2019-07-22
Per Trump la sovranità è sacra. Vale anche nei confronti dell’ Ue
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Una certa vulgata mediatica ha cercato per lungo tempo di dipingere Donald Trump come una sorta di pazzo guerrafondaio: un presidente aggressivo, pericoloso, oltre che totalmente dedito alla più becera improvvisazione. Una vulgata che, con il passare del tempo, ha dovuto tuttavia assai spesso infrangersi con la realtà: non solo i recenti sviluppi della questione iraniana stanno mostrando come l'attuale inquilino della Casa Bianca non sia affatto un presidente "dalla bomba facile". Ma anche i progressi su alcuni dossier internazionali (come la distensione con la Corea del Nord) mostrano che – al di là di come la si possa pensare sulle singole questioni – l'amministrazione americana non si stia muovendo in modo meramente rabberciato. Quello che molti critici spesso non vedono (o fingono di non vedere) è il mutamento di paradigma che – nel bene o nel male – questo presidente americano sta incarnando. Un mutamento di paradigma che verte attorno a un'idea centrale: la difesa del principio di sovranità nazionale.Si tratta, a ben vedere, di un cambio di passo deciso, rispetto alle precedenti linee seguite dai Clinton e dai Bush. Un cambio di passo che molti esponenti dell'establishment di Washington ancora fanno fatica a digerire ma che – in definitiva – era già abbastanza chiaro da tempo. Non solo, nel corso della campagna elettorale del 2016, Trump aveva più volte criticato l'interventismo internazionalista delle amministrazioni americane precedenti. Ma, nel settembre del 2017, questa linea divenne palese durante un discorso del presidente alle Nazioni Unite, in cui dichiarò significativamente: «Non ci aspettiamo che diversi Paesi condividano le stesse culture, tradizioni o persino sistemi di governo. Ma ci aspettiamo che tutte le nazioni sostengano questi due doveri sovrani fondamentali: rispettare gli interessi del proprio popolo e i diritti di ogni altra nazione sovrana […] Le nazioni forti e sovrane permettono a diversi Paesi con valori diversi, culture diverse e sogni diversi non solo di coesistere, ma di lavorare fianco a fianco sulla base del rispetto reciproco».Da tutto questo, si capisce che ogni tentativo di leggere la politica internazionale di Trump senza riferirsi all'idea di sovranità non possa che sfociare in visioni parziali o distorte. Un elemento confermato a La Verità da James Carafano, vicepresidente alla Heritage Foundation della sezione dedicata alla sicurezza nazionale e alla politica estera. «Credo che il sostegno mostrato dal presidente Trump nei confronti dei fautori della Brexit sia stato ampiamente frainteso», ha dichiarato Carafano. «Gli Stati Uniti non perseguono una politica negativa verso l'Unione Europea. Il futuro dell'Unione Europea appartiene agli europei. Gli Stati Uniti vogliono lavorare con l'Unione Europea quando hanno interessi in comune. Tuttavia la cosa più importante è che il presidente rispetti il principio della sovranità popolare e il fatto che i cittadini di una determinata nazione abbiano il diritto di prendere le proprie decisioni. In questo senso», prosegue Carafano, «Trump rispetta la decisione del popolo britannico di abbandonare l'Unione Europea. Questo atteggiamento non dovrebbe essere interpretato come se il presidente avesse in mente un piano per distruggere l'Unione Europea: non è così. In secondo luogo, ritengo che Trump auspichi, per esempio, una hard Brexit perché gli Stati Uniti vorrebbero stipulare un trattato bilaterale di libero scambio con il Regno Unito: un'eventualità impossibile, fin quando i britannici resteranno nell'Unione Europea. Credo, inoltre, che una Gran Bretagna fuori dall'Unione Europea possa costituire un buon partner per la stessa Bruxelles. Sono ottimista per il futuro».Del resto, il rispetto dell'altrui sovranità nazionale incarnato da questo presidente passerebbe anche attraverso la volontà di non fare discriminazioni tra partner. Quando, per esempio, Viktor Orban venne ricevuto lo scorso maggio alla Casa Bianca, molti criticarono Trump, sostenendo che quell'incontro nascesse dalla sua predilezione per i leader autoritari. In questo contesto, alcuni tesero poi a sottolineare che né Barack Obama né George W. Bush avessero accolto il premier ungherese. Anche su questo punto, l'analisi di Carafano diverge con la vulgata. «Credo sia giusto che il presidente tratti nello stesso modo tutti i leader europei. Si tratta di leader liberamente eletti che hanno tutto il diritto a portare avanti le proprie prospettive ed è giusto rispettarli. In particolare», prosegue l'analista, «'Ungheria è un membro della NATO e un partner degli Stati Uniti, perciò credo fosse appropriato che il presidente ne ricevesse il premier alla Casa Bianca». Insomma, il rispetto della sovranità nazionale altrui come metodo per evitare spiacevoli casi di subalternità o – il che è lo stesso – la perniciosa creazione di club esclusivi, riservati a pochi eletti.Si tratta, del resto, di un paradigma che il presidente sembra seguire anche al di fuori delle storiche alleanze statunitensi. Senza poi per questo rinunciare alla leadership americana sullo scacchiere internazionale. È lo stesso Carafano, d'altronde, a renderlo esplicito. L'analista si dice infatti favorevole alla pressione che la Casa Bianca sta esercitando sull'Iran: una pressione che dovrebbe spingere il presidente Hassan Rohani a sedersi al tavolo delle trattative per siglare un accordo sul nucleare migliore di quello stipulato nel 2015 ai tempi dell'amministrazione Obama. Un obiettivo perseguito – sottolinea Carafano – non solo per gli interessi degli Stati Uniti ma anche per quelli dei loro alleati in Medio Oriente e in Europa. Ciononostante l'analista sembra apprezzare lo scetticismo di Trump verso le strategie di regime change, auspicate da buona parte delle galassie neoconservatrici. «Il governo del popolo iraniano», chiarisce, «riguarda il popolo iraniano, non gli Stati Uniti».
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