2024-06-23
Piero Cividini: «Siamo in tempesta, ci si salva con la qualità»
Parla il ceo del marchio omonimo: «Il settore è in crisi, inutile negarlo. Ma con coerenza, creando capi senza tempo, si supera anche questo momento. Da 30 anni siamo in Giappone, dove abbiamo 80 boutique. Che fatica, invece, comunicare con i cinesi».«Tiriamo innanzi, si dice a Milano». Diciamocelo, non è un gran momento per la moda. «Siamo nel cosiddetto mare procelloso». Mare in tempesta, quindi. Si racconta alla Verità, Piero Cividini, ceo e direttore creativo del marchio che porta il suo nome, e che ha sempre portato avanti, con la moglie Miriam e ora anche con la figlia Anita, collezioni di alta qualità, un mix di lavorazioni artigianali e di moderna tecnologia, un design raffinato e pulito, materiali super pregiati e una manifattura inimitabile. Secondo lei come si è arrivati a questa situazione? «Il sistema è andato in crisi o comunque un certo modo di fare durato per vent’anni, forse c’è bisogno di nuove impostazioni, di un cambio di rotta. Sono domande che ci facciamo tutti noi del settore sia chi sta a monte che chi sta a valle, perché i risultati delle ultime due stagioni sono preoccupanti per tutti e per tutta la filiera». Si può uscirne? «Senza dubbio il gioco è in mano ai grandi gruppi che hanno condotto la politica degli ultimi vent’anni. Noi piccoli ci siamo barcamenati, cercando di sfruttare tutti gli angoli che non venivano occupati dai grandi gruppi. Chi fa un prodotto di nicchia come noi ha subito tutte le ondate avverse di questi ultimi anni ma, in qualche modo, siamo riusciti a salvarci anche subendo colpi. Ce ne sono tanti che come noi ce la stanno facendo. È molto complicato». Quale è stata la formula per poter sopravvivere in un mondo di squali? «Penso alla nostra coerenza dato che abbiamo continuato a fare quello ci ha permesso di essere conosciuti nel mondo: per le cose buone, non finte, di qualità, per correttezza commerciale e soprattutto cercando di fare prodotti senza tempo, che vanno bene oggi come fra due anni e andavano bene cinque anni fa. Ed è quello che i clienti continuano ad apprezzare. Ciò che ora dicono tutti, e ne fanno una bandiera di sostenibilità, noi l’abbiamo messo in pratica dal primo giorno». È la fine del fast fashion? «Spero di sì, ed una delle tante cose che stanno finendo. Stiamo parlando del consumatore normale, non dei super ricchi che sono una categoria a parte e non seguono nessuna regola d’acquisto. Oggi il consumatore apprezza il valore di quello che riesce a portare a casa con i suoi soldi in un periodo in cui la situazione non è brillante nemmeno per lui. L’inflazione e tutto il resto hanno messo a dura prova l’intera classe media. C’è meno potere d’acquisto e c’è attenzione a quel che si compera. In più le sollecitazioni alla spesa, l’uso del proprio denaro e delle proprie energie finanziarie possono essere spezzettati in tanti canali e non solo nell’abbigliamento. C’è grande attenzione alla spesa e a come incanalarla». Quali i mercati più forti? «Da molti anni siamo presenti in Giappone che continua a essere, nonostante alti e bassi, uno dei mercati più importanti. Seguono Stati Uniti e da oltre vent’anni siamo a Taiwan, mercato piccolo ma per noi molto interessante e costante. Ultimamente stiamo puntando a una maggiore presenza in Cina dove, un passo dopo l’altro, ci costruiamo una visibilità e notorietà». Non è facile penetrare in Cina. «Sono difficili i cinesi e probabilmente non è ancora maturo quell’attimo in cui il consumatore cinese passa dal brand al prodotto di un certo tipo. È sulla strada ma non è del tutto fatto». I cinesi sono più colpiti dal marchio, dal brand forte e di fama? «È una cosa che si sta piano piano modificando altrimenti non avremmo nessuna chance e invece stiamo vendendo con soddisfazione e stiamo aumentando anche le vendite. Sono convinto che, come accade a noi, ci siano altri marchi del nostro livello che stanno espandendosi in quell’enorme paese. Certo è una cosa faticosa, lenta, piena di tranelli». In che senso?«Non si capisce mai come funzioni la testa dei cinesi. Se con i giapponesi, e sono più di 30 anni che siamo in Giappone, abbiamo capito che i loro processi logici sono diversi dai nostri e ormai iniziamo a comprenderli, con i cinesi ancora non ci siamo. Ci sono ancora cose che ci lasciano a bocca aperta». Un esempio? «La comunicazione è fondamentale nel nostro lavoro così come la velocità e la chiarezza del messaggio. A noi servono risposte chiare mentre ti lasciano quasi sempre nell’incertezza. È difficile capire quale è la strada da intraprendere. Ma c’è modo e modo nel dirti “arrangiati”». Comunque, Oriente mon amour. «Abbiamo consolidato la nostra presenza in Giappone inaugurando un nuovo corner presso Mitsukoshi nel quartiere Nihonbashi di Tokyo confermando la nostra espansione e raggiungendo un altro importante traguardo. Siamo passati da un corner piccolo a uno spazio grande con tante possibilità di esporre il prodotto, un passo avanti anche dal punto di vista del prestigio. Siamo vicini ai grandi marchi, un riconoscimento interessante. In Giappone contiamo 6 shop in shop e circa 80 boutique su 350 nel mondo». In questi Paesi cosa piace di Cividini?«L’essere made in Italy è fondamentale ed è una premessa. Si accontentano del finto se dall’altra parte c’è il nome del brand che giustifica tutto. Se non c’è quello devi dare le cose vere che hanno consistenza e contenuti di qualità. Noi ci siamo dal 1993, vuol dire che le nostre proposte trovano riscontro. Il Giappone copre ad oggi il 25% del nostro mercato globale e rappresenta il nucleo commerciale asiatico dell’azienda. Ma non facciamo una collezione per il Giappone, cerchiamo di trovare degli interlocutori che apprezzino ciò che facciamo in tutto il mondo, compreso il Giappone».