True
2019-11-10
L’ultimatum di Conte ai Mittal cade nel vuoto
Ansa
Lo scorso giovedì Lakshmi Mittal e Aditya Mittal, rispettivamente amministratore delegato e direttore finanziario del colosso Arcelor Mittal, incontrano Giuseppe Conte. Due ore nelle quali i due tycoon comunicano di aver dato recesso del contratto, adito le vie legali e avviato il lento iter di spegnimento degli impianti ex Ilva. Ne segue un consiglio dei ministri durato fino alle 22. Poi una veloce conferenza stampa, in cui il governo ammette la difficoltà della situazione e prova a smontare la questione (invece dirimente) dello scudo fiscale.
«Il tema adesso sono gli esuberi che Arcelor vuole mettere sul tavolo», dichiara Conte dicendosi pronto a rimettere lo scudo penale sulle attività dei commissari e dei manager Arcelor. Il tentativo naufraga perché i 5 stelle lo sbugiardano subito. La posizione però rimane quella di ributtare sulle spalle dei franco indiani le colpe. Tant'è che il premier aggiunge di voler mettere in agenda un ultimatum di 48 ore per incontrare di nuovo l'azienda. Un diktat imposto, stando sempre alle parole di Conte, dall'allarme rosso per l'occupazione in Puglia e l'impatto sul Pil dovuto a una eventuale chiusura delle acciaierie.
Ieri l'ultimatum è scaduto e non c'è stato nessun incontro. I Mittal non si sono ripresentati a Palazzo Chigi. Non solo. Venerdì sera il presidente del Consiglio ha trascorso oltre 5 ore a Taranto. Buona parte di queste tra gli operai della fabbrica, ai quali ha fatto capire che i rapporti con Arcelor Mittal sono quasi irrecuperabili. Il resto del tempo è stato dedicato agli incontri in prefettura con le autorità locali e con i vertici di Confindustria. Da qui è uscita una versione diversa che mira ad accreditare già domani o al massimo martedì un nuovo vertice con i capi dell'azienda.
«Sì, ci ha detto del nuovo incontro di lunedì e peraltro la richiesta di rivedersi, per continuare a discutere, l'ha avanzata lo stesso presidente del consiglio», spiegano le fonti che però ribadiscono che il premier è anche dubbioso che Mittal accetti poi lo schema negoziale che gli proporrà il governo.
La notizia è riportata dall'Agi e le fonti rientrano nell'entourage del presidente della Confindustria di Taranto, Antonio Marinaro. «Lo schema non ci è stato rivelato», prosegue il medesimo lancio di agenzia, «dicono le stesse fonti che però rammentano come nel vertice di giovedì sera a Palazzo Chigi il premier abbia detto che ad Arcelor Mittal sul tavolo è stato messo di tutto, ma il passo indietro è già fatto e appare difficilmente reversibile». Palazzo Chigi non ha smentito la notizia per ovvi motivi di storytelling. Ma non solo l'ultimatum è stato spernacchiato: alla Verità risulta anche che né domani né martedì sono previsti incontri. Nulla in agenda da parte di Arcelor il che lascia intendere che per il governo la corsa verso la nazionalizzazione sarà come una sorta di via Crucis.
Anche prendendo per buona la strada sollecitata pure dal numero uno di banca Intesa, Carlo Messina, al governo toccherà comunque trovare un partner industriale. Fare l'acciaio è ben più complicato che far volare degli aerei (nonostante allo Stato non riesca nemmeno la partita Alitalia), per questo la scelta più semplice sarebbe quella di convincere Arcelor Mittal a rientrare dalla finestra non più come affittuario privato degli asset della vecchia Ilva, ma come socio privato di una compagine siderurgica pubblica. In fondo Arcelor è il primo colosso con quasi 100 milioni di tonnellate annue e ha il know how necessario. Però nell'agenda di Palazzo Chigi potrebbe esserci anche Arvedi, o uno dei colossi cinesi come Hbis, che in Serbia ha appena rilevato l'impianto di Smederevo. Non dimentichiamo che a ronzare attorno al porto di Taranto c'è anche il colosso CCCC, China comunication construction company. Potrebbe essere una «combo» che in queste ore non sarebbe per nulla sgradita al Mise e al ministero degli Esteri.
Tentativi si succedono comunque con fare disperato: un atteggiamento nascosto sotto le dichiarazioni aggressive di Luigi Di Maio. «Tutti devono stare dalla stessa parte, che è quella dei lavoratori e non delle multinazionali. Se l'intenzione di Mittal è quella di andarsene dopo aver firmato un contratto con lo Stato italiano in cui si impegnava a prendere 10.500 lavoratori e fare 8 milioni di tonnellate di acciaio, allora ha sbagliato governo, perché non glielo permetteremo».
Il leader grillino omette un piccolo dettaglio: come? Come potranno impedire una cosa già avvenuta? Infatti, Arcelor ha già avviato la dismissione di tutti gli impianti e la manager da poco ingaggiata, Lucia Morselli, non si è nemmeno presentata davanti a Conte. Segno che i franco indiani hanno intenzione di piazzare qualche altra sberla al governo, e semmai solo prima che si spezzi la corda rifarsi vivi per chiedere una serie di garanzie tutte a favore del loro business.
Un disastro a cui non saremmo arrivati se i 5 stelle e il premier non avessero permesso la rimozione giuridica dello scudo penale. Pure Paolo Gentiloni, oggi quasi commissario Ue e all'epoca presidente del Consiglio, ha ricordato che i patti inseriti nel bando di gara erano bilaterali. Temiamo che, se va avanti così, al premier per attirare la simpatia degli operai la prossima volta a Taranto non basterà togliersi la pochette, la cravatta e sedersi su un tavolone. Al contrario, gli servirà un cordone: quello della scorta.
Boccia liberale con i soldi nostri: «Lo Stato usi la cassaintegrazione»
Week end tesissimo sulla vertenza Ilva. Ma - per le ragioni che vedremo - l'inizio della nuova settimana potrebbe diventare addirittura rovente: a Montecitorio, per l'esattezza in Commissione Finanze, più ancora che a Taranto.
La giornata di ieri è stata segnata da un duro scontro verbale tra la Confindustria e la Cgil. Il presidente degli industriali Vincenzo Boccia, dopo alcune dichiarazioni di carattere generale critiche nei confronti di Luigi Di Maio («La politica è soluzione, non ricerca delle colpe. Qui abbiamo una questione che va affrontata con grande serietà e buon senso. Speriamo che nei prossimi giorni prevalga il buon senso dall'una e dall'altra parte»), ha evocato il tema - non propriamente estratto dalla cassetta degli attrezzi liberale - della cassaintegrazione, a proposito dei 5.000 esuberi chiesti da Arcelor mittal. Secondo Boccia, «se pretendiamo che, nonostante le crisi congiunturali, le imprese debbano mantenere i livelli di occupazione, quindi finanziare disoccupazione e non mantenere le imprese, facciamo un errore madornale». E ancora: «Se c'è una crisi congiunturale legata all'acciaio, è inutile far finta che non ci sia. Bisogna capire come gestire questa fase permettendo di “costruire", come accade in tutte le aziende del mondo. Ci sono strumenti come la cassaintegrazione e altri, che si attivano in momenti congiunturali negativi delle imprese. Il punto è creare sviluppo in quel territorio, costruire altre occasioni di lavoro, ma non sostitutive, complementari. Se l'Ilva arretra per la congiuntura internazionale, ogni azienda deve avere una flessibilità in chiave congiunturale», ha concluso Boccia.
Piuttosto prevedibile la replica di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil: «Sono parole senza senso: c'è un accordo da far rispettare, firmato un anno fa, che prevede degli impegni».
Abbastanza impressionante per inadeguatezza, intanto, nel senso della distanza abissale tra lo strumento evocato e le risorse che invece sarebbero necessarie, la misura prospettata dal sottosegretario Mario Turco (che si occupa di programmazione economica), già salito agli onori delle cronache - diciamo - per alcune sue bizzarre e indimenticabili dichiarazioni dei giorni scorsi sulle cozze. «Stiamo lavorando con il ministro Nunzia Catalfo e il ministro Giuseppe Provenzano», ha detto Turco, «all'istituzione, in manovra, di un fondo per il sostegno ai lavoratori dell'ex Ilva». Ma quel che fa effetto, negativamente, è l'esiguità delle risorse teoricamente messe in campo, l'equivalente di un caffè: sarebbe un fondo pluriennale, che partirebbe con 5-10 milioni, da destinare alla riqualificazione e al reinserimento nel mondo del lavoro di circa 1.500 lavoratori.
Come si diceva all'inizio, però, il cuore dello scontro sarà tutto politico. La Verità di ieri ha riferito in dettaglio la contrarietà di Luigi Di Maio alla reintroduzione dello scudo, con tanto di avvertimento al Pd: come dire che, se il partito di Nicola Zingaretti insistesse, si creerebbe un problema per la maggioranza.
Ecco, a fronte di queste avvisaglie di conflitto, il Pd sembra determinato a procedere, formulando subito un emendamento pro scudo (lo ha preannunciato il capogruppo Graziano Delrio) e provando a inserirlo nel primo treno normativo che passa, e cioè il decreto fiscale appena giunto a Montecitorio. E attenzione: già lunedì alle 9.30, cioè domani mattina, scade il termine per la presentazione degli emendamenti a quel testo in commissione Finanze. Capiremo dunque due cose: se il Pd avrà effettivamente presentato la sua proposta, e se, come i dem confermano, si tratterà di una norma di carattere «generale e astratto», cioè non solo concepita per il caso Ilva ma per qualunque impresa che si trovi in futuro in una condizione analoga.
Attenzione, però: perché il diavolo, quando si entra nelle procedure parlamentari, si annida nei dettagli. Affinché un emendamento vada ai voti, in commissione, non basta presentarlo. Occorre che il presidente della commissione, che su questo ha un potere pressoché assoluto, lo dichiari ammissibile. E la principale ragione di inammissibilità, quando una presidenza di commissione adotta un criterio rigoroso, è proprio l'estraneità di materia. Intendiamoci: mille volte si sono votati emendamenti su un tema all'interno di un decreto che si occupava di altro; ma ci sono stati anche casi in cuoi presidenze rigorose hanno lavorato per evitare che ogni decreto si trasformasse in un «omnibus», in una «salsiccia normativa» costruita con ingredienti troppo diversi.
E chi è il presidente della commissione Finanze della Camera? È la grillina Carla Ruocco, a cui toccherà il compito di dare luce verde (o rossa) all'ammissibilità formale dell'emendamento dem. Immaginate il pandemonio (politico) se la presidenza impedisse (anche con ragioni tecniche tutt'altro che inesistenti) la messa ai voti dell'emendamento Pd. E, quand'anche si votasse, nulla potrebbe essere dato per scontato, in una commissione in cui i grillini, da soli, partono già da 15 voti su 42.
Capite bene che, a meno di un'intesa duplice, prima sull'ammissibilità dell'emendamento (che però è prerogativa esclusiva della presidenza di commissione) e poi sul voto pro o contro, rischia di maturare una spaccatura e una rissa clamorosa tra Pd e grillini. Senza nemmeno attendere che il teatro dello scontro sia il Senato: già una commissione della Camera può consegnare al Paese l'immagine di un governo e di una maggioranza clinicamente morti.
Continua a leggereRiduci
Dopo l'incontro con il colosso, il presidente aveva concesso 48 ore per formulare nuove proposte, dicendo: «Per noi 5.000 esuberi sono inaccettabili». Ieri nessuna riunione, e niente in agenda per domani. Luigi Di Maio minaccia: non permetteremo che se ne vadano.Vincenzo Boccia liberale con i soldi nostri: «Lo Stato usi la cassaintegrazione». Il presidente di Confindustria si schiera con Arcelor: «Errore madornale mantenere i livelli di occupazione se c'è crisi». Poi invoca gli ammortizzatori. Graziano Delrio ripropone lo scudo, ma sull'ammissibilità decide Carla Ruocco. Lo speciale comprende due articoli.Lo scorso giovedì Lakshmi Mittal e Aditya Mittal, rispettivamente amministratore delegato e direttore finanziario del colosso Arcelor Mittal, incontrano Giuseppe Conte. Due ore nelle quali i due tycoon comunicano di aver dato recesso del contratto, adito le vie legali e avviato il lento iter di spegnimento degli impianti ex Ilva. Ne segue un consiglio dei ministri durato fino alle 22. Poi una veloce conferenza stampa, in cui il governo ammette la difficoltà della situazione e prova a smontare la questione (invece dirimente) dello scudo fiscale. «Il tema adesso sono gli esuberi che Arcelor vuole mettere sul tavolo», dichiara Conte dicendosi pronto a rimettere lo scudo penale sulle attività dei commissari e dei manager Arcelor. Il tentativo naufraga perché i 5 stelle lo sbugiardano subito. La posizione però rimane quella di ributtare sulle spalle dei franco indiani le colpe. Tant'è che il premier aggiunge di voler mettere in agenda un ultimatum di 48 ore per incontrare di nuovo l'azienda. Un diktat imposto, stando sempre alle parole di Conte, dall'allarme rosso per l'occupazione in Puglia e l'impatto sul Pil dovuto a una eventuale chiusura delle acciaierie. Ieri l'ultimatum è scaduto e non c'è stato nessun incontro. I Mittal non si sono ripresentati a Palazzo Chigi. Non solo. Venerdì sera il presidente del Consiglio ha trascorso oltre 5 ore a Taranto. Buona parte di queste tra gli operai della fabbrica, ai quali ha fatto capire che i rapporti con Arcelor Mittal sono quasi irrecuperabili. Il resto del tempo è stato dedicato agli incontri in prefettura con le autorità locali e con i vertici di Confindustria. Da qui è uscita una versione diversa che mira ad accreditare già domani o al massimo martedì un nuovo vertice con i capi dell'azienda. «Sì, ci ha detto del nuovo incontro di lunedì e peraltro la richiesta di rivedersi, per continuare a discutere, l'ha avanzata lo stesso presidente del consiglio», spiegano le fonti che però ribadiscono che il premier è anche dubbioso che Mittal accetti poi lo schema negoziale che gli proporrà il governo. La notizia è riportata dall'Agi e le fonti rientrano nell'entourage del presidente della Confindustria di Taranto, Antonio Marinaro. «Lo schema non ci è stato rivelato», prosegue il medesimo lancio di agenzia, «dicono le stesse fonti che però rammentano come nel vertice di giovedì sera a Palazzo Chigi il premier abbia detto che ad Arcelor Mittal sul tavolo è stato messo di tutto, ma il passo indietro è già fatto e appare difficilmente reversibile». Palazzo Chigi non ha smentito la notizia per ovvi motivi di storytelling. Ma non solo l'ultimatum è stato spernacchiato: alla Verità risulta anche che né domani né martedì sono previsti incontri. Nulla in agenda da parte di Arcelor il che lascia intendere che per il governo la corsa verso la nazionalizzazione sarà come una sorta di via Crucis. Anche prendendo per buona la strada sollecitata pure dal numero uno di banca Intesa, Carlo Messina, al governo toccherà comunque trovare un partner industriale. Fare l'acciaio è ben più complicato che far volare degli aerei (nonostante allo Stato non riesca nemmeno la partita Alitalia), per questo la scelta più semplice sarebbe quella di convincere Arcelor Mittal a rientrare dalla finestra non più come affittuario privato degli asset della vecchia Ilva, ma come socio privato di una compagine siderurgica pubblica. In fondo Arcelor è il primo colosso con quasi 100 milioni di tonnellate annue e ha il know how necessario. Però nell'agenda di Palazzo Chigi potrebbe esserci anche Arvedi, o uno dei colossi cinesi come Hbis, che in Serbia ha appena rilevato l'impianto di Smederevo. Non dimentichiamo che a ronzare attorno al porto di Taranto c'è anche il colosso CCCC, China comunication construction company. Potrebbe essere una «combo» che in queste ore non sarebbe per nulla sgradita al Mise e al ministero degli Esteri. Tentativi si succedono comunque con fare disperato: un atteggiamento nascosto sotto le dichiarazioni aggressive di Luigi Di Maio. «Tutti devono stare dalla stessa parte, che è quella dei lavoratori e non delle multinazionali. Se l'intenzione di Mittal è quella di andarsene dopo aver firmato un contratto con lo Stato italiano in cui si impegnava a prendere 10.500 lavoratori e fare 8 milioni di tonnellate di acciaio, allora ha sbagliato governo, perché non glielo permetteremo». Il leader grillino omette un piccolo dettaglio: come? Come potranno impedire una cosa già avvenuta? Infatti, Arcelor ha già avviato la dismissione di tutti gli impianti e la manager da poco ingaggiata, Lucia Morselli, non si è nemmeno presentata davanti a Conte. Segno che i franco indiani hanno intenzione di piazzare qualche altra sberla al governo, e semmai solo prima che si spezzi la corda rifarsi vivi per chiedere una serie di garanzie tutte a favore del loro business. Un disastro a cui non saremmo arrivati se i 5 stelle e il premier non avessero permesso la rimozione giuridica dello scudo penale. Pure Paolo Gentiloni, oggi quasi commissario Ue e all'epoca presidente del Consiglio, ha ricordato che i patti inseriti nel bando di gara erano bilaterali. Temiamo che, se va avanti così, al premier per attirare la simpatia degli operai la prossima volta a Taranto non basterà togliersi la pochette, la cravatta e sedersi su un tavolone. Al contrario, gli servirà un cordone: quello della scorta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pernacchia-dei-mittal-allultimatum-di-conte-2641284340.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="boccia-liberale-con-i-soldi-nostri-lo-stato-usi-la-cassaintegrazione" data-post-id="2641284340" data-published-at="1765410059" data-use-pagination="False"> Boccia liberale con i soldi nostri: «Lo Stato usi la cassaintegrazione» Week end tesissimo sulla vertenza Ilva. Ma - per le ragioni che vedremo - l'inizio della nuova settimana potrebbe diventare addirittura rovente: a Montecitorio, per l'esattezza in Commissione Finanze, più ancora che a Taranto. La giornata di ieri è stata segnata da un duro scontro verbale tra la Confindustria e la Cgil. Il presidente degli industriali Vincenzo Boccia, dopo alcune dichiarazioni di carattere generale critiche nei confronti di Luigi Di Maio («La politica è soluzione, non ricerca delle colpe. Qui abbiamo una questione che va affrontata con grande serietà e buon senso. Speriamo che nei prossimi giorni prevalga il buon senso dall'una e dall'altra parte»), ha evocato il tema - non propriamente estratto dalla cassetta degli attrezzi liberale - della cassaintegrazione, a proposito dei 5.000 esuberi chiesti da Arcelor mittal. Secondo Boccia, «se pretendiamo che, nonostante le crisi congiunturali, le imprese debbano mantenere i livelli di occupazione, quindi finanziare disoccupazione e non mantenere le imprese, facciamo un errore madornale». E ancora: «Se c'è una crisi congiunturale legata all'acciaio, è inutile far finta che non ci sia. Bisogna capire come gestire questa fase permettendo di “costruire", come accade in tutte le aziende del mondo. Ci sono strumenti come la cassaintegrazione e altri, che si attivano in momenti congiunturali negativi delle imprese. Il punto è creare sviluppo in quel territorio, costruire altre occasioni di lavoro, ma non sostitutive, complementari. Se l'Ilva arretra per la congiuntura internazionale, ogni azienda deve avere una flessibilità in chiave congiunturale», ha concluso Boccia. Piuttosto prevedibile la replica di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil: «Sono parole senza senso: c'è un accordo da far rispettare, firmato un anno fa, che prevede degli impegni». Abbastanza impressionante per inadeguatezza, intanto, nel senso della distanza abissale tra lo strumento evocato e le risorse che invece sarebbero necessarie, la misura prospettata dal sottosegretario Mario Turco (che si occupa di programmazione economica), già salito agli onori delle cronache - diciamo - per alcune sue bizzarre e indimenticabili dichiarazioni dei giorni scorsi sulle cozze. «Stiamo lavorando con il ministro Nunzia Catalfo e il ministro Giuseppe Provenzano», ha detto Turco, «all'istituzione, in manovra, di un fondo per il sostegno ai lavoratori dell'ex Ilva». Ma quel che fa effetto, negativamente, è l'esiguità delle risorse teoricamente messe in campo, l'equivalente di un caffè: sarebbe un fondo pluriennale, che partirebbe con 5-10 milioni, da destinare alla riqualificazione e al reinserimento nel mondo del lavoro di circa 1.500 lavoratori. Come si diceva all'inizio, però, il cuore dello scontro sarà tutto politico. La Verità di ieri ha riferito in dettaglio la contrarietà di Luigi Di Maio alla reintroduzione dello scudo, con tanto di avvertimento al Pd: come dire che, se il partito di Nicola Zingaretti insistesse, si creerebbe un problema per la maggioranza. Ecco, a fronte di queste avvisaglie di conflitto, il Pd sembra determinato a procedere, formulando subito un emendamento pro scudo (lo ha preannunciato il capogruppo Graziano Delrio) e provando a inserirlo nel primo treno normativo che passa, e cioè il decreto fiscale appena giunto a Montecitorio. E attenzione: già lunedì alle 9.30, cioè domani mattina, scade il termine per la presentazione degli emendamenti a quel testo in commissione Finanze. Capiremo dunque due cose: se il Pd avrà effettivamente presentato la sua proposta, e se, come i dem confermano, si tratterà di una norma di carattere «generale e astratto», cioè non solo concepita per il caso Ilva ma per qualunque impresa che si trovi in futuro in una condizione analoga. Attenzione, però: perché il diavolo, quando si entra nelle procedure parlamentari, si annida nei dettagli. Affinché un emendamento vada ai voti, in commissione, non basta presentarlo. Occorre che il presidente della commissione, che su questo ha un potere pressoché assoluto, lo dichiari ammissibile. E la principale ragione di inammissibilità, quando una presidenza di commissione adotta un criterio rigoroso, è proprio l'estraneità di materia. Intendiamoci: mille volte si sono votati emendamenti su un tema all'interno di un decreto che si occupava di altro; ma ci sono stati anche casi in cuoi presidenze rigorose hanno lavorato per evitare che ogni decreto si trasformasse in un «omnibus», in una «salsiccia normativa» costruita con ingredienti troppo diversi. E chi è il presidente della commissione Finanze della Camera? È la grillina Carla Ruocco, a cui toccherà il compito di dare luce verde (o rossa) all'ammissibilità formale dell'emendamento dem. Immaginate il pandemonio (politico) se la presidenza impedisse (anche con ragioni tecniche tutt'altro che inesistenti) la messa ai voti dell'emendamento Pd. E, quand'anche si votasse, nulla potrebbe essere dato per scontato, in una commissione in cui i grillini, da soli, partono già da 15 voti su 42. Capite bene che, a meno di un'intesa duplice, prima sull'ammissibilità dell'emendamento (che però è prerogativa esclusiva della presidenza di commissione) e poi sul voto pro o contro, rischia di maturare una spaccatura e una rissa clamorosa tra Pd e grillini. Senza nemmeno attendere che il teatro dello scontro sia il Senato: già una commissione della Camera può consegnare al Paese l'immagine di un governo e di una maggioranza clinicamente morti.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Continua a leggereRiduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Continua a leggereRiduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggereRiduci