2023-09-07
Premierato? Fa paura perché è la cosa giusta
Sergio Mattarella (Imagoeconomica)
Una riforma che desse più poteri al presidente del Consiglio permetterebbe di attuare veramente l’articolo 1 della Costituzione. Assurdo che il premier debba trattare su ogni ministro. Sergio Mattarella in tal caso si dimetterebbe? Ce ne faremo una ragione. È un’idea che fa paura, ma anche affascina. Ad avere paura sono gli onorevoli e i partiti, che non avrebbero più l’arma di ricatto che da quasi ottant’anni tiene in ostaggio la Repubblica, ovvero il ribaltone delle maggioranze. A esserne affascinati invece sono gli italiani, i quali non ne possono più di vedere le coalizioni litigare e i voltagabbana fare il comodo loro, a danno di quello del Paese. Sì, la cosiddetta riforma del premierato sarebbe la soluzione di tutti i problemi o, per lo meno, di quelli che affliggono il governo. Gli elettori quando vanno a votare scelgono un partito e un leader affinché guidi l’esecutivo in base al programma presentato. Ma poi, alla prova dei fatti, siccome nessuno riesce mai a conquistare il 50% più uno dei seggi necessari a ottenere la fiducia, il presidente del Consiglio incaricato è costretto alle mediazioni, che di solito sono al ribasso. Non soltanto serve mettere d’accordo tutti i partiti che fanno parte della coalizione - ed è già un’impresa non da poco - , ma poi bisogna rispettare anche i desiderata del presidente della Repubblica, al quale la Costituzione affida il compito di nominare i ministri. In passato, la funzione sembrava di pura forma, nel senso che al Quirinale toccava solo ratificare la decisione presa dalla maggioranza, ma da Oscar Luigi Scalfaro in poi, in particolare con Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, la nomina dei ministri è diventata un potere vero, nel senso che il capo dello Stato ormai ritiene di poter indicare il nome di alcuni esponenti dell’esecutivo, prova ne sia che quando si fa la conta di quante poltrone siano toccate ai diversi partiti, spesso ne risultano alcune in quota Colle. Da nessuna parte la Costituzione fa cenno a questa possibilità, anche perché il presidente della Repubblica non è eletto direttamente dagli italiani, ma dal Parlamento. E sono le Camere e non il capo dello Stato a concedere la fiducia all’esecutivo. Però la prassi consolidata negli ultimi decenni è questa. Con il risultato che il presidente del Consiglio è costretto a governare con alcuni «collaboratori» che rispondono più al Quirinale che a lui. Un sistema duale di gestione del potere che non funziona neanche nelle aziende, generando conflitti e paralizzando le decisioni, figuratevi in un Paese complesso come l’Italia.Ovviamente da questa assurdità discende anche il resto. Nel senso che se domattina il premier decidesse di sostituire un ministro nominandone un altro che ritenga più adatto allo scopo non lo potrebbe fare. Un amministratore delegato può licenziare un dirigente quando vuole, previo pagamento di una buonuscita. Anche un sindaco può fare a meno di un assessore, sostituendolo. Ma il capo di un governo non può mandare a casa un ministro. Se lo vuole cambiare deve dimettersi, contrattare con i partiti e con il Colle la sostituzione e poi tornare a chiedere la fiducia. Una procedura che di fatto paralizza l’attività dell’esecutivo e spinge il premier a tener duro fino alla fine anche se le cose non vanno, perché il rimpasto è di fatto una crisi, di cui si conosce l’inizio, ma di cui nessuno sa la fine. In teoria - e ne sa qualche cosa Romano Prodi - può anche rappresentare l’addio a Palazzo Chigi, perché sebbene gli italiani abbiano scelto il leader della coalizione, quando questi rassegna le dimissioni i partiti e i nemici possono prendere la palla al balzo per fargli le scarpe. È sempre successo e sempre succederà con il sistema attualmente in vigore, soprattutto se il presidente della Repubblica strizza l’occhio ai congiurati, come spesso accade. In nome della governabilità, invece di dire chiaro e tondo che se cade un governo non se ne fa un altro, ma si va dritti alle elezioni perché l’ultima parola spetta agli italiani (articolo uno della Costituzione: la sovranità appartiene al popolo), da Scalfaro in poi si è trovato ogni escamotage per evitare il voto. Governo di larghe intese, governo istituzionale, governo delle ammucchiate: tutto pur di evitare la «sciagura» delle urne che rispedirebbe a casa voltagabbana e traditori.Indro Montanelli molti anni fa spiegò che all’origine dei mali italiani c’era la scelta di una forma esasperata di parlamentarismo in grado di condizionare e limitare ogni forma di azione dell’esecutivo. Per evitare un ritorno del fascismo, invece di attribuire potere al governo si decise di affidarlo alla Camere, il contrario cioè di quello che si fece in Germania, dove, spaventati dal caos della repubblica di Weimar, stabilirono norme che consentissero al Paese di essere governato. Da noi, al contrario, ogni decisione è una via crucis, che deve passare al vaglio dei partiti, del doppio controllo di Camera e Senato, del Quirinale e poi della Corte costituzionale, istituzione che – a causa delle nomine attuate da presidenti di centrosinistra – oggi di fatto rappresenta un contropotere politico al Parlamento. Infatti, ciò che i progressisti non riescono a far passare a Montecitorio o a Palazzo Madama, viene imposto dalla Consulta. Dunque, se vogliamo rispettare l’articolo 1 della Costituzione (la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti) non resta che attribuire i poteri necessari da chi è scelto dal popolo, ovvero da chi ha vinto le elezioni, consentendo al presidente del Consiglio di nominare i ministri e di sciogliere le Camere, cioè di andare ad elezioni, e di rispondere delle proprie scelte e non di quelle di qualcun altro. L’idea non piace a onorevoli e partiti? Pazienza. Non piace neppure a Sergio Mattarella il quale, come ha scritto Dagospia, nel caso in cui gli venisse tolto il potere di nomina dei ministri e di sciogliere le Camere, sarebbe pronto a dimettersi? Beh, ce ne faremo e se ne farà una ragione.
Ecco #DimmiLaVerità del 4 novembre 2025. Il deputato Manlio Messina commenta la vicenda del Ponte sullo Stretto e la riforma della Giustizia.