprietari Fabio (22) e Nicola (20) Riva, i collaboratori Girolamo Archinà (21 e mezzo) e Luigi Capogrosso (22), e molti manager. Pure i politici: dall'ex governatore Nichi Vendola (3 e 6 mesi) all'ex presidente della Provincia, Gianni Florido (3). Confiscata l'area a caldo.L'ex presidente pugliese si sfoga: «Mostruosità giuridica, un delitto contro la verità».Lo speciale contiene due articoli.Il disastro ambientale dell'Ilva di Taranto costa ai Riva una pesantissima sentenza di condanna in primo grado per complessivi 306 anni e due mesi. Il processo ribattezzato «Ambiente svenduto», con accuse a vario titolo che vanno dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla corruzione in atti giudiziari, all'omicidio colposo, al favoreggiamento, comprendendo anche altre imputazioni minori, si è chiuso con 22 anni di reclusione per Fabio Riva (il pm ne aveva chiesti 28) e 20 per Nicola (il pm ne aveva chiesti 25), gli ex proprietari del gruppo siderurgico. La sentenza della Corte d'assise per i 47 imputati è stata letta in aula per un'ora e 46 minuti di fila ieri mattina dal presidente, Stefania D'Errico, alla trecentotrentesima udienza dei cinque anni di processo. Disposta, così come richiesto dalla Procura, rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Mariano Buccoliero, Remo Epifani, Raffaele Graziano e Giovanna Cannalire, la confisca degli impianti dell'area a caldo (che non avrà effetto sulla produzione fino a sentenza irrevocabile). Nonché la confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa (oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione) e Riva forni elettrici, per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro. Condanne pesanti anche per il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall'accusa come la «longa manus» dei Riva con le istituzioni e la politica, al quale sono stati inflitti 21 anni e 6 mesi di reclusione, e per l'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, condannato a 21 anni. Agli uomini di fiducia dell'acciaieria, Alfredo Ceriani, Lanfranco Legnani, Agostino Pastorino e Giovanni Rebaioli, considerati i colonnelli dei Riva sono stati inflitti 18 anni e 6 mesi di pena. L'avvocato dei Riva, Francesco Perli, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi (l'accusa ne aveva chiesti 7). Per l'ex direttore del sito, Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia, partecipata di Invitalia, 4 anni (la richiesta era 17 anni). Condannato anche l'ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata: per lui i giudici hanno stabilito una pena di 3 anni e 6 mesi. Sei mesi in meno all'ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido: 3 anni di pena. Era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della Provincia affinché concedessero l'autorizzazione all'Ilva per l'uso della discarica interna. Tre anni anche all'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva. Condannato a 2 anni per favoreggiamento (pena sospesa) l'ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato. A molti dei condannati, a seconda delle pene, la Corte ha inflitto anche l'interdizione perpetua o per cinque anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi. Assolti invece l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, presidente dell'Ilva nel periodo più difficile, l'ex assessore pugliese ora deputato di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, l'assessore regionale Donato Pentassuglia e l'ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano. I giudici hanno anche trasmesso gli atti alla Procura per l'ipotesi di falsa testimonianza per quattro testimoni, tra i quali l'ex arcivescovo di Taranto, Benigno Papa. I Riva, tramite i loro avvocati, oltre ad annunciare ricorso, hanno rivendicato di aver investito ingenti capitali per migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme. Ma nonostante la questione provenisse da lontano, è con la loro gestione che è scoppiato il bubbone, con il sequestro degli impianti dell'area a caldo il 26 luglio 2012, dopo che l'azienda era stata definita strategica da un numero considerevole di decreti denominati Salva Ilva. La città pugliese convive con la questione ambientale sin dal 1889, quando re Umberto I decise di piazzare lì l'Arsenale militare. Ma è dal 1960 che combatte con il siderurgico. Lo stabilimento viene costruito nel 1959 nel quartiere Tamburi su una superficie complessiva di oltre 15 milioni di metri quadrati. L'Italsider di Taranto, di proprietà pubblica, comincia a produrre nel luglio del 1960. La grave crisi degli anni Ottanta porta l'Iri a dismettere l'acciaieria, che nel maggio 1995 viene acquisita dal gruppo Riva. La privatizzazione, finalizzata dal primo governo Prodi (che si beccò non poche critiche per il prezzo di favore pagato dai Riva), era partita con il governo Dini. Sequestri e arresti cominciati nel 2012 hanno messo fuori gioco i Riva. E a gennaio 2016 viene pubblicato il bando di gara con l'invito a manifestare interesse per Ilva. I commissari straordinari scelgono la cordata ArcelorMittal-Marcegaglia. Ma dopo soli tre anni, nel novembre 2019 ArcelorMittal annuncia di voler lasciare lo stabilimento, restituendolo allo Stato. Nel dicembre 2020 firma con Invitalia un accordo che fa entrare l'Agenzia al 50% nella compagine societaria. Caduto il governo Conte, però, anche se Domenico Arcuri si era intestato il salvataggio dell'azienda, il decreto non è mai arrivato. Questione di non poco conto, perché di fatto non sono stati versati i 400 milioni di euro annunciati.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/processo-ilva-300-anni-carcere-2653185571.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nichi-non-ci-sta-e-urla-al-complotto-la-sinistra-finge-di-non-conoscerlo" data-post-id="2653185571" data-published-at="1622488613" data-use-pagination="False"> Nichi non ci sta e urla al complotto. La sinistra finge di non conoscerlo La condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione devono essere stati un duro colpo per l'ex governatore pugliese e paladino dei diritti Lgbt Nichi Vendola. I pm avevano chiesto una pena da 5 anni per concussione aggravata in concorso, in quanto avrebbe esercitato pressioni sull'ex direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato (condannato a 2 anni, pena sospesa), per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Vendola è andato in escandescenza: «Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità», ha commentato, aggiungendo che «è come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova». Ed è andato a muso duro contro i giudici: «Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali». Parole che sembrano lontanissime da quelle del 2009, quando fu indagato per gli scandali nel settore della Sanità l'assessore Alberto Tedesco: «Piena fiducia nell'operato della magistratura, impegnata nell'opera di bonifica della Pubblica amministrazione da qualsivoglia veleno corruttivo e da ogni rete affaristica», disse Vendola. Parole ribadite nel 2013, dopo il primo avviso di garanzia per i fatti dell'Ilva, quando giurò che lui e la sua giunta avevano sempre «tenuto la schiena dritta». Poi la solita menata: «Ho piena fiducia nella magistratura». Ora, invece, annuncia: «Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata». E denuncia: «Sappiano che i giudici hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l'intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell'Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda». È un fiume in piena Vendola: «Ho taciuto per quasi dieci anni, difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità». Nonostante l'ex governatore abbia suonato la tromba, il soccorso rosso è sembrato molto fiacco. A parte Michele Emiliano, che ha sottolineato come «la Regione Puglia dal 2005 in poi è stata l'unica istituzione ad aver concretamente agito per fermare quella scellerata gestione della fabbrica», il sindaco di Bari e presidente Anci, Antonio Decaro, che ha ricordato le «battaglie» per abbassare i livelli di diossina, e il collega democratico Gianni Pittella, Vendola sembra quasi isolato. Dure anche le parole dell'ex legale del Gruppo Riva, Francesco Perli: «Non sono per nulla abbattuto anzi più determinato di prima a combattere per il prevalere della verità. Non ho concorso alla concussione di Assennato perché non ho partecipato ad alcuna riunione con Vendola in quanto nelle stesse ore ero in udienza avanti a un giudice del tribunale di Milano. Il procedimento Aia non è un procedimento segretato, come ha sostenuto Argentino, ma un procedimento aperto cui partecipano tutti gli enti e le associazioni ambientaliste e nel quale le migliori tecniche da adottare sono proposte dall'operatore tra le Bat vigenti e la loro appropiatezza valutata dalla Commissione Aaia». E infine l'avvocato ha aggiunto: «Io ho fatto soltanto l'avvocato e i giudici di Taranto i faccendieri devono andare a scovarli da altre parti, magari più vicino. Nel dispositivo mi hanno anche inibito di svolgere la professione di legale. Una cosa vergognosa. Pensavo che le due giudici togate fossero di ben altro livello».
Orazio Schillaci (Ansa)
Stiamo parlando della Cceps, la commissione centrale esercenti professioni sanitarie che funziona come una sorta di Corte d’Appello. Due giorni fa doveva svolgersi a Roma l’udienza, fissata a ridosso del Natale per esaminare i ricorsi di almeno 25 medici radiati dall’Ordine. Nemmeno il tempo di aprire la seduta, e subito è stata rinviata con data da destinarsi.
Il 18 sera, infatti, l’indipendenza e imparzialità dei componenti della Cceps è stata messa in discussione dalle istanze di ricusazione di uno dei legali dei medici radiati, l’avvocato Mauro Sandri. La presidente e il suo vice, così pure diversi membri dell’organo del ministero della Salute che esercita il giudizio di secondo grado, si sono già espressi contro le critiche nei confronti del vaccino Covid. In alcuni casi, anche contro gli stessi dottori che hanno presentato ricorso, si legge nella memoria di ricusazione.
Una cosa inaudita, che vanificherebbe qualsiasi conclusione della commissione. Non attiva da anni, la Cceps era stata ricostituita lo scorso ottobre dal ministro Schillaci su pressione di Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. A marzo, il capo dei medici si lamentava perché il ricorso «di fatto vanifica l’azione sanzionatoria degli Ordini, facendo sì che medici sospesi o addirittura radiati continuino a esercitare».
Così, per liquidare in fretta la questione, in un’udienza fissata per trattare i soli procedimenti dei medici radiati (in violazione del normale calendario), tutte le memorie scritte dei difensori dovevano essere presentate nella stessa mattinata del 19 e «date in pasto» a medici, a magistrati che il loro giudizio già l’hanno formulato.
Le istanze di ricusazione presentate dall’avvocato Sandri sono state nei confronti della presidente della Cceps, Giulia Ferrari, in quanto come componente del Consiglio di Stato ha partecipato alla stesura di numerose sentenze nelle quali ha «sempre respinto le domande di illegittimità delle sospensioni dal lavoro avanzate da pubblici dipendenti».
E nei confronti del vice presidente Oscar Marongiu «che ha partecipato a decisioni di contenuto analogo quale componente del Tar di Cagliari». Ma non è finita. La maggior parte dei componenti la Cceps per quanto riguarda i ricorsi dei medici sono professionisti che hanno fatto parte di Consigli dell'Ordine, che hanno emesso provvedimenti di radiazione e che hanno espresso, prima del processo, opinioni che fanno già chiaramente trasparire la posizione che avranno nel giudizio di secondo grado.
Tra questi c’è Giovanni Leoni, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Venezia e vice presidente nazionale Fnomceo. Il presidente a luglio 2022 si era opposto all’idea dell’allora governatore Luca Zaia di reintegrare i medici sospesi perché non vaccinati: «Sarebbe un pessimo messaggio», disse. E che aveva definito l’abolizione della sanzione ai no vax «un premio ai furbetti. Questa scelta non è un messaggio educativo alla popolazione sul rispetto delle regole». Qualcuno ha dei dubbi su come Leoni giudicherà il ricorso di medici quali Ennio Caggiano, Barbara Balanzoni, Fabio Milani, Riccardo Szumski? Sono solo alcuni dei dottori stimati, amati dai loro pazienti, però presi di mira dagli Ordini professionali perché osavano contrastare la non scienza imposta con i dpcm di Speranza e Conte.
Ennio Caggiano di Camponogara, nel Veneziano mandato a processo per aver compilato 16 certificati di esenzione dal vaccino ritenuti falsi dalla Procura di Venezia, è stato assolto da ogni accusa pochi mesi fa. Eppure il 20 maggio del 2022 il presidente dell’Ordine dei medici di Venezia ne firmò la radiazione. Oggi il medico si dice sconcertato di sapere che lo stesso Leoni dovrebbe valutare il suo ricorso. «L’incompatibilità assoluta. Invece di chiudere una vicenda che si trascina da anni, analizzando oggettivamente i fatti, vogliono ribadire che avevano ragione. È una cosa ridicola e tragica nello stesso tempo».
Un periodo, quello della pandemia e dei diktat, segnato anche da brutte storie di delazioni. Fabio Milani, stimato professionista bolognese non vaccinato, nel dicembre del 2021 curò con antibiotico e cortisone una famiglia con polmonite da Covid abbandonata a Tachipirina e vigile attesa dal proprio medico di famiglia. Segnalato dal collega all'Ordine, aveva subìto un lungo processo per esercizio abusivo della professione, conclusosi nel gennaio 2025 perché «il fatto non sussiste». Ma non era finita. Il medico venne radiato nell’agosto 2022 con l’accusa di aver violato il codice deontologico. Con quale imparzialità sarà giudicato in secondo grado da una simile commissione?
«Nessun medico radiato può essere giudicato per avere espresso opinioni critiche sulla gestione dell'emergenza sanitaria», ribadisce l’avvocato Sandri. «Nessuno mi ha denunciato per aver maltrattato un paziente», osserva Riccardo Szumski, il consigliere di Resistere Veneto risultato tra i più eletti alle ultime Regionali, evidenziando l’assurdità di una sanzione così grave. «Mi sembra una commissione non a tutela dei medici e dei pazienti, ma dell’obbedienza a ogni costo. E Schillaci era un collaboratore dell’ex ministro Roberto Speranza. Nella mia radiazione venne citata la frase del presidente Sergio Mattarella “non si invochi la libertà per sottrarsi all’obbligo vaccinale” ma la libertà, secondo me, è un bene assoluto».
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Antonio Filosa (Ansa)
La Commissione sta semplicemente «rinviando» l’obiettivo: l’impianto che aveva portato all’azzeramento delle emissioni allo scarico (e quindi alla fine dei motori termici) viene riformulato con un abbassamento delle emissioni del 90% rispetto al 2021. Il 10% residuo verrebbe coperto tramite strumenti di compensazione lungo la catena del valore: come, ad esempio, prodotti a minore intensità carbonica (acciaio low-carbon) e carburanti sostenibili. Quella voluta dell’Ue è una flessibilità «contabile» più che tecnologica, secondo il manager.
Filosa sostiene che questa architettura rischia di introdurre costi e complessità che i costruttori «di massa» assorbono peggio di quelli premium: «È una misura il cui costo potrebbe non essere alla portata dei costruttori di volume che servono la maggior parte dei cittadini». Tradotto: se la conformità dipende da risorse scarse (acciaio verde, e-fuels/biocarburanti certificati) con prezzi elevati e volatilità, il rischio è che tutti i problemi si scarichino proprio sui segmenti più sensibili al prezzo, comprimendo volumi e margini.
Stellantis segnala che non vede strumenti «ponte» sufficienti per rendere praticabile la transizione, in particolare nei veicoli commerciali, dove la competitività dell’elettrico dipende molto più che nelle auto da infrastrutture di ricarica, costo dell’energia, pianificazione flotte e disponibilità prodotto. Se l’adozione dei motori elettrici resta importante, il blocco al 2035 non genera crescita: può solo spostare i problemi su regole di compensazione e materiali verdi e costosi. La reazione dell’industria è dunque polarizzata: Renault valuta il pacchetto come un tentativo di gestire alcune criticità, mentre l’associazione industriale tedesca Vda lo bolla come «disastroso» per gli ostacoli pratici e di implementazione. La Commissione, invece, nega che si tratti di un arretramento: Stéphane Séjourné, commissario europeo per il mercato interno e i servizi, afferma che l’Europa non mette in discussione gli obiettivi climatici. Un altro funzionario Ue difende l’uso di questi meccanismi perché dovrebbero «creare un mercato di sbocco» per tecnologie e materiali necessari alla transizione.
Nel dibattito, inoltre, c’è anche l’asimmetria regolatoria transatlantica: negli Stati Uniti si osserva una traiettoria più favorevole per ibridi e termici, con revisione di incentivi e standard; non a caso Stellantis ha annunciato un piano di investimenti molto rilevante negli Usa. Il messaggio implicito è che, a parità di vincoli, la stabilità e l’economia della domanda influenzano dove si costruiscono capacità e catena del valore.
La verità è che la partita vera non è lo slogan «stop ai termici sì o no», ma la definizione dei dettagli che porteranno verso una transizione sostenibile: in particolare, si tratta della definizione di carburanti sostenibili e delle regole Mrv (monitoring, reporting, verification, un sistema obbligatorio dell'Unione Europea per il monitoraggio, la comunicazione e la verifica delle emissioni di gas serra) sulle norme industriali e, soprattutto, sulle misure lato domanda/infrastrutture che evitino che la compliance diventi un costo fisso.
Stellantis sostiene che, così com’è, la proposta non crea le sufficienti condizioni per crescere; la Commissione europea, dal canto suo, replica che serve una flessibilità che spinga filiere verdi europee senza abbandonare gli obiettivi industriali.
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