2019-02-18
Privilegi sindacali, i 5 stelle tornano indietro
Come i lettori sanno, non sempre condivido le idee grilline. Anzi, spesso le ritengo un impasto di idealismo e improvvisazione, anche se capisco che rispetto a quelle ciniche di chi ci stava prima possano incontrare il favore di molti italiani. Tuttavia, a prescindere da ciò, devo riconoscere che giorni fa avevo appreso con piacere che per primi i pentastellati si apprestavano a intervenire sui contributi previdenziali figurativi. Non so se tutti siano a conoscenza di che cosa si nasconda dietro a questa terminologia un po' ostica. Nella pratica significa contributi non pagati, ma che ugualmente consentono a chi ne sia intestatario di ottenere, a fine carriera, la pensione. Tradotto, vuol dire che ci sono persone che quando si ritirano dal lavoro possono godere di un assegno previdenziale pieno anche se non hanno raggiunto i requisiti in vigore per la maggioranza degli italiani.Vi state chiedendo (...)(...) chi siano questi privilegiati? Principalmente i politici e i sindacalisti, i quali possono svolgere attività politica e sindacale senza che nessuno paghi per loro la pensione, anche se, quando verrà l'ora, la pensione la otterranno e senza riduzioni. Vi sembra una follia, in un momento in cui si parla di tagli alle pensioni, di contributi di solidarietà e di interventi per evitare che il trattamento previdenziale sia attualizzato all'inflazione? Sì, si tratta certamente di una pazzia, ma è un meccanismo che a oggi nessuno si è mai azzardato a toccare.Istituiti in tempi lontani, allo scopo di agevolare chi fa politica o chi rappresenta i lavoratori, i contributi figurativi avrebbero dovuto essere un'eccezione, ma in realtà si sono trasformati nella regola, aprendo una voragine nei conti dell'Inps. Il sistema funziona così. Quando una persona viene eletta a un incarico pubblico, la legge stabilisce che il datore di lavoro conservi il posto al dipendente diventato consigliere comunale, sindaco o assessore. Già, ma siccome nel periodo in cui questi svolge un'attività in favore della collettività non lavora in azienda, chi gli paga i contributi previdenziali in modo che alla fine del proprio mandato l'eletto non si ritrovi senza pensione? L'azienda, ovviamente, non versa un euro e così fa pure l'amministrazione pubblica, Comune, provincia o altro. Risultato? Paga Pantalone, cioè il contribuente. Il politico fa altro, ma l'Inps lo considera regolarmente al lavoro. L'azienda non lo retribuisce e non versa i contributi, ma l'ente li contabilizza come se fossero stati pagati. Lo stesso succede con i sindacalisti: Cgil, Cisl e Uil hanno decine di migliaia di dipendenti, ma la pensione dei funzionari è interamente a carico dell'istituto, non del sindacato. Tutto ciò significa che, nonostante i sindacalisti siano rappresentanti di un'organizzazione privata che difende gli interessi di una parte, il conto è a carico di tutti gli italiani.Già questo pare abbastanza incredibile, in quanto non si comprende a che titolo un lavoratore autonomo, già gravato da tasse e contributi, debba pagare con le proprie imposte la pensione di sindacalisti che non solo non lo rappresentano, ma a volte sono addirittura in contrasto con i suoi interessi. Tuttavia c'è anche di peggio. Già, perché nel 1996, quando fu varata la riforma del sistema previdenziale che introdusse il contributivo al posto del retributivo, i capi di Cgil, Cisl e Uil ottennero di poter versare a fine carriera dei contributi aggiuntivi. In pratica, ai sindacalisti fu permesso ciò che non è consentito al comune cittadino, ossia pagare un po' di più a fine carriera per far crescere l'assegno previdenziale come se quella retribuzione avesse riguardato l'intero periodo contributivo. Con questo ingegnoso meccanismo, molti funzionari sindacali hanno ottenuto una forte rivalutazione della propria pensione nonostante per decenni la loro contribuzione fosse solo figurativa, cioè non pagata. Per gli ex capi del sindacato ciò significa che al posto di un assegno ai minimi oggi godono di un assegno ai massimi, proprio grazie a questo escamotage.Fin qui la storia degli anni passati. Ma nelle scorse settimane i grillini hanno presentato un emendamento per intervenire sulle pensioni figurative, allo scopo di ridurle. Tutto bene? No, perché all'improvviso, l'altroieri, i pentastellati hanno deciso di ritirare la proposta. Per quale motivo? Non è chiaro. Qualcuno spiega che la misura è solo rinviata, ma non si capiscono le ragioni del rinvio. Una sola cosa ci e chiara: che al momento sono state tagliate le pensioni di chi ha legittimamente versato i contributi, mentre chi non lo ha fatto continua a godere di un assegno corposo anche se non lo ha guadagnato. Insomma, uno vale uno, ma non per la pensione.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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