2019-11-10
L’ultimatum di Conte ai Mittal cade nel vuoto
Dopo l'incontro con il colosso, il presidente aveva concesso 48 ore per formulare nuove proposte, dicendo: «Per noi 5.000 esuberi sono inaccettabili». Ieri nessuna riunione, e niente in agenda per domani. Luigi Di Maio minaccia: non permetteremo che se ne vadano.Vincenzo Boccia liberale con i soldi nostri: «Lo Stato usi la cassaintegrazione». Il presidente di Confindustria si schiera con Arcelor: «Errore madornale mantenere i livelli di occupazione se c'è crisi». Poi invoca gli ammortizzatori. Graziano Delrio ripropone lo scudo, ma sull'ammissibilità decide Carla Ruocco. Lo speciale comprende due articoli.Lo scorso giovedì Lakshmi Mittal e Aditya Mittal, rispettivamente amministratore delegato e direttore finanziario del colosso Arcelor Mittal, incontrano Giuseppe Conte. Due ore nelle quali i due tycoon comunicano di aver dato recesso del contratto, adito le vie legali e avviato il lento iter di spegnimento degli impianti ex Ilva. Ne segue un consiglio dei ministri durato fino alle 22. Poi una veloce conferenza stampa, in cui il governo ammette la difficoltà della situazione e prova a smontare la questione (invece dirimente) dello scudo fiscale. «Il tema adesso sono gli esuberi che Arcelor vuole mettere sul tavolo», dichiara Conte dicendosi pronto a rimettere lo scudo penale sulle attività dei commissari e dei manager Arcelor. Il tentativo naufraga perché i 5 stelle lo sbugiardano subito. La posizione però rimane quella di ributtare sulle spalle dei franco indiani le colpe. Tant'è che il premier aggiunge di voler mettere in agenda un ultimatum di 48 ore per incontrare di nuovo l'azienda. Un diktat imposto, stando sempre alle parole di Conte, dall'allarme rosso per l'occupazione in Puglia e l'impatto sul Pil dovuto a una eventuale chiusura delle acciaierie. Ieri l'ultimatum è scaduto e non c'è stato nessun incontro. I Mittal non si sono ripresentati a Palazzo Chigi. Non solo. Venerdì sera il presidente del Consiglio ha trascorso oltre 5 ore a Taranto. Buona parte di queste tra gli operai della fabbrica, ai quali ha fatto capire che i rapporti con Arcelor Mittal sono quasi irrecuperabili. Il resto del tempo è stato dedicato agli incontri in prefettura con le autorità locali e con i vertici di Confindustria. Da qui è uscita una versione diversa che mira ad accreditare già domani o al massimo martedì un nuovo vertice con i capi dell'azienda. «Sì, ci ha detto del nuovo incontro di lunedì e peraltro la richiesta di rivedersi, per continuare a discutere, l'ha avanzata lo stesso presidente del consiglio», spiegano le fonti che però ribadiscono che il premier è anche dubbioso che Mittal accetti poi lo schema negoziale che gli proporrà il governo. La notizia è riportata dall'Agi e le fonti rientrano nell'entourage del presidente della Confindustria di Taranto, Antonio Marinaro. «Lo schema non ci è stato rivelato», prosegue il medesimo lancio di agenzia, «dicono le stesse fonti che però rammentano come nel vertice di giovedì sera a Palazzo Chigi il premier abbia detto che ad Arcelor Mittal sul tavolo è stato messo di tutto, ma il passo indietro è già fatto e appare difficilmente reversibile». Palazzo Chigi non ha smentito la notizia per ovvi motivi di storytelling. Ma non solo l'ultimatum è stato spernacchiato: alla Verità risulta anche che né domani né martedì sono previsti incontri. Nulla in agenda da parte di Arcelor il che lascia intendere che per il governo la corsa verso la nazionalizzazione sarà come una sorta di via Crucis. Anche prendendo per buona la strada sollecitata pure dal numero uno di banca Intesa, Carlo Messina, al governo toccherà comunque trovare un partner industriale. Fare l'acciaio è ben più complicato che far volare degli aerei (nonostante allo Stato non riesca nemmeno la partita Alitalia), per questo la scelta più semplice sarebbe quella di convincere Arcelor Mittal a rientrare dalla finestra non più come affittuario privato degli asset della vecchia Ilva, ma come socio privato di una compagine siderurgica pubblica. In fondo Arcelor è il primo colosso con quasi 100 milioni di tonnellate annue e ha il know how necessario. Però nell'agenda di Palazzo Chigi potrebbe esserci anche Arvedi, o uno dei colossi cinesi come Hbis, che in Serbia ha appena rilevato l'impianto di Smederevo. Non dimentichiamo che a ronzare attorno al porto di Taranto c'è anche il colosso CCCC, China comunication construction company. Potrebbe essere una «combo» che in queste ore non sarebbe per nulla sgradita al Mise e al ministero degli Esteri. Tentativi si succedono comunque con fare disperato: un atteggiamento nascosto sotto le dichiarazioni aggressive di Luigi Di Maio. «Tutti devono stare dalla stessa parte, che è quella dei lavoratori e non delle multinazionali. Se l'intenzione di Mittal è quella di andarsene dopo aver firmato un contratto con lo Stato italiano in cui si impegnava a prendere 10.500 lavoratori e fare 8 milioni di tonnellate di acciaio, allora ha sbagliato governo, perché non glielo permetteremo». Il leader grillino omette un piccolo dettaglio: come? Come potranno impedire una cosa già avvenuta? Infatti, Arcelor ha già avviato la dismissione di tutti gli impianti e la manager da poco ingaggiata, Lucia Morselli, non si è nemmeno presentata davanti a Conte. Segno che i franco indiani hanno intenzione di piazzare qualche altra sberla al governo, e semmai solo prima che si spezzi la corda rifarsi vivi per chiedere una serie di garanzie tutte a favore del loro business. Un disastro a cui non saremmo arrivati se i 5 stelle e il premier non avessero permesso la rimozione giuridica dello scudo penale. Pure Paolo Gentiloni, oggi quasi commissario Ue e all'epoca presidente del Consiglio, ha ricordato che i patti inseriti nel bando di gara erano bilaterali. Temiamo che, se va avanti così, al premier per attirare la simpatia degli operai la prossima volta a Taranto non basterà togliersi la pochette, la cravatta e sedersi su un tavolone. Al contrario, gli servirà un cordone: quello della scorta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pernacchia-dei-mittal-allultimatum-di-conte-2641284340.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="boccia-liberale-con-i-soldi-nostri-lo-stato-usi-la-cassaintegrazione" data-post-id="2641284340" data-published-at="1758062843" data-use-pagination="False"> Boccia liberale con i soldi nostri: «Lo Stato usi la cassaintegrazione» Week end tesissimo sulla vertenza Ilva. Ma - per le ragioni che vedremo - l'inizio della nuova settimana potrebbe diventare addirittura rovente: a Montecitorio, per l'esattezza in Commissione Finanze, più ancora che a Taranto. La giornata di ieri è stata segnata da un duro scontro verbale tra la Confindustria e la Cgil. Il presidente degli industriali Vincenzo Boccia, dopo alcune dichiarazioni di carattere generale critiche nei confronti di Luigi Di Maio («La politica è soluzione, non ricerca delle colpe. Qui abbiamo una questione che va affrontata con grande serietà e buon senso. Speriamo che nei prossimi giorni prevalga il buon senso dall'una e dall'altra parte»), ha evocato il tema - non propriamente estratto dalla cassetta degli attrezzi liberale - della cassaintegrazione, a proposito dei 5.000 esuberi chiesti da Arcelor mittal. Secondo Boccia, «se pretendiamo che, nonostante le crisi congiunturali, le imprese debbano mantenere i livelli di occupazione, quindi finanziare disoccupazione e non mantenere le imprese, facciamo un errore madornale». E ancora: «Se c'è una crisi congiunturale legata all'acciaio, è inutile far finta che non ci sia. Bisogna capire come gestire questa fase permettendo di “costruire", come accade in tutte le aziende del mondo. Ci sono strumenti come la cassaintegrazione e altri, che si attivano in momenti congiunturali negativi delle imprese. Il punto è creare sviluppo in quel territorio, costruire altre occasioni di lavoro, ma non sostitutive, complementari. Se l'Ilva arretra per la congiuntura internazionale, ogni azienda deve avere una flessibilità in chiave congiunturale», ha concluso Boccia. Piuttosto prevedibile la replica di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil: «Sono parole senza senso: c'è un accordo da far rispettare, firmato un anno fa, che prevede degli impegni». Abbastanza impressionante per inadeguatezza, intanto, nel senso della distanza abissale tra lo strumento evocato e le risorse che invece sarebbero necessarie, la misura prospettata dal sottosegretario Mario Turco (che si occupa di programmazione economica), già salito agli onori delle cronache - diciamo - per alcune sue bizzarre e indimenticabili dichiarazioni dei giorni scorsi sulle cozze. «Stiamo lavorando con il ministro Nunzia Catalfo e il ministro Giuseppe Provenzano», ha detto Turco, «all'istituzione, in manovra, di un fondo per il sostegno ai lavoratori dell'ex Ilva». Ma quel che fa effetto, negativamente, è l'esiguità delle risorse teoricamente messe in campo, l'equivalente di un caffè: sarebbe un fondo pluriennale, che partirebbe con 5-10 milioni, da destinare alla riqualificazione e al reinserimento nel mondo del lavoro di circa 1.500 lavoratori. Come si diceva all'inizio, però, il cuore dello scontro sarà tutto politico. La Verità di ieri ha riferito in dettaglio la contrarietà di Luigi Di Maio alla reintroduzione dello scudo, con tanto di avvertimento al Pd: come dire che, se il partito di Nicola Zingaretti insistesse, si creerebbe un problema per la maggioranza. Ecco, a fronte di queste avvisaglie di conflitto, il Pd sembra determinato a procedere, formulando subito un emendamento pro scudo (lo ha preannunciato il capogruppo Graziano Delrio) e provando a inserirlo nel primo treno normativo che passa, e cioè il decreto fiscale appena giunto a Montecitorio. E attenzione: già lunedì alle 9.30, cioè domani mattina, scade il termine per la presentazione degli emendamenti a quel testo in commissione Finanze. Capiremo dunque due cose: se il Pd avrà effettivamente presentato la sua proposta, e se, come i dem confermano, si tratterà di una norma di carattere «generale e astratto», cioè non solo concepita per il caso Ilva ma per qualunque impresa che si trovi in futuro in una condizione analoga. Attenzione, però: perché il diavolo, quando si entra nelle procedure parlamentari, si annida nei dettagli. Affinché un emendamento vada ai voti, in commissione, non basta presentarlo. Occorre che il presidente della commissione, che su questo ha un potere pressoché assoluto, lo dichiari ammissibile. E la principale ragione di inammissibilità, quando una presidenza di commissione adotta un criterio rigoroso, è proprio l'estraneità di materia. Intendiamoci: mille volte si sono votati emendamenti su un tema all'interno di un decreto che si occupava di altro; ma ci sono stati anche casi in cuoi presidenze rigorose hanno lavorato per evitare che ogni decreto si trasformasse in un «omnibus», in una «salsiccia normativa» costruita con ingredienti troppo diversi. E chi è il presidente della commissione Finanze della Camera? È la grillina Carla Ruocco, a cui toccherà il compito di dare luce verde (o rossa) all'ammissibilità formale dell'emendamento dem. Immaginate il pandemonio (politico) se la presidenza impedisse (anche con ragioni tecniche tutt'altro che inesistenti) la messa ai voti dell'emendamento Pd. E, quand'anche si votasse, nulla potrebbe essere dato per scontato, in una commissione in cui i grillini, da soli, partono già da 15 voti su 42. Capite bene che, a meno di un'intesa duplice, prima sull'ammissibilità dell'emendamento (che però è prerogativa esclusiva della presidenza di commissione) e poi sul voto pro o contro, rischia di maturare una spaccatura e una rissa clamorosa tra Pd e grillini. Senza nemmeno attendere che il teatro dello scontro sia il Senato: già una commissione della Camera può consegnare al Paese l'immagine di un governo e di una maggioranza clinicamente morti.