2022-05-08
Petrolio, miliardi a Orbán. Per lo stop paghiamo noi
Viktor Orbán (Getty Images)
L’Ungheria mette il veto sul blocco del greggio russo: «Sarebbe un danno micidiale, servono compensazioni». L’Ue pronta a sborsare a fondo perduto. Mentre l’Italia non può fare scostamento e rischia la trappola Mes. Evacuazione finita all’Azovstal, la Nato deborda: «No alla Crimea russa».Ci sono due modi per stare in Europa (o meglio nella Ue, che è cosa ben diversa): quello scelto dall’Italia e quello scelto dagli altri 26 Stati membri. E questo è vero non da oggi, ma almeno da quel febbraio 1992, quando vide la luce il Trattato di Maastricht. Il modo scelto dall’Italia è quello del sogno europeo. Un’adesione fideistica, secondo cui tutto ciò che si decide a Bruxelles è cosa buona e giusta e, quand’anche ci fossero dubbi, per farli svanire basta una pacca sulla spalla o la pistola dello spread sapientemente poggiata sul tavolo dal tedesco, olandese o austriaco di turno. Poi c’è il metodo degli altri 26 partner, consapevoli che le istituzioni europee sono il luogo per la composizione di interessi naturalmente confliggenti e quindi abituati a sedersi a quei tavoli, spogliarsi degli ideali e badare al sodo, riuscendo a far prevalere la difesa delle istanze nazionali, anche in una prospettiva di medio termine.Quest’ultimo modo è esattamente quello scelto in questi giorni, non solo dall’Ungheria - sotto i riflettori perché il premier Viktor Orbán è da sempre additato come un reprobo - ma anche da Repubblica Ceca, Slovacchia, Grecia, Malta e Cipro, che in queste ore stanno rendendo difficili i negoziati a livello di rappresentanza permanente degli ambasciatori degli Stati membri presso la Ue (Coreper). Se il negoziato non si sblocca a questo livello, la Ue non può annunciare nulla di legalmente vincolante e le parole che Ursula von der Leyen ha speso qualche giorno fa all’Europarlamento resteranno una goffa fuga in avanti priva di risultati effettivi.Orbán e i suoi colleghi di Praga e Bratislava pongono un problema molto semplice: l’embargo al petrolio russo non è solo un problema di periodo transitorio, che per loro sarebbe fissato al 31 dicembre 2024 e per il quale chiedono ancora un anno, quanto di un costoso adattamento tecnico delle loro raffinerie e di tutte le infrastrutture collegate per ricevere greggio di altri fornitori. Insomma, cambiare fornitore di greggio non è esattamente come cambiare fruttivendolo. Qui entrano in gioco quelle che gli ungheresi chiamano «compensazioni», e che rispondono a una logica osservazione rivolta alla von der Leyen: se si vuole che gli Stati membri condividano certe scelte, allora il costo deve essere sostenuto prelevando dalla cassa comune. Puramente e semplicemente.Tutto ciò suona come una vera e proprio beffa soprattutto per noi italiani. Il governo di Mario Draghi da gennaio sta raschiando il fondo del barile per reperire fondi da destinare a sostegni al reddito di famiglie e imprese. Quattro decreti per complessivi 28/30 miliardi di spesa, finanziati bloccando i fondi dei ministeri e imponendo un improponibile (e probabilmente incostituzionale) «contributo di solidarietà» alle imprese del settore energetico. Tutto, pur di non schiodarsi dal deficit/Pil del 5,6% promesso a Bruxelles e non presentarsi al Parlamento con una richiesta di autorizzazione allo scostamento di bilancio. Una stucchevole «melina», in attesa di chissà quali interventi a livello Ue e con i mercati che ormai sanno su chi picchiare, nella più classica delle profezie autoavveranti. Interventi che ormai somigliano al segreto di Pulcinella, di cui vi abbiamo riferito ieri: un prestito del Mes, che chiederebbe una imposta patrimoniale con «un’operazione fiscale speciale» come ha scritto ieri senza tanti giri di parole Giulio Tremonti sul Sole 24 Ore.Basta passare da Roma a Budapest e cambia tutto. Sul quotidiano La Repubblica si riferisce di una Commissione pronta a scucire «non meno di due miliardi» in sussidi a favore del governo di Orbán per convincerlo a non far mancare l’unanimità sul sesto pacchetto di sanzioni e quindi superare la linea rossa delle sanzioni sui prodotti energetici che era stata tracciata con chiarezza dagli ungheresi in occasione dei primi cinque pacchetti. Due miliardi per l’Ungheria sono l’1,5% del Pil, una percentuale di tutto rispetto. Come se l’Italia - fatte le proporzioni - ricevesse 27 miliardi a fondo perduto. «Per Budapest è un’occasione per avere fondi senza vincoli», è il commento del Corriere della Sera. Perché, incidentalmente, i fondi per l’economia ungherese ci sarebbero già e sono quelli del Recovery fund (7,2 miliardi, il 5,3% del Pil magiaro) che continuano a essere bloccati per le contestazioni relative al rispetto dello Stato di diritto, nonostante da Budapest abbiano sottoposto il loro piano nazionale già dal lontano 12 maggio 2021. Da quel giorno si trascina tra gli ungheresi e la Commissione una contesa senza via d’uscita. Manifestare debolezze su questo fronte, o peggio cedere, è una questione di principio troppo importante per la Ue e così a Bruxelles hanno pensato bene di scavare nelle pieghe del bilancio comunitario ed accontentare Orbán «pronta cassa» e senza tante carte da presentare con relativi vincoli e condizioni varie e assortite.Si annuncia così un «grande baratto», grazie al quale la Commissione, disposta a concedere di tutto, riuscirà lunedì mattina ad annunciare alla stampa che l’accordo sul sesto pacchetto di sanzioni è stato raggiunto. La von der Leyen è disposta a sostenere qualsiasi costo, pur di colmare la profonda spaccatura sul tema dell’embargo petrolifero e non mostrare alla Russia, ma anche all’alleato di oltreoceano, le divisioni di cui è preda la Ue.Un altro mondo rispetto all’acquiescenza (nella migliore delle ipotesi) di Roma su tanti dossier: dal Patto di stabilità e l’austerità dannosa del 2012-2014, alla riforma del Mes, ai danni inferti al nostro sistema bancario da regole assurde come quelle sugli aiuti di Stato, non risarciti nemmeno alla luce di due sentenze favorevoli. E l’elenco potrebbe continuare.La realtà è che dopo l’esibizione muscolare dei primi cinque pacchetti di sanzioni che, per la loro natura, sono destinate ad avere effetti solo di lungo termine, la Ue cincischia da ormai 20 giorni intorno ad una decisione che farà male sia al sanzionato che al sanzionatore e con effetti ampiamente asimmetrici tra i 27 Paesi. Ecco che così si manifesta il difetto strutturale iniziale che rende la Ue così disfunzionale: è un abito con taglia unica che non può andare bene a tutti. Il problema per noi è che quando c’è da farlo indossare agli italiani non si fanno aggiustamenti sartoriali e si finisce quasi sempre con l’indossare una camicia di forza.