«Phoenix rising», Evan Rachel Wood e l’incubo della sua relazione con Marilyn Manson
In onda su Sky Documentaries nella prima serata del 16 e del 24 giugno il documentario che ripercorre la storia della ex compagna di Brian Hugh Warner, in arte Marilyn Manson.
Una cosa, lo scontro pubblico fra Johnny Depp e Amber Heard, l’epopea infinita di due ex coniugi pronti a giurare di aver subito torture dalla parte avversa, è riuscito ad insegnarcela: ci sono storie destinate a fare rumore, ed altre condannate a passare in sordina, accompagnate solo da quel mormorio timido che l’indignazione temporanea è solita generare. Così, mentre il mondo occidentale (o, quantomeno, la parte di questo più sensibile al gossip) si produceva in manifestazioni di sdegno, inorridendo di fronte alle lacrime di Britney Spears e al racconto di suo padre orco, lo stesso mondo occidentale (o, quantomeno, la parte che si è detto essere più sensibile al gossip) si perdeva, o quasi, la denuncia di Evan Rachel Wood. Una denuncia fatta negli anni, prima in forma anonima, senza mai rivelare il nome dell’uomo che sosteneva aver abusato di lei, poi, con più coraggio e il sostegno della famiglia, rendendone nota l’identità. «Marilyn Manson», il cantante demoniaco, una creatura con la pelle diafana e gli occhi vacui, con le labbra pittate di un rosso scuro, vicino al nero, «Ha iniziato ad approfittarsi di me quand’ero adolescente e ha abusato di me in modo orribile per anni», ha scritto online l’attrice, dando forma ad una storia contorta, dove non è l’eco del #MeToo a risuonare ma la capacità dell’adulto di plagiare e plasmare quel che, allora, era poco più di una bambina.
Evan Rachel Wood, che la sua storia ha voluto ripercorrere in Phoenix Rising, documentario in due parti in onda su Sky Documentaries nella prima serata del 16 e del 24 giugno, era reduce da un successo straordinario quando ha incontrato Manson la prima volta. Erano gli anni di Thirteen, di un film che, nel suo piccolo, avrebbe fatto epoca. La Wood, allora legata ad un collega, Jamie Bell, era ospite dello Château Marmont. Una festa grande, in stile Hollywood. Una festa nel cuore pulsante di Los Angeles. Una festa che le avrebbe cambiato la vita.
Marilyn Manson, allora sposato a Dita Von Teese, l’ha avvicinata con una scusa che altre donne, in seguito, avrebbero detto di essersi sentite propinare. Stava lavorando ad un progetto, una cosa raffinata, eccitante. Avrebbe voluto coinvolgere la Wood, perfetta nei suoi diciotto anni. Una moina, un invito, poi l’inizio di una relazione che sarebbe culminata nel divorzio di Manson e nella costruzione mediatica di un’immagine da cui Evan Rachel Wood ha poi cercato di prendere le distanze. Quella ragazzina smaliziata, per i media, è diventata una lolita, una sfasciafamiglie. Era pericolosa, conturbante: le sue parole cosa di poco conto. Evan Rachel Wood, oggi nota come la Dolores di Westworld, si è vista relegata ad un ruolo infimo, privata di una voce che avrebbe recuperato solo anni dopo, dopo la separazione dal cantante e la denuncia degli abusi subiti.
«La scarificazione, marchiarsi erano parte della storia», racconta, nella prima parte di Phoenix Rising. «Lui si è inciso una E, era un modo per dimostrare fedeltà e possesso. Io l’ho incisa vicino alla vagina, una M, per dimostrargli che gli appartenevo. Era gennaio 2007». Il documentario, ben lontano dall’essere cosa di facile digestione, prosegue, ricordando gli abusi che Manson le avrebbe inflitto. Stupri notturni, violenze fisiche e psicologiche, droghe nascoste fra le sue pillole, torture rituali, vampirismo, persecuzioni ordite sul calco di quelle naziste. «Diceva sempre che Hitler era stata la prima rockstar. Ne era ossessionato. Aveva ogni tipo d’armamentario e feticcio nazista. Io pensavo fosse ironico, ero convinta che fosse una trovata», spiega l’attrice, di madre ebrea, arrivando invece al giorno in cui «Vicino al lato del letto dove dormivo, aveva scritto "Kill all the Jews" sul muro. Ora non mi sembra più tanto divertente. Dov’è il confine tra assumere un ruolo ed essere un vero nazista?».
La domanda, nel documentario, rimane senza risposta. La pellicola scorre, insieme alle parole di Evan Rachel Wood. La prima parte, in cui l’attrice ricostruisce la propria carriera e si spinge a spiegare cosa possa averla portata a stringere una relazione con un uomo di vent’anni più vecchio, sfuma nella seconda, nelle prove addotte a sostegno della sua versione, nelle interviste. Ci sono particolari macabri, scene raccapriccianti. E sembra quasi di poterlo toccare con mano, quell’incubo che non ha fatto un gran rumore. Perché a storia di Evan Rachel Wood, una storia raccontata anche per demistificare il ruolo che i media hanno avuto nella vicenda, non ha avuto la risonanza di altre. Non è schizzata ovunque. Non è diventata virale. In California, ha portato all’approvazione del Phoenix Act, la legge che estende a cinque anni la prescrizione per i casi di violenza domestica. Ma, nel resto del mondo, è stata accolta timidamente. Come se, per accordarle una qualche licenza d’esistere, d’essere vista e ascoltata, non servisse la verità, ma il fascinato di chi la racconta, una storia.