2023-07-22
Popolani e Borbone nella cuccagna di Napoli
Dalla ricetta aristocratica del timballo cerino come tributo al Vesuvio ai pentoloni di cibo cucinato e consumato per strada. La cucina del Regno si trasforma grazie all’incontro con la tradizione francese. Una mescolanza che diventa anche sociale.La storia di Napoli è un melting pot di culture diverse, greche, di lingua latina come pure nord europee. La stessa mescolanza era riflessa a livello sociale senza netti confini tra usi e abitudini aristocratiche e quelli più schiettamente popolari.La cuccagna era un rituale di altissimo richiamo lungo il Carnevale, ma a Napoli con livelli e toni del tutto originali. La nobiltà locale concedeva al popolo minuto la possibilità di raggiungere i vertici dei piaceri golosi nel senso letterale del termine. Salami, formaggi, pregiati crostacei si potevano portare sì a casa, ma dopo aver sgomitato con agguerriti compagni di scalata di improbabili pali unti di grasso per lubrificare meglio cadute e ricadute. Un teatrino in diretta, materia di svariate ispirazione teatrali e pittoriche, cui venne messo termine a fine Settecento proprio da «’o re lazzarone», al secolo Ferdinando IV re di Napoli, un Borbone detto anche «re nasone» perché, oltre alle conseguenti esuberanze di narici, sapeva mischiarsi come pochi agli umori del suo popolo. Epiche le sue «lazzarate» quando amava unirsi ai pescatori di Santa Lucia, imitandoli nella voce e nei gesti, intenti a vendere la loro mercanzia di pinne e squame ai mercati. Oppure quando, cibandosi in bella vista di spaghetti dal palco del teatro San Carlo, dialogava in diretta con gli attori impegnati in scena.Eclettico anche in cucina, oltre che esuberante a tavola. Amava andar di cozze a Posillipo e poi, nell’enclave regale dei suoi fornelli, si era inventato le cozze nella culla. Non un modo per farle ulteriormente crescere per numeri o dimensioni, ma a golosamente farcire dei pomodori assieme a capperi, aglio, mollica e pangrattato. Il suo armocromista spirituale, padre Gregorio Rocco, lo portò a più miti consigli e nacque così una zuppa marinara, con gli stessi ingredienti, ma più fluida e cremosa nella sostanza.La culinaria era nel Dna dei Borbone, tanto che il figlio, Francesco I, pur nei suoi pochi anni di regno, poté godersi una curiosa creatura di architettura edibile, il timballo cerino. Bucatini stesi a mano dentro uno stampo, il tutto farcito poi con carne, funghi, tartufi. In coppa, una piccola cavità dove si poneva una candela o un guscio d’uovo ripieno di alcool. La fiamma è un tributo al Vesuvio che osservava stupito da lontano. Era il tempo in cui, grazie a Maria Carolina d’Austria, consorte di Ferdinando «nasone», a Napoli erano arrivati molti cuochi da Parigi, posto che la sorella di lei era regina al fianco di Luigi XIV. Una contaminazione franco-partenopea che diede luogo alla cucina dei monzù, napoletanizzazione del più paludato monsieur, cuoco à la francais. Diverse le preparazioni che presero piede da quel periodo, ancora attuali, dal gattò, al sartù e via pasteggiando.Borboni sempre sul pezzo, anzi, ai fornelli, anche con Ferdinando II che, attento al recupero e valorizzazione della coltivazione del grano attiva sin dal tempo dei romani, nominò Gragnano, il 12 luglio del 1845, «Città dei maccheroni». Una realtà viva di oltre 100 pastifici artigianali tanto che, lungo le vie del paese, era una sfilata di «canne di bambù che sostenevano un oceano giallo di pasta da essiccare». Qui, il giovane Borbone aggiunge un tocco personale. Mentre per i vicoli il popolo minuto si cibava di spaghetti rigorosamente imbracciati a mano (Totò li conservava addirittura nella tasca dei pantaloni per tenerli al caldo), nelle tavole aristocratiche c’era un forchettone a due o tre rebbi con cui i maestri di cucina preparavano le porzioni di carne, pesce o verdure da servire ai piatti. Con l’aiuto del ciambellano di corte, Gennaro Spadaccini, Ferdinando II si fece preparare una forchetta più corta e a quattro rebbi, così da poter avvolgere, senza tema di reprimenda da protocollo, i fumanti spaghetti di cui era goloso.Di quel tempo sono anche i trattati di cucina entrati poi nella storia della letteratura nazionale, ad iniziare da Vincenzo Corrado che, nel 1773, pubblicò il Cuoco Galante. Un testo scritto con sapienza e sensibilità, in cui riuscì a far convivere armoniosamente le influenze della cucina francese, in uso nelle famiglie aristocratiche, con la verace tradizione napoletana, grazie soprattutto alla valorizzazione dei prodotti del territorio. Chissà se fu anche per quella sana dieta mediterranea da lui descritta che il nostro autore campò sino a 100 anni. Un’eccezione, per quell’epoca.Altro grande classico Ippolito Cavalcanti con La cucina teorico pratica, dato alle stampe nel 1837, cui seguirono ben nove edizioni in breve tempo, con progressivi aggiornamenti laddove un intero capitolo è scritto in lingua madre, giusto omaggio alla tradizione locale. Per certi versi anticipò Pellegrino Artusi di 50 anni, posto che il primo, notaio della tradizione culinaria del neonato Regno dei Savoia, poco scrisse di ricettari del meridione. Cavalcanti, quindi, primo divulgatore di piatti storici quali parmigiana di melanzane, baccalà fritto e molto altro.In quel tempo si accende anche un’attenzione antropologica sull’influenza della cucina nella vita popolare. Il napoletano di origini svizzere Francesco De Bourcard nel suo Usi e costumi di Napoli, uscito nel 1858, descrive molte istantanee della vita quotidiana, con originale stile e un tocco di ironia che stimola la curiosità conseguente. Pur se il quartiere di Santa Lucia era la capitale della pesca e dei venditori di strada, la classe emergente, ovvero «quelli che hanno uno stemma da incollare sulla carta da visita», amava andare a mangiare a Posillipo, magari spendendo tre volte tanto per le stesse pietanze, come una frittura di pesce «allora sottratto alle onde e che guizzi nella padella». Ancora più calzante l’indagine pubblicata da due medici di allora, Achille Spatuzzi e Luigi Somma, Alimentazione del popolo minuto a Napoli, uscita nel 1863, subito dopo l’unificazione nazionale, svolta per conto dell’Accademia Pontaniana. Napoli, oramai, aveva perso il timone di comando di Regno delle Due Sicilie.I Savoia, succeduti ai Borbone erano lontani, a Torino, e quindi anche il degrado della vita quotidiana era sempre più evidente. Nei quartieri sovraffollati i locali, spesso, erano angusti, lo stesso angolo del focolare ristretto per le esigenze delle famiglie e spesso capitava che si mangiasse per strada, vuoi con i pentoloni delle madri di famiglia pronte a servire cibo al vicinato per raggranellare qualche soldo, come anche i numerosissimi ambulanti, vettori di prodotti diversi e comunque sempre golosi e consolatori, per l’animo e la panza.Per le grandi feste, Pasqua come Natale o San Silvestro, i capi famiglia «spendevano spesso al di sopra delle proprie possibilità» mentre le donne di casa «avevano messo da parte tutto l’anno delle monetine» per permettersi quanto serviva ad allietare la famiglia. Quando era il momento di far festa, si cercava di non negarsi nulla. I botti delle notti stellate di fine anno allietati dalle note in frantumi di vari oggetti gettati dalle finestre, per congedare l’anno vecchio, compresa una bottiglia di spumante (per chi poteva permetterselo) con tre chicchi di sale all’interno. Gettate con tale entusiasmo che dovevano per forza andare in mille pezzi, giunta a terra, quale miglior augurio per l’anno entrante.Il viaggio tra usi, costumi e tradizioni del cibo di strada napoletano è un susseguirsi di scoperte e curiosità che vanno oltre gli scontati spaghetti mangiati a scottadito per cui molti scugnizzi arrotondavano gli scarsi redditi familiari facendosi ritrarre, dietro mancetta generosa, dai turisti che, armati di macchina fotografica, volevano ripercorrere le pagine del Gran tour.
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