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2022-09-18
Per le Marche retorica green e una mancetta
Ansa
Dopo essersi scapicollati in procura per chiedere gli inesistenti nomi dei putinani d’Italia foraggiati dalla Russia, l’inesauribile coppia della sinistra più sinistra, Bonelli & Fratoianni, ha pubblicato sui social l’ultimo manifesto elettorale dell’alleanza tra Verdi e Sinistra. Si vede una cittadina marchigiana sottacqua, sovrastata dallo slogan elettorale: «Non chiamatelo maltempo». L’alluvione che ha causato morti e devastazione diventa così, per i temerari alleati del Pd, lo slogan perfetto: utile a racimolare l’ultimo decimale. «Facciamolo», esorta l’assemblement ambientalista.
Coloro che già suggerirono di bucare le fusoliere ai jet privati per salvare il pianeta restano inarrivabili, certo. Ma la tragedia delle Marche ha scatenato la solita propaganda sul cambiamento climatico. Che rischia di trasformarsi nel perfetto alibi per giustificare l’inerzia in cui i politici tricolore, a partire da quelli che governano o hanno governato Regioni di centrosinistra, restano campionissimi. La minaccia idrogeologica riguarda centinaia di comuni. Non dall’altro ieri, ma da decenni. Se ne riparla però solo in occasione dei cataclismi. E non sarà risolta, per dirne una, con la fine dei motori termici nel 2035 decisa dalla Commissione europea.
La manutenzione del territorio, purtroppo, non è contemporanea come l’annunciata apocalisse. Bisogna rifare gli argini dei fiumi, curare le foreste, rammendare le città. Indipendentemente dal clima. E non con le ideologie, che si tramutano in alibi pure per il futuro. Perché lo cosiddette «bombe d’acqua» ci sono da secoli. Come la siccità o le alluvioni: le più catastrofiche, in Italia, capitarono a metà del secolo scorso. Gli esperti dicono che, stavolta, non si poteva prevedere la caduta di una simile quantità d’acqua. Che, in poche ore, ci sono state le precipitazioni che, di solito, si registrano in sei mesi. Non importa. La colpa rimane di chi non segue alla lettera le indicazioni che invano suggerisce la diciannovenne Greta Thunberg.
Così, il sempre agitato cambiamento climatico può diventare il pretesto che seppellisce le urgenze con futuribili interventi. Come quelli previsti nel Pnnr. A proposito. Mario Draghi promette: «Il governo farà tutto ciò che è necessario». Il premier aggiunge: «Occorre fare molto di più sul fronte dell’ambiente e del rischio idrogeologico. Quella che è una fragilità che ci portiamo dietro da secoli è ormai un’emergenza».
Il capo dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, nomina intanto il governatore delle Marche, Francesco Acquaroli, commissario delegato. L’ordinanza prevede anche interventi urgenti e assistenza alla popolazione.
Il consiglio dei ministri, dopo aver dichiarato lo stato d’emergenza nella zona, delibera anche i primi aiuti: la bellezza di cinque milioni di euro. Solo i Della Valle, gli imprenditori marchigiani del lusso, annunciano un milione «a disposizione delle popolazioni colpite». Un munifico gesto che ridicolizza la mancetta statale. Cinque milioni, quindi. Mentre alla transizione ecologica il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina quasi 72 miliardi.
Eppure, l’alluvione nelle Marche è l’irripetibile occasione per ritirare fuori propaganda e ideologia. Il neo ecologista Giuseppe Conte, leader del Movimento cinque stelle, non si sottrae: «Questa tragedia, ancora una volta, ci dice che dobbiamo contrastare i cambiamenti climatici e dobbiamo sistemare il nostro territorio. Il dissesto idrogeologico è un rischio per la nostra incolumità nostra e quella dei nostri figli». Ben detto. Difatti il governo guidato da Giuseppi è passato alla storia per le vagonate di miliardi destinati allo scopo. Anche Roberto Fico, collega di partito e soprattutto presidente della Camera dei deputati, non perde l’occasione. Chiama dunque a raccolta l’intero arco parlamentare: «L’emergenza clima deve essere al primo posto dell’agenda di tutte le forze politiche». Mentre il segretario del Pd, Enrico Letta, su Twitter scrive: «Come si fa a pensare che la lotta al cambio climatico non sia la prima priorità? Come si fa?».
E come sottrarsi dall’insopprimibile tentazione di usare l’alluvione per arringare gli italiani? Bonelli, quello della premiata coppia verderossa Bonelli & Fratoianni, fiuta l’irripetibile momento. Quando capiterà un simile disastro a pochi giorni dalle elezioni? «Di ambiente si parla solo in occasione delle catastrofi», premette furente. Ma anche lui non può esimersi: «Siamo indignati a dover commentare, a cadenza purtroppo ravvicinata, le vittime del cambiamento climatico, prima i morti della Marmolada e poi quelli nelle Marche».
Il suo inseparabile compagno di campagna elettorale, Fratoianni, leader gemello dell’alleanza Verdi-Sinistra, si scaglia contro i felloni bastian contrari: «Per anni in tanti hanno fatto a gara per negare i cambiamenti climatici e proteggere abusivi e speculatori. Ancora un evento climatico estremo, ancora una catastrofe. Tutta la nostra vicinanza e solidarietà alle cittadine e ai cittadini. Eventi disastrosi come questo non sono banale maltempo, ma fenomeni provocati dal cambiamento climatico, la più grande emergenza di questi anni». Bonelli, furente, chiosa: «La politica ipocrita piange solo quando ci sono i disastri». Meglio piuttosto trasformare la tragedia nell’ultimo slogan elettorale: «Non chiamatelo maltempo».
Mottarone: «La fune era lesionata. Strage dovuta ai pochi controlli»
La fune traente, quella che muoveva le cabine della funivia che dal versante piemontese del lago Maggiore collega Stresa al monte Mottarone, era corrosa già prima della tragedia e una corretta manutenzione avrebbe potuto evitarla.
La fune d’acciaio, infatti, presentava sul 68 per cento circa dei fili, in corrispondenza del punto di rottura, superfici di frattura ragionevolmente antecedenti rispetto alla precipitazione del 23 maggio 2021, quando si spezzò all’altezza della testa fusa (la componente che ancora le cabine alla fune traente) facendo cadere nel vuoto i 15 passeggeri. L’unico superstite è Eitan, bimbo di sei anni, conteso tra la famiglia paterna e quella materna. A 16 mesi dalla tragedia del Mottarone il pool di ingegneri incaricati dalla Procura di Verbania di risalire alle cause dell’incidente hanno depositato la loro perizia di oltre mille pagine. La conclusione, che ha confermato ciò che si è sospettato sin dal primo istante, è agghiacciante: «Una corretta attuazione dei controlli» avrebbe potuto evitare la strage. Sarebbe bastato dare un’occhiata all’impianto per «consentire», sottolineano i tecnici, «di rilevare i segnali del degrado, ovvero la presenza anche di un solo filo rotto o segni di corrosione». Le analisi mostrate nella perizia, insomma, «con ragionevole certezza ingegneristica», affermano i consulenti, «dimostrano che [...] negli ultimi mesi i controlli, peraltro non ritrovati in alcun registro, non sono stati effettuati». Inoltre, i periti ritengono «inequivocabilmente dimostrato come la rottura della fune traente [...] sia avvenuta non per eccesso di sforzo bensì per una evoluzione del degrado».
I famosi «forchettoni», elementi che sarebbero dovuti intervenire sui freni in caso di emergenza, secondo i periti sarebbero stati «inseriti già da due settimane». E, così, la cabina numero 3 della funivia sarebbe precipitata per la presenza degli «esclusori del sistema frenante di emergenza», inseriti dal personale di servizio della funivia. Un dettaglio che conferma quanto aveva ammesso pochi giorni dopo la tragedia uno degli indagati, Gabriele Tadini, ritenendo però l’ipotesi di rottura della fune un evento «impossibile».
Nei 16 giorni che hanno preceduto l’incidente, quindi, i forchettoni sarebbero stati inseriti nel 100 per cento delle 329 corse effettuate dalla cabina numero 3. E sarebbero stati attivati anche nella cabina numero 4 per 223 volte. Eventi che, sebbene finiti impressi nei video del sistema di sorveglianza, non sarebbero stati annotati sul cosiddetto registro-giornale, che secondo i periti «è risultato molto approssimativo e sicuramente censurabile in quanto inadempiente rispetto al dettato normativo». La scatola nera, inoltre, non avrebbe conservato i dati per il periodo previsto dalle norme, ossia un anno, «bensì solo per gli ultimi 8 mesi». I testimoni spiegarono nella prima fase di indagine che i forchettoni erano stati inseriti perché si verificavano frequenti malfunzionamenti. «Piuttosto che determinare l’adozione del rimedio, contrario alla normativa vigente», ammoniscono i consulenti, «si imponeva l’esecuzione di una ben più approfondita ricerca e di una assidua (anche giornaliera) verifica della fune traente in corrispondenza degli attacchi alla testa fusa». «Una perizia disposta e svolta nelle forme anticipatorie dell’incidente probatorio, non segna la fine di una vicenda ma semmai l’inizio di un confronto», ha commentato l’avvocato Andrea Da Prato, difensore del direttore di esercizio della funivia Enrico Perocchio, indagato insieme al gestore Luigi Nerini e ad altre 12 persone.
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Mario Draghi stanzia 5 milioni dopo la tragedia: a forza di parlare unicamente di transizione ecologica e dei tempi biblici del clima, ci si è dimenticati delle risorse concrete per ricostruire subito. Il governatore Francesco Acquaroli nominato commissario per l’emergenza.Mottarone: «La fune era lesionata. Strage dovuta ai pochi controlli». Una perizia attribuisce le cause del disastro del maggio 2021 all’incuria dei gestori. Lo speciale comprende due articoli.Dopo essersi scapicollati in procura per chiedere gli inesistenti nomi dei putinani d’Italia foraggiati dalla Russia, l’inesauribile coppia della sinistra più sinistra, Bonelli & Fratoianni, ha pubblicato sui social l’ultimo manifesto elettorale dell’alleanza tra Verdi e Sinistra. Si vede una cittadina marchigiana sottacqua, sovrastata dallo slogan elettorale: «Non chiamatelo maltempo». L’alluvione che ha causato morti e devastazione diventa così, per i temerari alleati del Pd, lo slogan perfetto: utile a racimolare l’ultimo decimale. «Facciamolo», esorta l’assemblement ambientalista. Coloro che già suggerirono di bucare le fusoliere ai jet privati per salvare il pianeta restano inarrivabili, certo. Ma la tragedia delle Marche ha scatenato la solita propaganda sul cambiamento climatico. Che rischia di trasformarsi nel perfetto alibi per giustificare l’inerzia in cui i politici tricolore, a partire da quelli che governano o hanno governato Regioni di centrosinistra, restano campionissimi. La minaccia idrogeologica riguarda centinaia di comuni. Non dall’altro ieri, ma da decenni. Se ne riparla però solo in occasione dei cataclismi. E non sarà risolta, per dirne una, con la fine dei motori termici nel 2035 decisa dalla Commissione europea. La manutenzione del territorio, purtroppo, non è contemporanea come l’annunciata apocalisse. Bisogna rifare gli argini dei fiumi, curare le foreste, rammendare le città. Indipendentemente dal clima. E non con le ideologie, che si tramutano in alibi pure per il futuro. Perché lo cosiddette «bombe d’acqua» ci sono da secoli. Come la siccità o le alluvioni: le più catastrofiche, in Italia, capitarono a metà del secolo scorso. Gli esperti dicono che, stavolta, non si poteva prevedere la caduta di una simile quantità d’acqua. Che, in poche ore, ci sono state le precipitazioni che, di solito, si registrano in sei mesi. Non importa. La colpa rimane di chi non segue alla lettera le indicazioni che invano suggerisce la diciannovenne Greta Thunberg.Così, il sempre agitato cambiamento climatico può diventare il pretesto che seppellisce le urgenze con futuribili interventi. Come quelli previsti nel Pnnr. A proposito. Mario Draghi promette: «Il governo farà tutto ciò che è necessario». Il premier aggiunge: «Occorre fare molto di più sul fronte dell’ambiente e del rischio idrogeologico. Quella che è una fragilità che ci portiamo dietro da secoli è ormai un’emergenza».Il capo dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, nomina intanto il governatore delle Marche, Francesco Acquaroli, commissario delegato. L’ordinanza prevede anche interventi urgenti e assistenza alla popolazione. Il consiglio dei ministri, dopo aver dichiarato lo stato d’emergenza nella zona, delibera anche i primi aiuti: la bellezza di cinque milioni di euro. Solo i Della Valle, gli imprenditori marchigiani del lusso, annunciano un milione «a disposizione delle popolazioni colpite». Un munifico gesto che ridicolizza la mancetta statale. Cinque milioni, quindi. Mentre alla transizione ecologica il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina quasi 72 miliardi. Eppure, l’alluvione nelle Marche è l’irripetibile occasione per ritirare fuori propaganda e ideologia. Il neo ecologista Giuseppe Conte, leader del Movimento cinque stelle, non si sottrae: «Questa tragedia, ancora una volta, ci dice che dobbiamo contrastare i cambiamenti climatici e dobbiamo sistemare il nostro territorio. Il dissesto idrogeologico è un rischio per la nostra incolumità nostra e quella dei nostri figli». Ben detto. Difatti il governo guidato da Giuseppi è passato alla storia per le vagonate di miliardi destinati allo scopo. Anche Roberto Fico, collega di partito e soprattutto presidente della Camera dei deputati, non perde l’occasione. Chiama dunque a raccolta l’intero arco parlamentare: «L’emergenza clima deve essere al primo posto dell’agenda di tutte le forze politiche». Mentre il segretario del Pd, Enrico Letta, su Twitter scrive: «Come si fa a pensare che la lotta al cambio climatico non sia la prima priorità? Come si fa?». E come sottrarsi dall’insopprimibile tentazione di usare l’alluvione per arringare gli italiani? Bonelli, quello della premiata coppia verderossa Bonelli & Fratoianni, fiuta l’irripetibile momento. Quando capiterà un simile disastro a pochi giorni dalle elezioni? «Di ambiente si parla solo in occasione delle catastrofi», premette furente. Ma anche lui non può esimersi: «Siamo indignati a dover commentare, a cadenza purtroppo ravvicinata, le vittime del cambiamento climatico, prima i morti della Marmolada e poi quelli nelle Marche». Il suo inseparabile compagno di campagna elettorale, Fratoianni, leader gemello dell’alleanza Verdi-Sinistra, si scaglia contro i felloni bastian contrari: «Per anni in tanti hanno fatto a gara per negare i cambiamenti climatici e proteggere abusivi e speculatori. Ancora un evento climatico estremo, ancora una catastrofe. Tutta la nostra vicinanza e solidarietà alle cittadine e ai cittadini. Eventi disastrosi come questo non sono banale maltempo, ma fenomeni provocati dal cambiamento climatico, la più grande emergenza di questi anni». Bonelli, furente, chiosa: «La politica ipocrita piange solo quando ci sono i disastri». Meglio piuttosto trasformare la tragedia nell’ultimo slogan elettorale: «Non chiamatelo maltempo».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-le-marche-retorica-green-e-una-mancetta-2658256012.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mottarone-la-fune-era-lesionata-strage-dovuta-ai-pochi-controlli" data-post-id="2658256012" data-published-at="1663440241" data-use-pagination="False"> Mottarone: «La fune era lesionata. Strage dovuta ai pochi controlli» La fune traente, quella che muoveva le cabine della funivia che dal versante piemontese del lago Maggiore collega Stresa al monte Mottarone, era corrosa già prima della tragedia e una corretta manutenzione avrebbe potuto evitarla. La fune d’acciaio, infatti, presentava sul 68 per cento circa dei fili, in corrispondenza del punto di rottura, superfici di frattura ragionevolmente antecedenti rispetto alla precipitazione del 23 maggio 2021, quando si spezzò all’altezza della testa fusa (la componente che ancora le cabine alla fune traente) facendo cadere nel vuoto i 15 passeggeri. L’unico superstite è Eitan, bimbo di sei anni, conteso tra la famiglia paterna e quella materna. A 16 mesi dalla tragedia del Mottarone il pool di ingegneri incaricati dalla Procura di Verbania di risalire alle cause dell’incidente hanno depositato la loro perizia di oltre mille pagine. La conclusione, che ha confermato ciò che si è sospettato sin dal primo istante, è agghiacciante: «Una corretta attuazione dei controlli» avrebbe potuto evitare la strage. Sarebbe bastato dare un’occhiata all’impianto per «consentire», sottolineano i tecnici, «di rilevare i segnali del degrado, ovvero la presenza anche di un solo filo rotto o segni di corrosione». Le analisi mostrate nella perizia, insomma, «con ragionevole certezza ingegneristica», affermano i consulenti, «dimostrano che [...] negli ultimi mesi i controlli, peraltro non ritrovati in alcun registro, non sono stati effettuati». Inoltre, i periti ritengono «inequivocabilmente dimostrato come la rottura della fune traente [...] sia avvenuta non per eccesso di sforzo bensì per una evoluzione del degrado». I famosi «forchettoni», elementi che sarebbero dovuti intervenire sui freni in caso di emergenza, secondo i periti sarebbero stati «inseriti già da due settimane». E, così, la cabina numero 3 della funivia sarebbe precipitata per la presenza degli «esclusori del sistema frenante di emergenza», inseriti dal personale di servizio della funivia. Un dettaglio che conferma quanto aveva ammesso pochi giorni dopo la tragedia uno degli indagati, Gabriele Tadini, ritenendo però l’ipotesi di rottura della fune un evento «impossibile». Nei 16 giorni che hanno preceduto l’incidente, quindi, i forchettoni sarebbero stati inseriti nel 100 per cento delle 329 corse effettuate dalla cabina numero 3. E sarebbero stati attivati anche nella cabina numero 4 per 223 volte. Eventi che, sebbene finiti impressi nei video del sistema di sorveglianza, non sarebbero stati annotati sul cosiddetto registro-giornale, che secondo i periti «è risultato molto approssimativo e sicuramente censurabile in quanto inadempiente rispetto al dettato normativo». La scatola nera, inoltre, non avrebbe conservato i dati per il periodo previsto dalle norme, ossia un anno, «bensì solo per gli ultimi 8 mesi». I testimoni spiegarono nella prima fase di indagine che i forchettoni erano stati inseriti perché si verificavano frequenti malfunzionamenti. «Piuttosto che determinare l’adozione del rimedio, contrario alla normativa vigente», ammoniscono i consulenti, «si imponeva l’esecuzione di una ben più approfondita ricerca e di una assidua (anche giornaliera) verifica della fune traente in corrispondenza degli attacchi alla testa fusa». «Una perizia disposta e svolta nelle forme anticipatorie dell’incidente probatorio, non segna la fine di una vicenda ma semmai l’inizio di un confronto», ha commentato l’avvocato Andrea Da Prato, difensore del direttore di esercizio della funivia Enrico Perocchio, indagato insieme al gestore Luigi Nerini e ad altre 12 persone.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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