2022-03-04
Prima intesa: corridoi per evacuare i civili
Il secondo round del negoziato si chiude con una mossa in favore della popolazione e l’impegno a sedersi al tavolo per una terza volta. Ma Vladimir Putin è duro: «Stiamo combattendo i neonazisti». Mosca e Washington stabiliscono una linea rossa come nella guerra fredda.Il francese tenta il dialogo con il leader russo, che però insiste: «Andremo fino in fondo».Lo speciale contiene due articoliIl tentativo di disgelo diplomatico tra Ucraina e Russia ha fatto un timidissimo passo avanti. La seconda tornata di negoziati - tenutasi ieri a Brest tra la delegazione di Kiev e quella di Mosca si è conclusa con un piccolo spiraglio di ottimismo. Sebbene i risultati nel complesso si siano rivelati inferiori alle aspettative, le due parti hanno raggiunto un accordo sui corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili e hanno stabilito di tenere un terzo colloquio negoziale all’inizio della prossima settimana. «Le parti hanno raggiunto un’intesa per fornire congiuntamente corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili e la consegna di farmaci e cibo nelle aree dei più aspri combattimenti con la possibilità - sottolineo - di un cessate il fuoco temporaneo per la durata dell’evacuazione nei settori in cui avviene», ha detto il negoziatore ucraino, Mykhailo Podolyak. «I ministeri della difesa russo e ucraino hanno concordato di fornire corridoi umanitari per i civili e un possibile cessate il fuoco temporaneo nelle aree in cui è in corso l’evacuazione», ha confermato il negoziatore russo, Vladimir Medinsky. Nelle stesse ore in cui si tenevano i negoziati, Volodymyr Zelensky, ha chiesto trattative dirette con Vladimir Putin, definendole «l’unico modo per fermare la guerra». «Non stiamo attaccando la Russia e non abbiamo intenzione di attaccarla. Cosa vuoi da noi? Lascia la nostra terra», ha detto. «Siediti con me. Soltanto non a 30 metri», ha proseguito, rivolgendosi al leader del Cremlino e riferendosi al lungo tavolo usato alcune settimane fa a Mosca da Putin ed Emmanuel Macron. Mentre la Casa Bianca ha ribadito che non sono in programma colloqui tra Joe Biden e il leader russo, il Pentagono e il ministero della Difesa di Mosca hanno attivato una linea di comunicazione, per evitare «errori di calcolo, incidenti militari ed escalation». Ieri si è poi tenuta una telefonata piuttosto tesa tra il capo del Cremlino e l’inquilino dell’Eliseo. Nell’occasione, il presidente russo ha detto di essere intenzionato a tirare dritto, sostenendo di voler procedere alla «denazificazione dell’Ucraina» e non risparmiando delle stoccate agli occidentali. Parlando successivamente, Putin ha anche dichiarato che «formazioni nazionaliste e neonaziste, che includono anche mercenari stranieri, anche dal Medio Oriente, stanno usando i civili come scudi umani». In tutto questo, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha ribadito gli obiettivi di Mosca nei negoziati: obiettivi che resterebbero per ora principalmente la demilitarizzazione e la neutralità dell’Ucraina. Il punto è che, come abbiamo già sottolineato nei giorni scorsi, è ben difficile che Kiev possa accettare una demilitarizzazione, così come un altro aspetto controverso risiede nel concetto di neutralità, invocato dai russi. Che cosa s’intende per neutralità? Un’equidistanza integrale tra Mosca e l’Occidente oppure una finlandizzazione, cioè un’Ucraina di fatto nell’orbita russa? Uno scenario, quest’ultimo, che il governo ucraino considera inammissibile. Così come inammissibile è, dall’altra parte, per Mosca la richiesta, formulata lunedì da Zelensky, di un ingresso dell’Ucraina nell’Ue. È probabile ritenere che le richieste «massimaliste» di entrambe le parti possano essere considerate come i punti di partenza delle trattative in corso: delle bandierine, cioè, da cui prendere le mosse, per cercare poi un compromesso. Non è tuttavia chiaro a che punto siano in concreto i negoziati. Certo, quello di ieri è un mezzo passo avanti: si tratta tuttavia di un progresso minimo, anche perché pare proprio che le aspettative fossero più alte. In tutto questo, non trascuriamo che le forze russe sono alle porte di Kiev (e ieri sera si segnalavano movimenti al confine tra Ucraina e Kazakhistan). Probabilmente Putin vuole far leva proprio su questo fattore, per aumentare la pressione sui negoziati. Ma se i negoziati continuassero a prolungarsi o dovessero naufragare, a finire sempre più sotto pressione potrebbe essere proprio il presidente russo, che si troverebbe davanti a un bivio: o ritirarsi o cercare di penetrare nella capitale. Messo davanti al primo scenario, Putin temerebbe di perdere la faccia. Tuttavia - qualora scegliesse la seconda opzione - rischierebbe di impantanarsi in una guerriglia urbana. Le ripercussioni internazionali intanto non si arrestano. Ieri, l’Arabia Saudita si è offerta come mediatrice nella crisi. Un gesto forse tutt’altro che disinteressato. In un primo momento, Riad aveva assunto una posizione piuttosto ambigua, poi - due giorni fa - ha votato all’Onu la storica risoluzione di condanna dell’invasione russa. Il fatto che ieri si sia tuttavia proposta come paciere dimostra che, alla prova dei fatti, i sauditi non abbiano troppa intenzione di voltare le spalle a Mosca, con cui, soprattutto negli ultimi anni, hanno stretto significativi rapporti. Del resto, anche la mediazione cinese è tutt’altro che disinteressata. Pechino si è astenuta sulla risoluzione dell’Onu e ha fatto sapere che non appoggerà le sanzioni finanziarie alla Russia. Il Dragone spera che, con la crisi ucraina, si allenti l’attenzione americana sull’Indo-Pacifico: un fattore che gli consentirebbe un più ampio margine di manovra su Taiwan. Non solo: Pechino sa che la crisi politica in corso con l’Occidente spingerà sempre più la Russia all’interno della propria orbita e punta probabilmente a sfruttare le mosse revisionistiche di Mosca, per picconare l’ordine internazionale emerso dalla fine della Guerra Fredda e marginalizzare così gli Stati Uniti. Washington e Bruxelles devono quindi fare attenzione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/prima-intesa-corridoi-per-evacuare-i-civili-2656836962.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="altra-telefonata-tra-macron-e-lo-zar-il-peggio-deve-ancora-venire" data-post-id="2656836962" data-published-at="1646341075" data-use-pagination="False"> Altra telefonata tra Macron e lo zar. «Il peggio deve ancora venire» «Il peggio deve ancora venire». La sintesi dell’Eliseo dopo la terza telefonata fra Emmanuel Macron e Vladimir Putin mette i brividi e conferma due certezze. La prima è la tendenza al velleitario degli interventi del presidente francese e leader pro tempore dell’Unione europea, mediatore considerato poco più di un turista per caso dal Cremlino. La seconda è che resta fondamentale continuare sulla strada della trattativa, l’unica possibile per scongiurare l’allargamento del conflitto. Ogni volta che Macron prende il telefono, legittima il dialogo con Putin e smantella la retorica guerrafondaia della sinistra italiana con l’elmetto, impegnata a sfilare sotto le bandiere della pace e - come in una realtà bipolare - a giocare in tinello con il kalashnikov di plastica del nipote sardina. Un viaggio, tre telefonate e un messaggio alla nazione in 25 giorni: non si può dire che Macron non ci stia provando. La sua sembra una gara di salto in alto con tre nulli, monsieur le président ha distrutto l’asticella ma non demorde. L’ultima conversazione, voluta da Putin, è un disastro. «È stata verificata la determinazione del presidente russo di andare fino in fondo», spiegano da Parigi. Per fermare l’invasione, Mosca ha chiesto la smilitarizzazione dell’Ucraina, il suo status neutrale e ha confermato che l’operazione sarà portata a termine «senza compromessi» a prescindere dai negoziati. L’obiettivo di Putin sarebbe quello «di prendere il controllo di tutta l’Ucraina» e la telefonata è servita «per chiedere a Macron di far evacuare gli stranieri dal Paese invaso». Pessimo segnale. Il presidente francese ha sottolineato che l’irrigidirsi delle posizioni creerà un deterioramento ulteriore dei rapporti fra Europa e Russia. Quello russo ha risposto che «le operazioni procedono per colpa del rifiuto ucraino di applicare gli accordi di Minsk (maggiore autonomia alle regioni russofone, ndr) e per la responsabilità degli occidentali che si comportano come in Jugoslavia con i bombardamenti di Belgrado». Una teoria inconsistente, a bombardare un paese indipendente oggi è l’Armata rossa. Putin ha anche accusato gli ucraini di «comportarsi come nazisti con crimini di guerra nei villaggi». La telefonata si sarebbe conclusa con una minaccia del leader russo: «Se gli ucraini non accettano il disarmo con metodi diplomatici, lo otterremo per via militare». Già l’8 febbraio Macron aveva tentato di disinnescare la crisi con un viaggio a Mosca, al termine del quale aveva annunciato: «Sono ottimista». Inutile infierire. Smentito dai fatti, l’Eliseo ha aperto un canale telefonico costante. Prima chiamata, mercoledì 23 febbraio con richiesta aI presidente russo di «fermare immediatamente l’avanzata». Per tutta risposta Putin ha spinto sull’acceleratore dei tank. Seconda telefonata, 28 febbraio. Macron chiede di «fermare gli attacchi contro civili e abitazioni private, preservare le infrastrutture civili e garantire la sicurezza sulle strade principali, in particolare a Kiev». Risposta di Putin: «Gli obiettivi sono solo militari e l’offensiva si fermerà solo se l’Ucraina accetterà la neutralità e il disarmo». Prima del terzo, infruttuoso colloquio, il leader francese lancia un messaggio ai cittadini russi: «Non siamo in guerra contro un grande popolo come il vostro. Aiutateci a difendere la pace». Nessuna breccia, Macron telefona e Putin avanza. Difficile che l’Europa delle baronesse, del gender fluid, delle brigate Thunberg e della resilienza urbi et orbi riesca a fare più di così. I Macron, le Ursule Von der Leyen, i Paolo Gentiloni non possono incarnarsi nottetempo in Henry Kissinger, Helmut Kohl o Papa Wojtyla. Ma questa è la diplomazia. Pure imperfetta, è più dignitosa della guerra di Piero (Fassino) e del grottesco comitato centrale permanente al Nazareno.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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