2021-06-01
Il processo Ilva sforna 300 anni di carcere
Condannati gli ex proprietari Fabio (22) e Nicola (20) Riva, i collaboratori Girolamo Archinà (21 e mezzo) e Luigi Capogrosso (22), e molti manager. Pure i politici: dall'ex governatore Nichi Vendola (3 e 6 mesi) all'ex presidente della Provincia, Gianni Florido (3). Confiscata l'area a caldo.L'ex presidente pugliese si sfoga: «Mostruosità giuridica, un delitto contro la verità».Lo speciale contiene due articoli.Il disastro ambientale dell'Ilva di Taranto costa ai Riva una pesantissima sentenza di condanna in primo grado per complessivi 306 anni e due mesi. Il processo ribattezzato «Ambiente svenduto», con accuse a vario titolo che vanno dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla corruzione in atti giudiziari, all'omicidio colposo, al favoreggiamento, comprendendo anche altre imputazioni minori, si è chiuso con 22 anni di reclusione per Fabio Riva (il pm ne aveva chiesti 28) e 20 per Nicola (il pm ne aveva chiesti 25), gli ex proprietari del gruppo siderurgico. La sentenza della Corte d'assise per i 47 imputati è stata letta in aula per un'ora e 46 minuti di fila ieri mattina dal presidente, Stefania D'Errico, alla trecentotrentesima udienza dei cinque anni di processo. Disposta, così come richiesto dalla Procura, rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Mariano Buccoliero, Remo Epifani, Raffaele Graziano e Giovanna Cannalire, la confisca degli impianti dell'area a caldo (che non avrà effetto sulla produzione fino a sentenza irrevocabile). Nonché la confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa (oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione) e Riva forni elettrici, per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro. Condanne pesanti anche per il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall'accusa come la «longa manus» dei Riva con le istituzioni e la politica, al quale sono stati inflitti 21 anni e 6 mesi di reclusione, e per l'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, condannato a 21 anni. Agli uomini di fiducia dell'acciaieria, Alfredo Ceriani, Lanfranco Legnani, Agostino Pastorino e Giovanni Rebaioli, considerati i colonnelli dei Riva sono stati inflitti 18 anni e 6 mesi di pena. L'avvocato dei Riva, Francesco Perli, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi (l'accusa ne aveva chiesti 7). Per l'ex direttore del sito, Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia, partecipata di Invitalia, 4 anni (la richiesta era 17 anni). Condannato anche l'ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata: per lui i giudici hanno stabilito una pena di 3 anni e 6 mesi. Sei mesi in meno all'ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido: 3 anni di pena. Era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della Provincia affinché concedessero l'autorizzazione all'Ilva per l'uso della discarica interna. Tre anni anche all'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva. Condannato a 2 anni per favoreggiamento (pena sospesa) l'ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato. A molti dei condannati, a seconda delle pene, la Corte ha inflitto anche l'interdizione perpetua o per cinque anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi. Assolti invece l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, presidente dell'Ilva nel periodo più difficile, l'ex assessore pugliese ora deputato di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, l'assessore regionale Donato Pentassuglia e l'ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano. I giudici hanno anche trasmesso gli atti alla Procura per l'ipotesi di falsa testimonianza per quattro testimoni, tra i quali l'ex arcivescovo di Taranto, Benigno Papa. I Riva, tramite i loro avvocati, oltre ad annunciare ricorso, hanno rivendicato di aver investito ingenti capitali per migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme. Ma nonostante la questione provenisse da lontano, è con la loro gestione che è scoppiato il bubbone, con il sequestro degli impianti dell'area a caldo il 26 luglio 2012, dopo che l'azienda era stata definita strategica da un numero considerevole di decreti denominati Salva Ilva. La città pugliese convive con la questione ambientale sin dal 1889, quando re Umberto I decise di piazzare lì l'Arsenale militare. Ma è dal 1960 che combatte con il siderurgico. Lo stabilimento viene costruito nel 1959 nel quartiere Tamburi su una superficie complessiva di oltre 15 milioni di metri quadrati. L'Italsider di Taranto, di proprietà pubblica, comincia a produrre nel luglio del 1960. La grave crisi degli anni Ottanta porta l'Iri a dismettere l'acciaieria, che nel maggio 1995 viene acquisita dal gruppo Riva. La privatizzazione, finalizzata dal primo governo Prodi (che si beccò non poche critiche per il prezzo di favore pagato dai Riva), era partita con il governo Dini. Sequestri e arresti cominciati nel 2012 hanno messo fuori gioco i Riva. E a gennaio 2016 viene pubblicato il bando di gara con l'invito a manifestare interesse per Ilva. I commissari straordinari scelgono la cordata ArcelorMittal-Marcegaglia. Ma dopo soli tre anni, nel novembre 2019 ArcelorMittal annuncia di voler lasciare lo stabilimento, restituendolo allo Stato. Nel dicembre 2020 firma con Invitalia un accordo che fa entrare l'Agenzia al 50% nella compagine societaria. Caduto il governo Conte, però, anche se Domenico Arcuri si era intestato il salvataggio dell'azienda, il decreto non è mai arrivato. Questione di non poco conto, perché di fatto non sono stati versati i 400 milioni di euro annunciati.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/processo-ilva-300-anni-carcere-2653185571.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nichi-non-ci-sta-e-urla-al-complotto-la-sinistra-finge-di-non-conoscerlo" data-post-id="2653185571" data-published-at="1622488613" data-use-pagination="False"> Nichi non ci sta e urla al complotto. La sinistra finge di non conoscerlo La condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione devono essere stati un duro colpo per l'ex governatore pugliese e paladino dei diritti Lgbt Nichi Vendola. I pm avevano chiesto una pena da 5 anni per concussione aggravata in concorso, in quanto avrebbe esercitato pressioni sull'ex direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato (condannato a 2 anni, pena sospesa), per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Vendola è andato in escandescenza: «Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità», ha commentato, aggiungendo che «è come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova». Ed è andato a muso duro contro i giudici: «Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali». Parole che sembrano lontanissime da quelle del 2009, quando fu indagato per gli scandali nel settore della Sanità l'assessore Alberto Tedesco: «Piena fiducia nell'operato della magistratura, impegnata nell'opera di bonifica della Pubblica amministrazione da qualsivoglia veleno corruttivo e da ogni rete affaristica», disse Vendola. Parole ribadite nel 2013, dopo il primo avviso di garanzia per i fatti dell'Ilva, quando giurò che lui e la sua giunta avevano sempre «tenuto la schiena dritta». Poi la solita menata: «Ho piena fiducia nella magistratura». Ora, invece, annuncia: «Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata». E denuncia: «Sappiano che i giudici hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l'intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell'Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda». È un fiume in piena Vendola: «Ho taciuto per quasi dieci anni, difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità». Nonostante l'ex governatore abbia suonato la tromba, il soccorso rosso è sembrato molto fiacco. A parte Michele Emiliano, che ha sottolineato come «la Regione Puglia dal 2005 in poi è stata l'unica istituzione ad aver concretamente agito per fermare quella scellerata gestione della fabbrica», il sindaco di Bari e presidente Anci, Antonio Decaro, che ha ricordato le «battaglie» per abbassare i livelli di diossina, e il collega democratico Gianni Pittella, Vendola sembra quasi isolato. Dure anche le parole dell'ex legale del Gruppo Riva, Francesco Perli: «Non sono per nulla abbattuto anzi più determinato di prima a combattere per il prevalere della verità. Non ho concorso alla concussione di Assennato perché non ho partecipato ad alcuna riunione con Vendola in quanto nelle stesse ore ero in udienza avanti a un giudice del tribunale di Milano. Il procedimento Aia non è un procedimento segretato, come ha sostenuto Argentino, ma un procedimento aperto cui partecipano tutti gli enti e le associazioni ambientaliste e nel quale le migliori tecniche da adottare sono proposte dall'operatore tra le Bat vigenti e la loro appropiatezza valutata dalla Commissione Aaia». E infine l'avvocato ha aggiunto: «Io ho fatto soltanto l'avvocato e i giudici di Taranto i faccendieri devono andare a scovarli da altre parti, magari più vicino. Nel dispositivo mi hanno anche inibito di svolgere la professione di legale. Una cosa vergognosa. Pensavo che le due giudici togate fossero di ben altro livello».