2024-02-25
Prisca Agustoni: «Uso la poesia per interrogare la realtà»
Prisca Agustoni (Edimilson De Almeida Pereira)
La scrittrice: «I miei versi sono come una ruspa che scava nei detriti tossici per estrarvi quello che ancora vive e vibra. Le parole sono una “telecamera” che osserva e ascolta il paesaggio. Ho imparato a sospendere giudizi e paragoni per sopravvivere».Prisca Agustoni (Lugano, 1975) è una poetessa e scrittrice svizzera. Dopo la laurea all’Università di Ginevra si trasferisce in Brasile dove sposa il poeta Edimilson De Almeida Pereira, ottiene il dottorato in letteratura comparata all’Università Cattolica di Manas Girais, quindi professoressa ordinaria all’Università Juiz de Fora. Autrice poliglotta, scrive in italiano, portoghese, e francese, ha pubblicato storie per l’infanzia e diverse raccolte di poesie tra le quali Inventario di voci (2001), Sorelle di fieno (2002), La Morsa (2007), le déni (2012), Poesie scelte (2013), Cosa resta del bianco (2014), Un ciel provisoire (2015), Il mondo mutilato (2020), L’ora zero (2020) e Lingua sommersa (2021). La sua ultima pubblicazione, Verso la ruggine (Interlinea, 2022), è stata finalista al premio Franco Fortini 2023 e le è valso il Premio Svizzero per la Letteratura 2023.Dalla placida e piccola svizzera alla popolosa animosità delle vastità e delle città brasiliane: come ha conciliato queste estreme visioni del mondo?«È un lento processo di sedimentazione, quello che mi ha permesso di sovrapporre alla visione del mondo che mi ha formata sin dalla nascita (in una Svizzera “pacata” sì, come dice lei, ma non priva di complessità e contraddizioni, multilingue e fortemente multiculturale, per lo meno nella città di Ginevra dove ho vissuto per dieci anni), la visione del mondo di un paese enorme e complesso in tutte le sue caratteristiche: territoriali, demografiche, ambientali, etniche, religiose, culturali e sociali. Di per sé, credo che non si tratti di risolvere questa convivenza dentro di me attraverso un processo di «conciliazione», peraltro forse impossibile, quanto piuttosto di una costante messa in tensione, uno sguardo che interroga, che si mantiene vigile, in movimento, che non cede mai alla banalizzazione o alla facile gerarchizzazione dei valori. Imparare a sospendere il giudizio e la comparazione, per andare alla ricerca delle ragioni profonde di determinato fenomeno, non soffermarmi sulle prime impressioni, al contrario, voler grattare oltre la patina. E far decantare. Ecco, questo è stato il mio manuale di sopravvivenza - che porto con me ovunque vada». La sua ultima raccolta di poesie è quel che i musicisti chiamerebbero un concept album: ovvero una raccolta di testi a tema. Ha tentato di raccontare il disastro ambientale e umano scaturito dal crollo di due dighe in Brasile, una nel 2015 e una nel 2019, causando l’inondazione di villaggi che sono stati travolti. Come è nato questo suo interesse e quali sono stati i fuochi del racconto in versi? Ha intervistato i superstiti?«Alla notizia della morte di oltre 200 persone, seguita dalla notizia, di difficile comprensione, della “morte del fiume”, un annuncio, questo, le cui dimensioni simboliche non riuscivo a cogliere, ho sentito la necessità di rompere il silenzio interiore che sulle prime mi aveva invaso. La parola poetica è il mio strumento di interrogazione della realtà, quindi sono partita da lì, usandola come una specie di ruspa che scava nei detriti tossici per estrarvi quello che ancora resta, vive e vibra. Ho visitato i luoghi (vicini alla mia città), incontrato persone (alcune delle quali conoscevo già), e soprattutto lavorato sulla lingua poetica, cercando di ripulirla dagli eccessi (di fango, di sentimento, di spiegazioni inutili). Volevo spostare la centralità del racconto in prima persona, dell’io poetico, e fare della mia lingua una specie di telecamera che osserva e “ascolta” il paesaggio in sé e, così facendo, ripartire da zero, come una specie di lingua dei primordi. Quando i biologi e gli ambientalisti hanno dichiarato che il fiume coinvolto nella tragedia, il rio Doce, era morto, mi è parso un evento dalle proporzioni epiche, e ho quindi pensato che il mio canto dovesse partire da lì, da un’epica frammentaria, senza eroi, ma con sopravvissuti (umani e non umani): quindi chi doveva in un qualche modo parlare, nel libro, erano loro». Dopo tutti questi anni di lavoro e scrittura, di viaggi, di pubblicazioni e traduzioni, lei crede ancora nella parola e nella letteratura? Come è cambiato questo sentire rispetto a quanto studiava e viveva in Europa, molti anni fa?«Credo che la parola poetica sia essenziale alla nostra sopravvivenza, essenziale perché capace di creare, vedere, anticipare altri mondi possibili - non una fuga, quindi, ma una specie di utopia incarnata: l’esperienza brasiliana mi mostra ogni giorno quanto sia necessario, da parte nostra, impegnarci per superare un quotidiano spesso brutale, che tende ad annientare ciò che abbiamo di vitale, quella pulsione che ci dovrebbe avvicinare orizzontalmente agli altri e alle altre forme di vita, non per forza umane, per farci sentire parte di un qualcosa di più grande, non circoscritto alla nostra E quando parlo di brutalità, non mi riferisco solo a contesti specifici dove regna la disuguaglianza sociale e la violenza (caratteristiche che spesso definiscono anche troppo velocemente il Brasile), perché la violenza è parte della nostra natura, del nostro stare con gli altri e con noi stessi, e si manifesta in molti modi: può essere esercitata da un individuo contro sé stesso, da un marito contro la moglie, da un/a docente contro gli studenti, umiliandoli, da un genitore con i figli - e viceversa. O contro altre forme di vita. La letteratura, la poesia in particolare, ci obbliga forse a rallentare, ad ascoltare, a fare un passo indietro».L’uomo riuscirà a correggersi o morirà della propria umanità?«È una domanda difficile e so di non avere nessuna risposta. Anche perché forse non saremo noi, umani, a cogliere la nostra fine, a “dirla”, ma chissà, lo farà il canto di un qualche gallo silvestre. O, come dico in una poesia del libro, sarà la tartaruga, “l’unica testimone della rovina”, una testimone “muta”».