2021-02-22
«Perché uccidere la montagna? Bastava copiare dagli svizzeri»
L'ex campione ora istruttore Giorgio Rocca: «Le mie scuole sono aperte a Saint Moritz ma chiuse a Livigno. In Italia fatturato zero, non so come farà chi non è solido economicamente»A un certo punto dell'intervista - telefonica - si sente un rumore metallico. Cos'era? «La seggiovia», risponde serafico. Mentre ci parlava aveva gli sci ai piedi, e non lo avremmo mai detto. «Sto sciando, certo, sono a Sankt Moritz», dice, e richiama con il video per mostrare un panorama di vette azzurro e bianco intensi, crampo di nostalgia pure se le sue piste non le sai fare. Giorgio Rocca vive da sempre tra l'aldiquà e l'aldilà del confine. Nato a Coira, nel Cantone dei Grigioni, nel 1975, ha messo a segno nella sua carriera agonistica con addosso il tricolore 11 vittorie in Coppa del mondo. Di queste cinque consecutive: ha eguagliato i record di Tomba, Stenmark, Girardelli. Oggi portano il suo nome tre accademie di sci. Una in Italia, a Livigno, due in Svizzera, a St. Moritz e Crans Montana. E così, mentre di qui il governo italiano gli impediva la riapertura con una comunicazione alla vigilia, solo poche ore prima, di là, nelle scuole elvetiche, primo lockdown a parte lui ha sempre continuato a lavorare. Rocca, oggi, è arrabbiato. E per capire cosa c'è dietro la sua rabbia, occorre provare a conoscere almeno un po' come ragiona un atleta come lui.Da chi ha preso la passione per lo sci? Dalla mamma svizzera o dal papà italiano?«In realtà da nessuno dei due. Mi hanno dato l'opportunità di scoprire il mio habitat naturale, la neve, permettendomi di vivere a Livigno». Quante ore al giorno dedicava all'allenamento?«Certi giorni dalle 5 del mattino fino a quando c'era luce. Paragono sempre il lavoro dello sciatore al contadino: la bestia deve sempre mangiare, non c'è sabato e non c'è domenica. Non devi sgarrare, devi essere bravo e avere costanza». Pesava?«No». Perché ne ha ricavato soddisfazioni?«Perché è la mia passione. Come ha detto un mio amico, lo sci è bello una volta su cento, altrimenti è uno sport di m… Nel senso che le variabili sono tantissime. Rispetto alla fatica bestiale che fai, ti togli poche soddisfazioni, poche volte arrivi al successo. Ho vinto 11 volte, ma da quando ero bambino avrò fatto un migliaio di gare o più. E già mi ritengo fortunato: sui miei slalom ho avuto una media altissima di successo». Il trionfo più emozionante?«Il primo. Nel 2003, lo slalom a Wengen. Perché era un po' che non facevo podio, o arrivavo secondo. Era nel mirino, l'ho conquistato».Sono le medaglie la soddisfazione più grande della sua vita?«Lo sport mi ha insegnato le regole, soprattutto. Ma ci sono i figli. Tre maschi e una femmina. Utilizzo la mia carriera per trasmettere a tutti e quattro lealtà, correttezza. Soprattutto mostro loro che è meglio evitare di essere ipocriti: se una cosa non funziona, meglio riconoscerlo. Appena posso faccio il papà. È una sfida divertente».Sciano pure i suoi figli?«Tutti, anche la più piccola. Perché ha sempre visto i fratelli. La vita in montagna è sciare. Anche se abitiamo a Lugano: abbiamo scelto di farli vivere vicino alla città, per le scuole soprattutto».Finito l'agonismo ha deciso di fare l'imprenditore. Scuola sci, eventi, sponsorizzazioni. «Sì, ho scelto di mettere la mia esperienza di uomo della neve al servizio del pubblico, mi sembrava la strada giusta. Amo stare con le persone, ho messo a punto un'ampia offerta».È bastato il brand «Giorgio Rocca» per avere successo in questo campo?«A dire il vero prima di cominciare ho studiato: ho seguito un master di buon livello, e ho imparato anche dagli errori. Per anni avevo avuto a che fare solo con il mio team. Mi sono riorganizzato e impegnato nel settore del turismo».A un certo punto, poi, l'emergenza Covid. «E il lavoro è diventato stare dietro alle regole, capire cosa si può o non può fare». Dalla Svizzera all'Italia però…«Sono molto arrabbiato. Ho la fortuna di lavorare in una nazione che mi permette di lavorare e poi c'è la mia Livigno, dove sono impossibilitato. Rifugi e ristoratori, come noi, sono davvero in crisi».Si apre, non si apre, comunicazioni all'ultimo momento. «Essere presi in giro non piace a nessuno: le promesse vanno mantenute. Almeno: io sono abituato così. Con i miei figli, con la mia famiglia, con i miei dipendenti». Ma tra varianti e vaccini in ritardo…«Ma no, non è quello. C'è una sfiducia totale per chi lavora sulla neve. Che sta mettendo in ginocchio il nostro mondo».Si può quantificare una perdita economica?«Non riesco ancora: in Italia ho fatturato zero. Sicuramente sono tanti soldi».Però quelle foto di persone che sembravano ammassate… Gli impianti aperti sono pericolosi?«Le città montane in questo periodo, anche con impianti chiusi, sono un vero casino. Pienone di gente nei centri e nei bar. Nella stessa Livigno si sale a piedi pur di sciare. Se si scia non si è certo più vicino agli altri».E allora come si spiega quel che è accaduto?«Probabilmente il nostro popolo delle montagne non ha nessun potere. E poi evidentemente i politici non sono sciatori né frequentatori delle cime. La Svizzera ha dimostrato che con le regole si poteva restare aperti». Come funziona lì?«Ci sono controlli severi, noi operatori abbiamo un protocollo da rispettare. I clienti ne sono consapevoli. I rifugi fanno il take away e questo evita troppo afflusso negli impianti di risalita. Reti strette incolonnano la gente, che quindi è sempre distanziata di almeno un metro. Si porta la mascherina nei punti in cui si sta fermi in coda. Chi vuole può salire da solo sull'ovetto o in seggiovia, è una libera scelta». Niente di fantascientifico, insomma.«No. Aggiungo che ci sono tamponi obbligatori per i maestri, ogni due settimane, e dobbiamo inviare una lista con il tracciamento dei clienti. Si lavora così tranquillamente. Sono regole che mi permettono di proteggere anche i miei ragazzi».Quanto la chiusura italiana ha compromesso il settore?«Onestamente non so come farà chi non è solido economicamente. Tutti, comunque, ci porteremo dietro questa stagione persa per almeno 5 o 6 anni. Ma il punto è: oltre al danno, la beffa. Dopo l'annuncio della riapertura si sono battute le piste e riempiti i frigo con prodotti freschi che ci è toccato in parte buttare. Abbiamo dovuto rimborsare 2.500 ski pass, chiamando i clienti 12 ore prima dell'apertura e spiegando che si sarebbe rimasti chiusi. Con i clienti internazionali, me lo lasci dire, si è trattata di una figura di m…».Come hanno reagito?«Ci prendono per dei pirla. Ridono. In effetti è ridicolo. Deve funzionare come nelle grandi aziende: si prende una decisione, si rispetta. Poi, se si rilevano peggioramenti drastici e se si è in grado di dimostrare che un provvedimento si è basato sui fatti, allora sono il primo a rispettarlo. Ma sono state prese decisioni senza numeri concreti. Mi chiedo: si saranno preparati? Avranno previsto di avere i soldi per aiutare le persone?».Ristori finora ne avete presi?«Cinquemila euro in tutto per la scuola di sci. Ho 60 persone che lavorano con me. I 12 maestri di Livigno sono a partita Iva, hanno ricevuto solo i 600 euro del primo lockdown».E come fanno?«Molti di loro hanno famiglia. C'è chi si trova un'altra occupazione e si arrangia come può: ciaspolate, gite. Ma non tutti ne hanno l'opportunità, si fa davvero la fame. C'è chi mi ha raccontato di aver dovuto lasciare la casa in affitto e di esser tornato dai genitori. C'è chi lascia la montagna dove ha scelto di vivere. Stanno accadendo cose vergognose, frustranti dal punto di vista personale. Sono molto dispiaciuto».È quindi una fortuna che due delle sue tre accademie non siano su suolo italiano?«Sono da sempre stato fiero dell'Italia. Per la moda, lo sport e il cibo lo sono ancora. Perché sono settori dove c'è gente che fa sul serio. Ma la politica è davvero un disastro».Però ora è arrivato Draghi.«Manca la speranza, dico la verità. Bollette e affitti da pagare nel frattempo continuano ad arrivare. Negli anni, anche chi pensavo sarebbe stato dalla nostra parte mi ha deluso».Nei cantoni le cose funzionano perché c'è gente competente sullo sport a decidere?«In realtà è il medico federale che guarda i numeri. In Svizzera le montagne e i comprensori sciistici sono importanti. Si fanno due conti: una chiusura totale ci costerebbe x; non possiamo permettercelo; preferiamo permettere il lavoro delle persone, con regole e restrizioni».C'è chi potrebbe obiettare che si barattano vite, in questo modo. «No, si cerca sempre di far morire meno gente possibile. Ci si chiede però: sarebbe forse meglio che non muoia più nessuno, ma si muoia di fame?».La lascio alle sue piste. Ieri però si sono conclusi i campionati del mondo di sci alpino a Cortina d'Ampezzo. Un giudizio da sportivo?«Sono stato a Cortina, per produrre alcuni contenuti con gli sponsor per i miei social network. Ho visto la forma migliore dell'italianità dello sport, una buona organizzazione. Le gare sono state un'anticipazione delle prossime Olimpiadi. Mi auguro di poter essere coinvolto, da ex e come persona che potrebbe essere d'aiuto per la valorizzazione di una gara così importante. Ho a cuore questa nazione. Nello sport di sicuro».