
Inizia il ciclo di dieci lezioni di Paolo Nori dedicate agli aspiranti romanzieri. Primo: smettere di guardare per iniziare a vedere Anche se, ricordava Somerset Maugham, «esistono tre regole per una buona storia. Purtroppo, nessuno sa quali siano».Lo scrittore inglese William Somerset Maugham ha scritto una volta: «Ci sono tre regole, per scrivere un romanzo. Purtroppo, nessuno sa quali siano». Credo che abbia ragione. Un altro scrittore britannico, Roald Dahl, in un racconto intitolato Lo scrittore automatico, immagina che un informatico con la passione per la letteratura che si chiama Knipe proponga al suo capo, che si chiama Bohlen, una macchina per scrivere racconti e romanzi. «C'è una cosa che proprio non capisco, Knipe», dice Bohlen, «Da dove uscirebbero le trame? Una macchina non può inventarle».«Gliele forniremo noi, signore», risponde Knipe. «Nessun problema. Ce ne sono 300 o 400 scritte nella cartelletta alla sua sinistra. Le collochiamo dritte nella sezione “memoria trame" della macchina».«Continui».«Sono previste anche molte altre piccole raffinatezze, mr Bohlen. Le vedrà quando studierà il progetto nei particolari. Per esempio, è previsto un espediente che usano quasi tutti gli scrittori, quello di inserire in ogni racconto almeno una parolona lunga e incomprensibile. Questo fa pensare al lettore che l'autore sia molto dotto e intelligente. Perciò la macchina farà automaticamente lo stesso. Avremo un intero stock di parole lunghe memorizzate».«Dove?».«“Nella sezione memoria parole", rispose epesegeticamente Knipe», scrive Dahl (la traduzione è di Massimo Bocchiola), anche se quell'epesegeticamente ci fa sospettare che questo racconto non si debba necessariamente a Dahl ma, forse, alla macchina di Bohlen. Che è una macchina, però, che, nella realtà, non credo nessuno abbia ancora inventato. Perché ci sono tre regole, per scrivere un romanzo, e nessuno sa quali siano, e siamo d'accordo. Eppure io, da una dozzina di anni, tengo delle scuole di scrittura in cui insegno a scrivere dei romanzi. Son matto? Forse sono anche matto, ma credo che quello che faccio, le scuole di scrittura alle quali partecipo, non siano insensate come potrebbe sembrare. Quando avevo 16 anni mi piaceva disegnare, al pomeriggio mi mettevo nella mia stanza e stavo lì un'ora a copiar dei fumetti e mi piaceva moltissimo lo stato della mia testa in quei momenti lì che copiavo, mi sembrava una cosa sana, che faceva della mia testa un posto pulito. E siccome non sapevo niente, della tecnica del disegno, avevo comprato una di quelle dispense che vendevano in edicola, un corso di disegno, avevo preso il primo numero e avevo cominciato a leggerlo e, visto che non la conoscevo, io mi immaginavo che mi avrebbero insegnato la tecnica, che matite usare, come fare il chiaroscuro, dove cadon le ombre a seconda della fonte di luce, però poi leggendo, la prima cosa che c'era scritta in quel corso di disegno era il fatto che, sì, mi avrebbero insegnato la tecnica il chiaroscuro eccetera eccetera ma soprattutto, quel che volevano insegnare a quelli che avrebbero fatto quel corso, sarebbe stata la cosa più difficile da imparare, per imparare a disegnare, dicevano loro, cioè guardare. Che io mi ricordo mi ero sentito imbrogliato. «Cosa sono andato a comprare?» avevo pensato, perché ero convinto di esser capace, di guardare, eran 16 anni, che guardavo, solo che poi, ero andato avanti a leggere, loro mi proponevano di fare una prova, quelli che avevano scritto quel manuale lì di disegno. «Prova a pensare a una persona che vedi spesso e che non è con te in questo momento», c'era scritto, «prova a pensare alla sua testa, che forma ha? È ovale o tonda? La linea delle orecchie è sopra o sotto quella delle sopracciglia? Che distanza c'è tra l'attaccatura dei capelli e la radice del naso? E tra la fine del naso e il labbro superiore? Gli occhi come ce li ha, distanziati o ravvicinati?».Io avevo pensato al mio compagno di banco, che si chiama Bruno Pelosi, e non avrei saputo rispondere a nessuna di queste domande. Avrei saputo solo dire che Bruno era biondo e aveva gli occhi azzurri. Ero così convinto di sapere com'era, il mio compagno di banco, che non lo guardavo: Bruno mi stava di fianco, tutti i giorni, nel suo imballaggio da compagno di banco, come se fosse ricoperto da del pluriball, quelle buste trasparenti con dei pallini pieni d'aria che mettono intorno agli strumenti elettronici quando li imballano, su cui ci fosse scritto: «Bruno Pelosi, compagno di banco». Il giorno dopo, ero andato a scuola l'avevo guardato e avevo visto Bruno Pelosi. L'avevo visto fuori dall'imballaggio, come se accorgermi che non avrei saputo descriverlo fosse servito a sfilargli il pluriball, e mi ero accorto che aveva gli occhi molto ravvicinati, forse è la persona con gli occhi più ravvicinati che abbia conosciuto in vita mia, ma forse no, che c'è una bibliotecaria, in provincia di Milano, che ho incontrato qualche anno fa, che secondo me ha gli occhi ancora più ravvicinati. In un libro che è una specie di involontario manuale di scrittura e che si intitola Nel territorio dei diavolo, Flannery O'Connor scrive: «La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli. Ho un amico che sta prendendo lezioni di recitazione, a New York, da una signora russa che ha fama di essere un'ottima insegnante. Mi scriveva questo mio amico che per tutto il primo mese non hanno pronunciato neanche una battuta, ma solo imparato a guardare. Imparare a guardare, infatti, è la base per l'apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica. Molti dei narratori che conosco dipingono, non perché siano particolarmente dotati, ma perché dipingere li aiuta a scrivere. Li costringe a osservare le cose» (la traduzione è di Ottavio Fatica). «Personalmente», continua la O'Connor, «affronto i problemi letterari proprio come faceva la governante cieca del dottor Johnson quando versava il tè: metto il dito nella tazza». Ecco, in una serie di pezzetti che saranno ospitati dalla Verità (grazie) proveremo anche noi a affrontare i problemi letterari come faceva la governante cieca del dottor Johnson: mettendo un dito nella tazza. (1. Continua)
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





