2024-01-27
Petrini si è rimangiato il suo credo: da Slow food a evviva la carne finta
Carlo Petrini (Imagoeconomica)
Il difensore del cibo antico e naturale ha spiegato che la «bistecca in laboratorio» può fare molto bene all’umanità. E poco importa se rischia di distruggere il futuro degli agricoltori che lui dice di voler tutelare.Il pensiero unico si è mangiato Carlo Petrini. Ed è stato un pasto fin troppo veloce, roba da procurarsi una granitica indigestione. Eppure è tutto vero: la firma del fondatore di Slow food campeggiava ieri sulla prima pagina della Stampa, in testa a un articolone in difesa della carne sintetica. Sulle prime veniva quasi da pensare che ci fosse stato un errore: ma come, il difensore del cibo antico e rispettoso dei ritmi naturali, il paladino dei prodotti semplici e delle mangiate rustiche, il nemico dell’hamburger e degli alimenti spazzatura adesso si mette a giustificare la sintetizzazione di bistecche in laboratorio? Ebbene sì: pur con qualche umidiccio distinguo, Petrini spiega che in fondo la cosiddetta «carne coltivata» (che non è carne e non è coltivata) può fare un gran bene alla umanità. Egli inizia affastellando argomentazioni persino condivisibili. «I più accesi sostenitori del “no” alla carne sintetica si sentono investiti del ruolo di paladini difensori della tradizione», scrive. «La tradizione in questione è in realtà relativamente recente. Sì, perché la carne è entrata a far parte in maniera consistente della dieta di noi italiani solo dal secondo dopoguerra in avanti, quando bisognava allontanare lo spettro della fame e ogni chilo di carne in più era un'enorme conquista. Secondo i dati della Fao negli Anni ‘60 gli italiani consumavano 27 chilogrammi di carne pro capite all’anno, oggi parliamo di 79. Rimanendo nell’alveo della tradizione e chiamando in causa la tanto blasonata dieta mediterranea (di cui ci fregiamo di esserne i natali), vediamo come secondo i suoi precetti il consumo di carne (specialmente quella bovina) dovrebbe limitarsi a massimo due porzioni a settimana». Certo, consumiamo una notevole quantità di carne, ma comunque infinitamente meno e di miglior qualità di quella consumata negli Stati Uniti e in altre nazioni europee. Secondo Petrini, in ogni caso, il grande nemico è «la lobby della carne che negli ultimi anni si è arricchita, anche e soprattutto grazie ai finanziamenti europei, immettendo sul mercato prima, e di conseguenza negli stomaci di tutti noi poi, grandi quantità, scarsa qualità, molto inquinamento ambientale e svariati problemi di salute».Potrebbe addirittura essere vero. Peccato che, di nuovo, un conto è la «lobby della carne» americana, un altro sono i produttori italiani che operano con livelli di sicurezza, pulizia e attenzione al benessere animale molto diversi. Si potrebbe anche notare, en passant, che nella bistecca sintetica hanno già investito notevoli quantità di denaro proprio alcuni dei produttori statunitensi di hamburger e costine: i tanto odiati lobbisti non hanno perso tempo, con buona pace del caro Carlin. Petrini appare a tratti confuso: «In questo momento particolare sono contrario alla carne sintetica», dice. «Ma non sono meno contrario agli allevamenti intensivi, perché in entrambi i casi il potere è nelle mani di poche multinazionali che spogliano il cibo del suo significato culturale, così come del legame con il territorio e con la Natura». Messa così potrebbe anche avere senso. Se non fosse che il nostro aggiunge un paio di banalità atomiche: «Ogni anno nel mondo vengono uccisi 77 miliardi di animali», sentenzia, «la maggior parte dei quali hanno trascorso la vita in spazi angusti, alimentati esclusivamente con mangimi e insilati, e con l’unico scopo di diventare carne da macello. Nello scenario appena descritto non vedo nulla di più umano - inteso come rispetto e compassione per la vita delle altre specie viventi - rispetto a una bistecca prodotta in laboratorio». Strabiliante: prima se la prende con le multinazionali e celebra l’eterno ciclo della vita; poi accoglie con piacere un prodotto farmaceutico spacciato per cibo sfornato dalle stesse multinazionali proprio al fine di sovvertire l'allevamento tradizionale. Intendiamoci: Carlin è libero di pensare ciò che vuole. A stupire è il radicale cambio di prospettiva. Nel 1997, quando venne pubblicato sul Manifesto il testo fondativo di Slow food, Petrini era il secondo firmatario. «Questo secolo», scriveva in quei giorni, «è nato sul fondamento di una falsa interpretazione della civiltà industriale, sotto il segno del dinamismo e dell’accelerazione: mimeticamente, l’uomo inventa la macchina che deve sollevarlo dalla fatica ma, al tempo stesso, adotta ed eleva la macchina a modello ideale e comportamentale di vita. Ne è derivata una sorta di autofagia, che ha ridotto l’homo sapiens ad una specie in via di estinzione, in una mostruosa ingestione e digestione di sé». Nel 1997 l’invettiva contro la macchina, nel 2024 la difesa di ciò che la stessa macchina realizza. Tutto questo, benché lievemente triste, potrebbe anche risultare trascurabile se non fosse che Petrini ha deciso di spendere la sua autorevolezza per una causa discutibile negli stessi giorni in cui gli agricoltori e gli allevatori manifestano in tutta Europa per garantirsi una pur difficile sopravvivenza. Carlin lo sa benissimo, e infatti sulla Stampa sfiora l’argomento. «C’è un comparto in sofferenza che necessita il nostro sostegno con assoluta urgenza», scrive. «Si tratta di allevatori virtuosi, non intensivi e che molto spesso sviluppano la loro attività in sinergia con l’agricoltura, con il recupero di razze autoctone e nel rispetto del benessere animale. Questi allevatori sono coloro che oggi non riescono a stare in piedi economicamente. Eppure sono loro la strada per il futuro: sinonimo di sostenibilità degli allevamenti, vitalità delle aree rurali e garanti della sovranità alimentare». Niente male: i piccoli e coraggiosi agricoltori sono in difficoltà e come li aiutiamo? Sostenendo inspiegabilmente un progetto del tutto ideologico che servirà soltanto a completare la distruzione delle eccellenze zootecniche europee. Vero: si tratta di un progetto a lungo termine, ma comunque mortifero. Si vede che Petrini la fine degli allevatori la vuole così: lenta. A quanto pare è l'unica passione slow che gli è rimasta.