2020-03-07
«Perché cerchiamo il virus ovunque? Gli altri non lo fanno»
Parla l'infettivologo Matteo Bassetti: «Ci concentriamo sugli asintomatici, e facciamo tamponi post mortem, è un metodo viziato».«Ho l'impressione che, mentre negli altri Paesi europei in cui il coronavirus è arrivato prima hanno cominciato a cercarlo da poco, qui in Italia, invece, ne siamo andati a caccia da subito e abbiamo cercato di stanarlo ovunque». Ecco svelato l'arcano dei numeri che hanno trasformato, all'apparenza, l'Italia come la nazione degli untori. Matteo Bassetti, professore ordinario di Malattie infettive all'università di Genova e direttore della clinica di malattie infettive del Policlinico genovese San Martino, oltre a combattere con il Covid-19 che ha colpito i suoi pazienti, è alle prese anche con un'azione di contrasto delle bufale, tanto da diventare una voce scomoda. «Ormai», spiega alla Verità, «vengono diffusi finti audio a mio nome e mi piovono addosso attacchi dai social, sulla stampa e anche da colleghi».Dottore, partiamo dalla prima delle fake news in circolazione: siamo il lazzaretto d'Europa?«Se continuiamo a concentrarci sugli asintomatici, ricoverandoli, la sindrome da lazzaretto continuerà a crescere. Lo ripeto da un po': bisogna cercare di evitare di guardare gli asintomatici ma concentrarsi sui casi più gravi di polmonite, soprattutto su quelli che all'apparenza non sono polmoniti classiche. Se noi andiamo a mettere tutti i pazienti nelle strutture ospedaliere si rischia il collasso del sistema sanitario. I casi gravi, in realtà, sono circa il 15-20 per cento, quelli molto gravi, ovvero che hanno bisogno di assistenza ventilatoria, invece, sono solo intorno al 5 per cento. Per evitare che il sistema collassi dobbiamo concentrarci solo sui casi molto gravi».Quindi è un problema di numeri?«Bisogna tenere bene a mente che il 98 per cento dei pazienti guarisce. E in Italia non ci sono così tanti morti. Quello che è considerato come tasso di letalità da coronavirus, attualmente è viziato dalla modalità di rilevazione delle morti. Basta confrontare i dati americani sull'influenza, che sono gli unici validi, per comprendere che la mortalità degli ospedalizzati è generalmente intorno al 6 per cento. Bene, i dati italiani sulla mortalità degli ospedalizzati per coronavirus è intorno al 6 per cento. Quindi è sicuramente una infezione nuova, difficile da combattere, che produce molti pazienti con difficoltà a essere ventilati, però, stiamo attenti: non è la Sars o Ebola».Neanche possiamo però ridurla a una banale influenza.«Prendiamo i dati delle polmoniti comunitarie. Negli Stati Uniti si contano 2 o 3 milioni di casi, con 500.000 ospedalizzazioni e 45.000 morti. L'epidemiologia europea ci dice che abbiamo una incidenza tra 1,1 e 4 casi ogni mille abitanti e il 20 per cento di questi viene ospedalizzato. Tutto ciò per dire che non bisogna dimenticare che le polmoniti rappresentano la sesta causa di morte al mondo». Ma il numero complessivo di positivi appare preoccupante.«Parliamo ancora con i numeri alla mano: in Giappone sei decessi su 360 casi, in Corea 35 su 6.000, in Germania zero su 482, in Francia sei su 377. In Italia secondo me c'è un modo di contare i morti per coronavirus sbagliato. Contiamo chi muore con il coronavirus, non per il coronavirus. Abbiamo addirittura fatto i tamponi post mortem. Che senso ha? Gli altri Paesi non lo fanno».Ci spieghi meglio.«Quando un paziente di 90 anni entra in ospedale per un infarto e viene riscontrato anche il coronavirus non è detto che sia morto per il coronavirus, molto probabilmente è morto per l'infarto. Ovviamente l'infezione può aggravare un quadro clinico già compromesso al punto da poter condurre al decesso un paziente di per sé in gravi condizioni. Il problema è che nella statistica italiana sono entrati capre e cavoli. Purtroppo abbiamo una popolazione di pazienti nelle terapie intensive italiane di una età avanzata e con tre o quattro problemi di base. L'età media dei morti è di oltre 81 anni. Ma per quanti di questi la causa della morte è il coronavirus? Ecco, la statistica ci dice che siamo in linea con gli altri Paesi europei. Bisogna dire alla gente che può vivere tranquilla: non è un virus letale. Ripeto: nella peggiore delle ipotesi si guarisce nel 98 per cento dei casi, nella migliore al 99 per cento. E chi si lascia alle spalle il coronavirus dopo la ventilazione ha risolto il suo problema e torna a fare la sua vita». Resta un ultimo problema: le degenze. Negli ospedali c'è posto per tutti o , di questo passo, rischiamo il collasso?«Sono convinto che possiamo farcela. Non mi preoccupa il numero complessivo di positivi al coronavirus, ma il fatto che un numero così alto sia arrivato in un così breve lasso di tempo. Il sistema sanitario può reggere se l'onda è più lunga che alta. E per non intasare il sistema bisogna evitare gli asintomatici. Il momento non è semplice: i pazienti non gravi arrivano in ospedale e spesso vengono ricoverati. Rimandarli a casa, poi, diventa complicato, se non dopo diversi giorni. La cura è il triage: concentrarsi sui casi più gravi, quelli che meritano davvero un ricovero».