2020-03-13
Prima hanno nascosto il virus, ora sono eroi
Il tam tam è partito: giornali e tv pullulano di racconti su quanto sono bravi, belli e buoni i cinesi. Dimenticando che se siamo in queste condizioni lo dobbiamo esclusivamente ai loro silenzi e ai loro ritardi. E che Pechino vuol fare affari, non beneficenza.Nuova parola d'ordine: i cinesi salveranno il mondo. Non contenti di aver festeggiato l'inizio dell'epidemia ingozzandosi di involtini primavera e riso alla cantonese. Non contenti di aver aperto le porte a tutti quelli che arrivavano da Pechino al grido di «la quarantena è razzista». Non contenti di averli abbracciati a favore di qualsiasi telecamera, bollando chi non lo faceva come pericoloso fascioleghista. Non contenti di aver preteso le scusa da chi aveva detto il vero sulle loro abitudini alimentari. Non contenti di tutto ciò, i nostri immarcescibili mâitre à penser ora stanno dando prova delle loro inesauribili capacità, compiendo un altro decisivo balzo in avanti: in queste ore, infatti, stanno decretando la nomina dei cinesi a salvatori dell'universo, angeli del pianeta, buoni samaritani, quasi messia reincarnati. Praticamente un'assunzione diretta e collettiva in Paradiso. Non solo infatti i cinesi, a quanto si legge sui principali giornaloni, ci stanno indicando la strada da seguire con il «modello Wuhan», che tutto il mondo dovrà imparare a memoria e recitare cinque volte al giorno rivolgendosi alla Lunga Muraglia. Ma ci stanno anche venendo in soccorso vendendoci 100 milioni di mascherine, che noi pagheremo care e salate, ovviamente dopo aver fatto l'inchino. Del resto, la salvezza val bene un'umiliazione, no? «Modello cinese», titola l'editoriale La Stampa. «Modello cinese», rimbalza sul Corriere della Sera. «Modello cinese», dicono un po' tutti voltando la testa a Oriente e riempiendo gli occhi di ammirazione. Il tam tam è partito, lo si capisce: i giornali pullulano di racconti su quanto sono bravi, belli e buoni i cinesi. Hanno sconfitto il virus, hanno preso le decisioni giuste, hanno ridotto i casi (solo 8 a Wuhan), hanno superato il picco. E poi hanno le fabbriche più belle (producono mascherine al ritmo di 100 al minuto), hanno i tecnici migliori, gli ingegneri migliori, e anche i medici migliori, anzi se stiamo bravi ce ne mandano pure qualcuno qui. L'Organizzazione mondiale della sanità li elogia perché da loro la mortalità è stata più bassa che in Italia. I giornali esaltano le comunità cinesi nostrane che hanno saputo imporsi da sole le regole. Ci mancano solo la proposta di nominare il raviolo al vapore patrimonio dell'Unesco e quella di sostituire la Madonnina con la statua di Mao Tse Tung e poi le avremmo viste tutte. L'unica messa che si sta celebrando in Italia, in queste ore, è quella al Sacro Cuore dell'Eroico Cinese… Ora noi non vorremmo rovinare questo coro entusiasta e devoto, perciò ci permettiamo di suggerire ai paladini della beata cinesitudine di formulare e diffondere apposito vademecum per cronisti e telegiornalisti. Così che non sbaglino. Perché, si capisce, nell'esaltare le prodezze dei salvatori del mondo a qualcuno potrebbe sfuggire di penna che le mascherine che si stanno producendo nelle operose officine d'Oriente non arriveranno gratis, bensì saranno fatte debitamente pagare. Sarebbe disdicevole che qualcuno lo annotasse, non vi pare? Dunque nessuno avanzi il sospetto che la messianica Cina voglia fare affari anziché beneficenza, avendo tra l'altro a disposizione alcune delle migliori aziende di prodotti sanitari del mondo. E nessuno osi ricordare che invece qualche settimana fa dall'Italia partivano vagonate di mascherine, queste sì gentilmente offerte da Vaticano e affini. Altresì è meglio evitare di sottolineare che anche i mille ventilatori polmonari promessi da Pechino saranno regolarmente acquistati dall'Italia: l'eroico colosso cinese si è limitato a garantire che metterà il nostro ordine tra le sue priorità. Evitare di commentare il prezzo. Sottolineare la generosità di cotanto gesto. Bisognerebbe inoltre informare i cronisti che è cosa buona e giusta elogiare le gloriose e imperiture decisioni delle comunità cinesi in Italia, che hanno scelto autonomamente la quarantena e che si sono così sottratte all'infezione (oltre che alla vista). Ma attenzione a non nominare mai, come taluni improvvidamente fanno, che queste attività sono spesso irregolari e fanno concorrenza sleale agli italiani, preparandosi generosamente a gettarci sul lastrico, casomai riuscissimo a sopravvivere al coronavirus. Ergo, occorre apporre nel vademecum apposite norme cromatiche: esaltare le zone rosse, dimenticare il lavoro nero. Ma soprattutto per poter santificare come si conviene la superiorità dei cinesi rispetto alla vituperata Italia occorre dimenticare che se siamo in queste condizioni lo dobbiamo esclusivamente a loro. Ai loro silenzi. E ai loro ritardi. Si raccomandino pertanto i cantori del Cina-Per-Sempre-Show di omettere dai loro racconti e dai loro orizzonti il fatto che la dittatura comunista, prima di applicare le misure di contenimento financo eccessive e prive di ogni scrupolo umano come solo una dittatura può fare, ha tenuto nascosto per settimane le informazioni, ha sbattuto in cella il medico Li Wenliang che aveva detto la verità (e che per questa verità è poi morto), ha arrestato giornalisti, professori e scienziati che cercavano di sollevare il velo di silenzio, ha mentito sui dati, ha perso tempo e ha permesso così al virus di circolare liberamente nel mondo fino a metterlo in ginocchio. Sia fatta la massima attenzione perché se solo qualcuno ricordasse uno di questi particolari l'epopea del modello cinese crollerebbe di botto. Per fortuna gli italiani hanno la memoria di un pesciolino. Ovviamente rosso.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Riduci
Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.