2022-09-18
Per le Marche retorica green e una mancetta
Mario Draghi stanzia 5 milioni dopo la tragedia: a forza di parlare unicamente di transizione ecologica e dei tempi biblici del clima, ci si è dimenticati delle risorse concrete per ricostruire subito. Il governatore Francesco Acquaroli nominato commissario per l’emergenza.Mottarone: «La fune era lesionata. Strage dovuta ai pochi controlli». Una perizia attribuisce le cause del disastro del maggio 2021 all’incuria dei gestori. Lo speciale comprende due articoli.Dopo essersi scapicollati in procura per chiedere gli inesistenti nomi dei putinani d’Italia foraggiati dalla Russia, l’inesauribile coppia della sinistra più sinistra, Bonelli & Fratoianni, ha pubblicato sui social l’ultimo manifesto elettorale dell’alleanza tra Verdi e Sinistra. Si vede una cittadina marchigiana sottacqua, sovrastata dallo slogan elettorale: «Non chiamatelo maltempo». L’alluvione che ha causato morti e devastazione diventa così, per i temerari alleati del Pd, lo slogan perfetto: utile a racimolare l’ultimo decimale. «Facciamolo», esorta l’assemblement ambientalista. Coloro che già suggerirono di bucare le fusoliere ai jet privati per salvare il pianeta restano inarrivabili, certo. Ma la tragedia delle Marche ha scatenato la solita propaganda sul cambiamento climatico. Che rischia di trasformarsi nel perfetto alibi per giustificare l’inerzia in cui i politici tricolore, a partire da quelli che governano o hanno governato Regioni di centrosinistra, restano campionissimi. La minaccia idrogeologica riguarda centinaia di comuni. Non dall’altro ieri, ma da decenni. Se ne riparla però solo in occasione dei cataclismi. E non sarà risolta, per dirne una, con la fine dei motori termici nel 2035 decisa dalla Commissione europea. La manutenzione del territorio, purtroppo, non è contemporanea come l’annunciata apocalisse. Bisogna rifare gli argini dei fiumi, curare le foreste, rammendare le città. Indipendentemente dal clima. E non con le ideologie, che si tramutano in alibi pure per il futuro. Perché lo cosiddette «bombe d’acqua» ci sono da secoli. Come la siccità o le alluvioni: le più catastrofiche, in Italia, capitarono a metà del secolo scorso. Gli esperti dicono che, stavolta, non si poteva prevedere la caduta di una simile quantità d’acqua. Che, in poche ore, ci sono state le precipitazioni che, di solito, si registrano in sei mesi. Non importa. La colpa rimane di chi non segue alla lettera le indicazioni che invano suggerisce la diciannovenne Greta Thunberg.Così, il sempre agitato cambiamento climatico può diventare il pretesto che seppellisce le urgenze con futuribili interventi. Come quelli previsti nel Pnnr. A proposito. Mario Draghi promette: «Il governo farà tutto ciò che è necessario». Il premier aggiunge: «Occorre fare molto di più sul fronte dell’ambiente e del rischio idrogeologico. Quella che è una fragilità che ci portiamo dietro da secoli è ormai un’emergenza».Il capo dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, nomina intanto il governatore delle Marche, Francesco Acquaroli, commissario delegato. L’ordinanza prevede anche interventi urgenti e assistenza alla popolazione. Il consiglio dei ministri, dopo aver dichiarato lo stato d’emergenza nella zona, delibera anche i primi aiuti: la bellezza di cinque milioni di euro. Solo i Della Valle, gli imprenditori marchigiani del lusso, annunciano un milione «a disposizione delle popolazioni colpite». Un munifico gesto che ridicolizza la mancetta statale. Cinque milioni, quindi. Mentre alla transizione ecologica il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina quasi 72 miliardi. Eppure, l’alluvione nelle Marche è l’irripetibile occasione per ritirare fuori propaganda e ideologia. Il neo ecologista Giuseppe Conte, leader del Movimento cinque stelle, non si sottrae: «Questa tragedia, ancora una volta, ci dice che dobbiamo contrastare i cambiamenti climatici e dobbiamo sistemare il nostro territorio. Il dissesto idrogeologico è un rischio per la nostra incolumità nostra e quella dei nostri figli». Ben detto. Difatti il governo guidato da Giuseppi è passato alla storia per le vagonate di miliardi destinati allo scopo. Anche Roberto Fico, collega di partito e soprattutto presidente della Camera dei deputati, non perde l’occasione. Chiama dunque a raccolta l’intero arco parlamentare: «L’emergenza clima deve essere al primo posto dell’agenda di tutte le forze politiche». Mentre il segretario del Pd, Enrico Letta, su Twitter scrive: «Come si fa a pensare che la lotta al cambio climatico non sia la prima priorità? Come si fa?». E come sottrarsi dall’insopprimibile tentazione di usare l’alluvione per arringare gli italiani? Bonelli, quello della premiata coppia verderossa Bonelli & Fratoianni, fiuta l’irripetibile momento. Quando capiterà un simile disastro a pochi giorni dalle elezioni? «Di ambiente si parla solo in occasione delle catastrofi», premette furente. Ma anche lui non può esimersi: «Siamo indignati a dover commentare, a cadenza purtroppo ravvicinata, le vittime del cambiamento climatico, prima i morti della Marmolada e poi quelli nelle Marche». Il suo inseparabile compagno di campagna elettorale, Fratoianni, leader gemello dell’alleanza Verdi-Sinistra, si scaglia contro i felloni bastian contrari: «Per anni in tanti hanno fatto a gara per negare i cambiamenti climatici e proteggere abusivi e speculatori. Ancora un evento climatico estremo, ancora una catastrofe. Tutta la nostra vicinanza e solidarietà alle cittadine e ai cittadini. Eventi disastrosi come questo non sono banale maltempo, ma fenomeni provocati dal cambiamento climatico, la più grande emergenza di questi anni». Bonelli, furente, chiosa: «La politica ipocrita piange solo quando ci sono i disastri». Meglio piuttosto trasformare la tragedia nell’ultimo slogan elettorale: «Non chiamatelo maltempo».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-le-marche-retorica-green-e-una-mancetta-2658256012.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mottarone-la-fune-era-lesionata-strage-dovuta-ai-pochi-controlli" data-post-id="2658256012" data-published-at="1663440241" data-use-pagination="False"> Mottarone: «La fune era lesionata. Strage dovuta ai pochi controlli» La fune traente, quella che muoveva le cabine della funivia che dal versante piemontese del lago Maggiore collega Stresa al monte Mottarone, era corrosa già prima della tragedia e una corretta manutenzione avrebbe potuto evitarla. La fune d’acciaio, infatti, presentava sul 68 per cento circa dei fili, in corrispondenza del punto di rottura, superfici di frattura ragionevolmente antecedenti rispetto alla precipitazione del 23 maggio 2021, quando si spezzò all’altezza della testa fusa (la componente che ancora le cabine alla fune traente) facendo cadere nel vuoto i 15 passeggeri. L’unico superstite è Eitan, bimbo di sei anni, conteso tra la famiglia paterna e quella materna. A 16 mesi dalla tragedia del Mottarone il pool di ingegneri incaricati dalla Procura di Verbania di risalire alle cause dell’incidente hanno depositato la loro perizia di oltre mille pagine. La conclusione, che ha confermato ciò che si è sospettato sin dal primo istante, è agghiacciante: «Una corretta attuazione dei controlli» avrebbe potuto evitare la strage. Sarebbe bastato dare un’occhiata all’impianto per «consentire», sottolineano i tecnici, «di rilevare i segnali del degrado, ovvero la presenza anche di un solo filo rotto o segni di corrosione». Le analisi mostrate nella perizia, insomma, «con ragionevole certezza ingegneristica», affermano i consulenti, «dimostrano che [...] negli ultimi mesi i controlli, peraltro non ritrovati in alcun registro, non sono stati effettuati». Inoltre, i periti ritengono «inequivocabilmente dimostrato come la rottura della fune traente [...] sia avvenuta non per eccesso di sforzo bensì per una evoluzione del degrado». I famosi «forchettoni», elementi che sarebbero dovuti intervenire sui freni in caso di emergenza, secondo i periti sarebbero stati «inseriti già da due settimane». E, così, la cabina numero 3 della funivia sarebbe precipitata per la presenza degli «esclusori del sistema frenante di emergenza», inseriti dal personale di servizio della funivia. Un dettaglio che conferma quanto aveva ammesso pochi giorni dopo la tragedia uno degli indagati, Gabriele Tadini, ritenendo però l’ipotesi di rottura della fune un evento «impossibile». Nei 16 giorni che hanno preceduto l’incidente, quindi, i forchettoni sarebbero stati inseriti nel 100 per cento delle 329 corse effettuate dalla cabina numero 3. E sarebbero stati attivati anche nella cabina numero 4 per 223 volte. Eventi che, sebbene finiti impressi nei video del sistema di sorveglianza, non sarebbero stati annotati sul cosiddetto registro-giornale, che secondo i periti «è risultato molto approssimativo e sicuramente censurabile in quanto inadempiente rispetto al dettato normativo». La scatola nera, inoltre, non avrebbe conservato i dati per il periodo previsto dalle norme, ossia un anno, «bensì solo per gli ultimi 8 mesi». I testimoni spiegarono nella prima fase di indagine che i forchettoni erano stati inseriti perché si verificavano frequenti malfunzionamenti. «Piuttosto che determinare l’adozione del rimedio, contrario alla normativa vigente», ammoniscono i consulenti, «si imponeva l’esecuzione di una ben più approfondita ricerca e di una assidua (anche giornaliera) verifica della fune traente in corrispondenza degli attacchi alla testa fusa». «Una perizia disposta e svolta nelle forme anticipatorie dell’incidente probatorio, non segna la fine di una vicenda ma semmai l’inizio di un confronto», ha commentato l’avvocato Andrea Da Prato, difensore del direttore di esercizio della funivia Enrico Perocchio, indagato insieme al gestore Luigi Nerini e ad altre 12 persone.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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